Le ragioni della laicità – 1. Noi e l’Islam

Questo è il primo di tre interventi dedicati a ciò che pensano i comunisti anarchici delle tre “religioni del libro” [ebraismo, cristianesimo e islamismo]. Iniziamo dall’illustrare la nostra posizione sull’Islam.
L’anarchismo comunista, fa proprio il metodo materialista storico d’indagine della realtà e lo utilizza come strumento di lettura della storia. E’ perciò ben consapevole che il bisogno di un Dio risale all’infanzia degli esseri umani, quando essi non avevano elaborato strumenti di conoscenza dell’universo. La finitezza della vita degli esseri umani ha alimentato il bisogno individuale di un Dio cercato nella natura, nel nascere e
decadere fino a trasformarsi di esseri animati e inanimati. Dall’osservazione dei processi di vita deriva l’animismo che è forse la prima forma di elaborazione filosofica relativa alla condizione umana. Così gli esseri umani arrivano a pensare di essere parte della natura e creano un collegamento tra la vita e la morte che diviene il momento del passaggio e della reincarnazione in una pianta, un fiume, un albero.
Con lo sviluppo delle forme associate di vita, con la nascita delle città anche la religione assume nuove forme e a Dio come agli uomini si dedica una casa, un tempio, un luogo. Il rito nasce e si struttura così come avviene con la funzione e il potere sacerdotale, come accessorio del potere temporale e come supporto a esso.
Intorno al bisogno di Dio nasce l’organizzazione dei suoi servi e dei suoi fedeli che ben presto si strutturava in comunità religiosa, assumendo i contorni di elemento identitario rispetto a un gruppo più o meno esteso di persone costituito dai fedeli a quel Dio.
Accanto al credente in un Dio si strutturava la confessione religiosa che rivendicava il diritto all’esercizio e alla funzione pubblica del culto, lo organizzava e lo finalizzava a una visione specifica della struttura sociale, disegnando e cristallizzando rapporti e relazioni fra gli individui, rivendicando alla casta sacerdotale una funzione preminente nell’esercizio degli atti devozionali.
Ebbene l’anarchismo comunista rivendica la veridicità di questa ricostruzione storica e opera una prima distinzione tra bisogno religioso dell’individuo e attività associata di culto. Mentre considera il primo una componente della condizione umana e ritiene che solo la natura sociale dell’uomo, l’amore, la solidarietà, l’amicizia, il rifiuto della guerra, coltivati collettivamente possono aiutare l’essere umano a liberarsi del bisogno di Dio, sostiene che la struttura confessionale che viene costituita nella società nel nome di un Dio sia il naturale strumento del potere, pronta a mettersi al servizio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Sono i rapporti produttivi, la loro configurazione, l’accumularsi nelle mani della comunità religiosa di beni e risorse economiche a produrre quell’inevitabile turbamento di una possibile armonia sociale che esige un’attenta vigilanza della comunità sulle attività delle confessioni religiose alle quali le organizzazioni comuniste anarchiche che si creano nella società si contrappongono a livello politico, contrastando il loro operare nel sociale. L’avevano già capito movimenti ereticali come gli anabattisti ed è perciò che furono sterminati; in modo più maturo ed analitico ne assumono consapevolezza le masse operaie.
Nasce da queste considerazioni – che sono in questo scritto occasione necessariamente sintetiche – “l’anticlericalismo” dei comunisti anarchici, la loro laicità intesa e utilizzata come metodo131 di governo della società, l’accettazione del pluralismo e quindi la scelta della tolleranza relativamente alla presenza di opzioni
religiose diverse, la battaglia per la libertà religiosa e di coscienza come diritto assoluto da rispettare per tutte e tutti, la lotta contro le istituzioni ecclesiastiche, comunque denominate. Rileva qui la differenza di approccio rispetto al marxismo e soprattutto alle forme di Stato alle quali esso da vita: per il comunismo anarchico è inutile e controproducente l’ateismo di stato, necessaria la libertà di coscienza, indispensabile la lotta contro le forme associate di comunità religiose con le quali invece spesso gli stati di democrazia socialista cercano e realizzano accordi, inglobandole a livello istituzionale, magari per meglio controllarle. Non è un caso, ad esempio che i vertici della Chiesa ortodossa russa facessero parte integrante delle istituzioni e del partito
comunista.

