Secessione e lotta di classe

Vent’anni or sono, sotto il fuoco dei cannoni serbi moriva Sarajevo, la città multietnica e multireligiosa, la città più cosmopolita dell’Est Europa. La demolizione delle sue case e l’incendio della sua biblioteca, la dissoluzione delle sue famiglie miste, costituivano l’atto finale, il punto di arrivo di una strategia finalizzata alla dissoluzione
dell’edificio costruito nei Balcani attraverso la federazione jugoslava per permettere a popoli diversi di convivere in pace.
La dissoluzione era cominciata con la riforma della scuola, quando gli alunni erano stati divisi in classi omogenee per etnia e religione; così era stata insegnata ai ragazzi la diversità, così avevano imparato a non conoscersi e poi a odiarsi. Quando furono in grado di imbracciare un fucile scoppiò la guerra. I soldi ce li mise la Germania, interessata a creare un immenso esercito di riserva per il proprio mercato del lavoro e un luogo dove esternalizzare le proprie produzioni inquinanti e nocive. A benedire l’operazione pensò Giovanni Paolo II, così innamorato della pace da riconoscere subito la Croazia indipendente e cattolica.
La dissoluzione jugoslava non poteva bastare e occorreva fare la stessa cosa con altri paesi, primo tra tutti l’Italia per smembrarne le capacità produttive di paese manifatturiero, eliminando un pericoloso concorrente. L’obiettivo: creare al centro dell’Europa un’area forte, egemonizzata dal capitale e dalla finanza tedesca, delle macro regioni che in un’Europa dalle nazionalità attenuate potesse costituire il fulcro politico ed economico del continente. In Italia a condurre il gioco venne chiamata una formazione politica appena nata, la Lega Nord, la quale si fece carico di proporre la secessione delle regioni del Nord del paese e si offrì di gestire la transizione verso il nuovo ordine dando il proprio sostegno politico a un partito personale, anch’esso appena nato, che avrebbe dovuto gestire la liquidazione dello Stato nazionale attraverso una sistematica spoliazione delle sue risorse. L’era berlusconiano-leghista che abbiamo vissuto e subìto ha eroso valori e picconato il patto di convivenza sottoscritto con la Costituzione repubblicana e nato dalla lotta antifascista.
Per qualche tempo le cose funzionarono e il processo andò avanti, poi le cose cominciarono a cambiare nei mercati, nella divisione internazionale del lavoro, nei rapporti tra le diverse aree del mondo.
Globalizzazione accentuata e delocalizzazione produttiva sconvolsero l’assetto dei territori, mentre la speculazione finanziaria travolgeva un mondo costruito a immagine e somiglianza del monetarismo.

I nuovi scenari in Europa e la crisi italiana

Per vent’anni l’Italia è stata prigioniera dell’alleanza tra Berlusconi e la Lega. In questo lasso di tempo la spinta propulsiva leghista ha abbandonato le rive del Po per quelle del Tevere, e il movimento leghista ha fatto emergere la propria indole parassitaria, spartitoria-appropriativa e affaristica, strappando scampoli di  federalismo improbabile, confuso e incerto all’alleato di governo. Gli equilibri creatisi facevano comodo a tutti
perché grazie a queste coperture il padronato italiano poteva destrutturare il mercato del lavoro costruendo due mercati paralleli: quello degli occupati a tempo indeterminato e quello, crescente, del mercato del lavoro precario.
A questo progetto hanno lavorato tutti, con accenti leggermente, molto leggermente, diversi. La ristrutturazione del lavoro porta infatti la firma di Treu e quella di Biagi e di tanti altri come loro, un esercito di docenti di diritto del lavoro e di economisti che – tutti – studiavano ogni artificio per smantellare le garanzie conquistate dai lavoratori nel ciclo di lotte precedenti. Si è certamente trattato di comportamenti dettati da scelte economiche produttive, ma quel che è avvenuto merita qualche riflessione anche sul piano soggettivo e dei comportamenti individuali.
Gli economisti e i lavoristi italiani nel ciclo di lotte precedenti avevano stretto un’alleanza con le organizzazioni sindacali dei lavoratori; molti di loro, soggettivamente, lavoravano per i sindacati, si alimentavano con le quote degli associati, svolgendo lavori di consulenza, di assistenza, si procuravano clienti nelle vertenze di lavoro, costruendo le loro fortune economiche con l’attività avvocatesca. Ingrassati dai lauti proventi della vertenzialità delle controversie di lavoro, satolli dei profitti ricavati, al mutare della congiuntura economica e politica, cambiarono bandiera e si misero alacremente a distruggere quell’edificio di garanzie che avevano contribuito a costruire. Ne furono ripagati con posti di governo e sottogoverno, con cattedre universitarie, con lauti contratti di consulenza. Le loro vicende personali testimoniano della miseria umana e
della mancanza assoluta di onestà intellettuale, confermano che alla fine prevale la collocazione di classe e l’interesse su ogni scelta ideologica.

I costi dei partiti
a) La legge sui “rimborsi elettorali” è stata “aggiornata” dalla legge n. 515 del 10 dicembre 1993 per aggirare il referendum che nell’aprile dello stesso anno aveva abrogato quella di finanziamento ai partiti.
b) La legge n. 2 del 2 gennaio 1997 intitolata “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici” reintroduce di fatto il finanziamento pubblico ai partiti.
c) La legge n. 157 del 3 giugno 1999, contenente “Nuove norme in materia di rimborso delle spese elettorali e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici”, prende atto del fallimento del tentativo di reperire il finanziamento dei partiti attraverso la destinazione volontaria del 4 per mille dell’Irpef.
Con questa legge viene reintrodotto il finanziamento pubblico completo per i partiti
d) Dalla sua approvazione ad oggi la legge sui rimborsi ha riversato nelle casse dei partiti 2 miliardi e 300 milioni di euro. Si calcola che complessivamente i partiti abbiano speso per le elezioni non più di 450 milioni
E del resto cosa ne fanno ?

Alla disarticolazione del tessuto istituzionale del paese si sostituì così quella della società e del blocco sociale che aveva fatto da motore allo sviluppo della società, del benessere, delle libertà civili. In questo nuovo quadro le richieste di federalismo e di secessione finirono per perdere importanza e centralità anche per i committenti che avevano voluto la crescita di queste forze. Il tessuto produttivo delle aree destinate a far parte della macroregione voluta dai leghisti si andò deteriorando sotto la spinta della delocalizzazione, della crisi economica e produttiva, del mutare dei rapporti di classe. I sostenitori del localismo produttivo provarono a teorizzare e praticare una sorta di economia neocurtense che avrebbe dovuto assicurare la sopravvivenza di isole produttive autosufficienti, ma a dare l’ultima spallata a questo progetto ha provveduto la speculazione finanziaria, producendo gli attuali scenari di crisi.

Dove non riuscirono gli scandali potette il mercato

Come è noto e chiaro ormai a tutti la sostituzione di persona operata con il governo Monti ha rimosso il soggetto impresentabile per sostituirlo con uno dotato delle opportune coperture nel gotha internazionale, uno di buona reputazione e di solide amicizie tra i potenti chiamato a fare il lavoro sporco al posto di un governo ormai screditato. Nel vecchio quadro politico non sarebbe stato possibile abbattere le pensioni sociali, modificare l’articolo 18, aumentare le tasse dei meno abbienti. Nel vecchio quadro politico non sarebbe stato possibile scaricare un partito federalista come la Lega, mentre c’era bisogno del centralismo per drenare le risorse (emblematica la destinazione dell’IMU). In quello nuovo sì.
Ma estromettere dal governo non basta quando è cambiato il disegno complessivo e lo Stato non può dissolversi perché deve continuare ad alimentare il mercato del debito pubblico senza il quale il meccanismo di drenaggio delle risorse non funzionerebbe. Il mercato non può permettersi il default, non può permettersi secessioni, scomparse di Stati sovrani titolari di obblighi finanziari ineludibili.
Torna perciò utile una vicenda di ladri di polli, un commercio di scontrini, fatture di dentisti, di lavori edili, di titoli di studio da tempo conosciuti da chi per anni è stato alla guida del Ministero degli Interni e ora si candida a guidare la Lega. La convergenza degli interessi in campo esige che questo movimento si rigeneri, che si dia un nuovo quadro dirigente, capace di gestire la transizione verso un suo nuovo ruolo che, tramontata la dissoluzione degli Stati nazionali, sia in grado di rielaborare un progetto di riaggregazione localistica in un diverso contesto di relazioni internazionali.

Forza del localismo e lo sterminio dei popoli

Benché gli effetti della strategia di dissoluzione degli Stati nazionali abbia avuto nei Balcani e in Italia caratteristiche molto diverse non vi sono giustificazioni possibili alle sofferenze e al dolore che questa politica ha provocato al di là dell’Adriatico e alla perdita di diritti che ha prodotto e sta producendo in Italia. Nei nuovi scenari delle relazioni internazionali oggi i popoli balcanici cercano una ricomposizione all’interno dell’Unione Europea della loro unità, ma hanno pagato il prezzo di una diminuzione complessiva del loro tenore di vita e delle aspettative di vita delle popolazioni tanto da essere in linea con le preoccupazioni della Banca Mondiale.
Nei Balcani infatti la diminuzione della vita media è già avvenuta e i sistemi pensionistici e di welfare hanno avuto per effetto delle divisioni e della guerra un drastico ridimensionamento.
L’Italia invece, benché sia un paese sempre più povero deve dimagrire sia la spesa sanitaria che quella pensionistica. Insomma in Italia si vive troppo a lungo. La destrutturazione del mercato del lavoro, i lavori precari sempre più numerosi, permettono di ipotizzare il contenimento della spesa, ma molto può e deve essere
ancora fatto in questa direzione.
Le diverse forze politiche si vanno riposizionando nella strategia per raggiungere questo obiettivo.
L’attenzione perciò non deve andare solo alle posizioni future della Lega o a quelle del trio della morte (i partiti dell’ A B C ), ma alle lotte che i lavoratori riusciranno a metter in campo in difesa delle proprie condizioni di vita. Intorno a parti del sindacato come la FIOM o a movimenti di opposizione sociale dobbiamo riuscire a costruire non solo una forte solidarietà ma un’alleanza che si estenda al proletariato e ai ceti proletarizzati degli altri paesi d’Europa per la lotta contro le politiche recessive, la diminuzione dei servizi sociali, la riduzione delle possibilità di vita.

Gianni Cimbalo