La struttura sociale dell’Islam

Per spiegare la posizione dei comunisti anarchici sull’Islam l’analisi deve dunque necessariamente spostarsi sul progetto di società che questa religione si propone di realizzare. I comunisti anarchici sanno bene che non esiste un solo Islam, ma tanti Islam, né sono così stupidi [come è invece il Governo italiano che nell’intento di controllare le differenti componenti islamiche ha costituito la cosiddetta “Consulta islamica”] dal pensare che le varie correnti dell’Islam possano essere unitariamente rappresentate. Non vi è chi non veda quante differenze possono esserci tra un islamico indonesiano e uno statunitense, un saudita e un turco, e questo al di la’ e oltre le tradizionali divisioni e differenze ad esempio tra sunniti e sciiti.
Ci sono tuttavia dei tratti comuni che caratterizzano l’Islam ai quali è necessario fare riferimento per costruire la nostra posizione sull’Islam e la sua visione della società. Uno dei principi fondamentali dell’Islam è il credere che tutte le cose appartengano a Dio e che il benessere appartiene solo agli uomini meritevoli, i quali tuttavia devono pagare la zakàt, una tassa annuale del 2,5 % sul capitale in eccesso a quello necessario per i bisogni primari, da devolvere ai poveri purché mussulmani. Infatti, secondo la visione mussulmana della società, il potere temporale non ha il dovere di assistere i poveri, ma solo quello di assicurare l’ordine pubblico.
Per superare tale carenza venne creato il waqf, che fin dalle origini appare come il principale strumento con il quale, non solo sovrani e alti funzionari, ma anche ricchi commercianti e proprietari terrieri, fornivano per sé e per i propri concittadini servizi pubblici basilari. La carità faceva dunque da calmiere alle diseguaglianze sociali ed economiche, contribuendo così a mantenere l’ordine. Ancora oggi nella gran parte dei
paesi islamici sono le strutture confessionali a gestire i waqf, e attraverso queste istituzioni a svolgere attività di proselitismo, guadagnando consensi. Con il termine waqf s’indica dunque un bene in manomorta, ossia una fondazione pia islamica, finendo per dar vita a una rete di strutture, equivalente a quella  he la Chiesa cattolica
ha costruito ad esempio in Italia, fatta di asili e ospizi, case di cura e ospedali, mense e ricoveri, ecc. che costituisce l’apparato della confessione attraverso il quale da un lato si fa profitto e dall’altro proseliti.
Questo modo di dare una soluzione alle diseguaglianze sociali rappresenta a nostro avviso una visione liberista della società che non condividiamo per molti motivi:
a) vi è una selezione dei beneficati su base religiosa e confessionale, per cui l’appartenenza religiosa da diritto a un trattamento privilegiato;
b) è il privato a farsi cura delle strutture sociali di sostegno della società civile, con ogni conseguenza relativa alla selezione dei destinatari del servizio che è comunque religiosamente caratterizzato;
c) per questa via si sceglie la scuola confessionale come luogo di formazione e si priva la società di quello strumento di sviluppo sociale che grazie ad una scuola pubblica e libera consente a tutti di ascendere i più alti gradi dell’istruzione e realizzare un tendenziale principio di uguaglianza;
d) si crea una struttura statica della società, senza nessuna garanzia per coloro che volessero evolvere la loro posizione verso la libertà di coscienza, in quanto il non credere è considerato un reato da punire con la morte.

Attualità dell’Islam

Uno degli errori più frequenti che si fanno quando si discute di Islam è quello di pensare che esso è portatore di concezioni e convinzioni retrograde e superate in una società moderna. Si sottovaluta così il fascino di questa visione solidaristica e privatistica della società, che assegna un ruolo centrale alla figura di Dio che fa della sua legge la legge dello Stato, che propaganda valori come il rifiuto dell’usura o la sottomissione della donna, soddisfacendo così l’orgoglio maschile, che si avvale in campo bancario di strumenti contrattuali che prevedono la compartecipazione delle banche islamiche nell’investimento del cliente, creando così una situazione simile al modus operandi delle banche tedesche, più moderne, che tende a creare una solidarietà basata sulla fede comune in una società che non conosce più solidarietà.
Succede così che l’Islam riscuota un grande successo nell’organizzare enclave culturali e politiche anche all’interno di società occidentalizzate e che si offra come un’alternativa sul mercato globale delle agenzie che collocano sul mercato il sacro, espandendo la sua influenza e volendo rappresentare una valida alternativa alla visione occidentale della società e alla sua organizzazione.
Abbiamo osservato con simpatia lo sforzo delle società dei paesi della riva Sud del Mediterraneo e di tutta la fascia araba che corre dall’Oceano Atlantico al golfo Persico per ricercare forme più giuste di rapporti sociali e produttivi e pensavamo che la strada verso una visione globale di questi rapporti fosse stata ormai inevitabilmente intrapresa. Ci siamo dovuti rendere conto, e ancor più dovremmo farlo, della forza nell’immediato che hanno le organizzazioni religiose islamiche nel proporre la loro visione di società dove la componente neoliberista della struttura sociale, interpretata in chiave islamista, fornisce quell’armamentario teorico e istituzionale per consolidare e mantenere il dominio delle classi più abbienti e che detengono il controllo delle strutture economiche e produttive.
Rilevare questo bisogno non significa ignorare che ad esempio le manifestazioni di piazza Tahrir sono state precedute da un grande e profondo ciclo di scioperi indetti da una classe operaia piegata dalla crisi e dall’aumento delle derrate alimentari, ma parimenti non si può ignorare che l’asse centrale del programma dei partiti islamici punta proprio sul rilancio del ruolo del waqf, riproponendo una struttura sostanzialmente
liberista della visione di ciò che devono essere i servizi pubblici.
Al contrario le forze di sinistra di questi paesi, che pure vi sono, non sembrano aver approfondito l’analisi di ciò che si va elaborando nel mondo, a partire da Occupy Wall Street, sul concetto di beni comuni e sulla necessità strategica di mantenerne una gestione pubblica. La sinistra di classe in occidente ha ripreso le proprie analisi sul ruolo dello Stato e dei servizi pubblici e fa ancora fatica a capire l’inganno nascosto dietro alla formula di servizi universali concepiti come modalità di erogazione di servizi collettivi ai cittadini [modalità elaborata non a caso dal pensiero sociale cattolico] e la richiesta del capitale di abbandono del concetto di servizio pubblico. Parimenti le popolazioni islamizzate, interessati dalle cosiddette primavere arabe, trovano difficoltà ancora maggiore a capire che il problema delle modalità di gestione delle grandi risorse
energetiche, il fatto che esse vengano considerate e gestite come beni comuni, ha un’importanza strategica nelle lotte per l’affrancamento dallo sfruttamento e dal bisogno.
L’ostacolo verso questa libertà è costituito proprio dalla sovrastruttura religiosa, dalla configurazione stessa della legge islamica e perciò anche i popoli di cultura mussulmana hanno un forte bisogno di laicità.

L’islam delle comunità migranti

Dobbiamo evitare di pensare che il problema di misurarsi con i caratteri propri di società islamizzate sia proprio di altri contesti, geografici, politici e culturali. L’Islam è tra noi e non solo attraverso le comunità migranti ma anche con la sua capacità di offrire una visione sociale alternativa a quella delle società occidentalizzate, con il suo bagaglio di istituzioni giuridiche e sociali, con il suo diritto, del quale non bisogna sottovalutare la raffinatezza e la capacità di dare soluzione concreta a molte domande della società moderna.
Perciò la battaglia per la laicità nel contesto islamico va combattuta qui ed ora, muovendo da un profondo rispetto e da un approfondimento della conoscenza dell’Islam europeo e delle sue trasformazioni e evoluzioni. Dobbiamo capire di avere un interlocutore privilegiato all’interno di quelle comunità migranti, soprattutto provenienti dall’Est Europa, che sono state coinvolte nella storia in un processo di proletarizzazione, che hanno conosciuto e praticato la lotta di classe; dobbiamo renderci conto che vi sono originali esperienze collettive nelle comunità berbere, come in quelle algerine, che in passato hanno introiettato nel contatto con la sinistra francese un bagaglio di lotte collegate a quelle per l’indipendenza nazionale che offre dei riferimenti meritevoli di essere riscoperte.
Dobbiamo renderci conto che ad Est la rielaborazione della visione sociale dell’Islam in un’ottica comunitaria, la contaminazione culturale e politica all’interno dei movimenti di massa hanno dato vita a componenti di pensiero, a pratiche sociali, ad atteggiamenti collettivi che sono utili e necessari a ricostruire quel tessuto di resistenza di classe che permetta il rilancio dell’offensiva contro il capitalismo e la lotta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La strada per realizzare questo progetto politico passa certamente per la lotta conto le confessioni religiose, anche islamiche, ma certamente anche per l’alleanza di uomini e donne che considerino un fatto individuale l’appartenenza religiosa e che assumano come valore la tutela della libertà di coscienza e quindi della libertà religiosa. La strada verso la liberazione dal bisogno della religione che rimane per noi un obiettivo da conseguire è lunga e difficile e passa necessariamente dall’acquisizione di una consapevolezza individuale che può venire solo dalla realizzazione di un progetto di società ispirato ai valori dell’uguaglianza e della solidarietà, liberi dallo sfruttamento.

Gianni Cimbalo