…là dove tramonta il sol del sovvenir

Questa crisi non è come le altre più recenti, ma non è neppure come quella del 1929. Esplosa nel 2007, è stata prevista da tutti i maggiori economisti, dopo il suo verificarsi. Prima tutto filava liscio. Fiumi di inchiostro venivano sparsi, miriadi di parole venivano sprecate per cantare le meravigliose future prospettive che gli imprenditori impavidi ed i finanzieri accorti stavano approntando per le popolazioni dell’occidente industrializzato. Erano veramente pochi ed oscuri i menagrami che da oltre venti anni (noi dal 1986) andavano blaterando di un’inconsistenza delle teorie neoliberiste e dei piedi di argilla su cui si reggeva l’impero statunitense.
Oggi le scuole di pensiero economico si dividono in due tronconi (se si eccettuano notevoli, quanto marginali, eccezioni; marginali solo perché le loro idee non riscuotono alcuna considerazione nell’universo delle decisioni strategiche, per quanto possano essere profonde ed originali). Il primo assiste attonito allo svolgersi degli eventi e vi cerca rimedio nelle stesse procedure che ne hanno provocato il disastroso deteriorarsi. Il secondo che proclama a gran voce che le regole vanno cambiate, ma non propone come e rimastica quelle vecchie. E poiché questi due tronconi sono ai vertici degli organismi decisionali internazionali, sia politici che finanziari, la congiuntura economica fa un passo indietro e poi ancora un altro. È già la terza volta nell’arco di quattro anni che si annuncia l’avvio della ripresa, e dopo pochi mesi i dati reali sconfortanti ripropongono l’approssimarsi del baratro recessivo.
Prendiamo ad esempio il problema dei problemi: il debito pubblico degli Stati. Fondi Monetari, banche nazionali e sopranazionali, agenzie di rating, governi e fior di economisti si affannano attorno al capezzale dell’indebitamento e decidono i destini delle nazioni valutando l’affidabilità delle loro capacità di rientrare nel solco del pareggio di bilancio, “giudicano e mandano secondo che avvinghiano”. Tutto ciò che giustificazione ha? Rappresenta forse una legge immutabile e ferrea dell’economia? È veramente l’unica via di salvezza, quella che reclama il sacrificio estremo delle popolazioni, nelle loro porzioni meno abbienti?
Solo sessanta anni fa il debito pubblico sarebbe stato un problema del tutto trascurabile. Un economista keynesiano degli anni cinquanta del secolo scorso assisterebbe agli odierni frenetici dibattiti, come assisteremmo noi al farneticare degli ubriachi e giudicherebbe le frasi risolutive dei tecnici come dei puri vaneggiamenti privi di contenuto. Uno Stato in crisi economica avrebbe battuto moneta ed avviato un piano di opere pubbliche: con ciò avrebbe creato lavoro e distribuito salari, col che sarebbero cresciuti i consumi e ciò avrebbe stimolato la produzione, riavviando il ciclo; laddove lo stimolo fosse risultato insufficiente si sarebbe resa necessaria una massiccia distruzione di beni, la cui ricostituzione avrebbe fornito il volano necessario alla
ripresa. Lo scotto da pagare sarebbe stato l’aumento del debito pubblico, con relativa inflazione; la seconda sarebbe stata medicata dal Welfare e dagli aumenti salariali, necessari per sostenere i consumi; il primo sarebbe stato riassorbito dall’aumento del gettito fiscale derivante dal tenore rinnovato del ciclo produttivo.
E la banche? Il compito delle banche sarebbe quello di fornire il credito per l’intrapresa economica; il loro rischio quello di sbagliare l’imprenditore da finanziare; il loro tornaconto gli interessi sul credito. Un mondo quasi idilliaco rispetto all’attuale, quello dominato dal capitale finanziario, perché questo sono divenuti “gli istituti di credito”. Le strategie economiche, i settori produttivi in cui investire, i tempi dei profitti sono
determinati dalle grandi banche (che controllano multinazionali, industrie, agenzie di rating, governi) e detengono non solo i cordoni della borsa, ma anche le impegnative dei debiti pubblici e su di essi non vogliono scapitare, e guai a pronunciare la parola proibita, “inflazione”. Così gli stati non possono più disporre della propria moneta per regolare la propria economia, ma devono reperire le risorse per pagare coloro con cui hanno contratti i debiti, i finanzieri internazionali.
È per questo meccanismo che da oltre venti anni in tutto il mondo si fanno manovre economiche recessive, volte a restringere il debito. Ma ciò comporta un continuo restringersi delle possibilità di acquisto delle classi meno abbienti e poi a seguire di quella media, i mercati si inceppano e la merce non si vende: crisi!
Solo il settore del lusso sopravvive, per le classi ricche, non toccate dalle manovre economiche, anzi avvantaggiate economicamente dalla congiuntura; ma il lusso non fa un mercato in grado di sostenere un ciclo economico globale. A ciò si aggiunga che imprenditori (finanzieri, in realtà) lungimiranti hanno pensato di farsi concorrenza limando i costi di produzione; ovviamente non quelli che cozzano con altri interessi
imprenditoriali, come materie prime, semilavorati, commesse, etc., ma partendo da quello più facile, anche se meno incisivo: il costo del lavoro. Così il lavoro è divenuto flessibile, precario, part time, delocalizzato, e così via. E il mercato ha subito un’ulteriore grossa contrazione.
Per un ventennio la finanza internazionale ha cercato di sostenere un mercato asfittico con massicce iniezioni di credito, anche dove non v’era sicurezza del rientro, isolando i focolai locali di crisi (Argentina, Giappone) ed anzi rivendendo come oro i crediti inesigibili. Quando la povertà dilagante ha interrotto la catena di Sant’Antonio e i mutui casa statunitensi non sono stati più onorati, come era facilmente prevedibile, il
coperchio è saltato. Per uscire dalla crisi i vari governi non hanno trovato di meglio che salvare il sistema bancario, concedendo cioè risorse a chi aveva originato il dissesto. Nulla è cambiato. Manovre recessive si susseguono a manovre recessive. Dalla crisi l’Occidente non accenna ad uscire. L’Oriente risorge e l’Occidente si avvia al tramonto.
Questa crisi è peggio di quella del 1929. Allora il capitalismo internazionale disponeva già di una teoria economica di ricambio rispetto a quella che l’aveva portato alla bancarotta e questa circostanza al momento attuale ora non si intravede. Allora il mondo industrializzato occidentale non aveva concorrenti; oggi la Cina e l’India crescono a ritmo serrato, senza essere attaccati dalla crisi, che sembra addirittura essere per loro un’opportunità. Come è potuto avvenire tutto questo? All’alba degli anni trenta gli Stati Uniti erano una nazione giovane e ricca, piena di potenzialità e ben provvista di materie prime, investiva nella ricerca fiumi di danaro e si apprestava a divenire nell’arco di un decennio il centro motore della parte del globo più sviluppata,
acquisendone il comando indiscusso. La Cina era un immenso paese feudale, percorso da una guerra civile e dagli eserciti stranieri, corroso da un’arretratezza che sembrava incolmabile e pervaso da una misera secolare, quanto profonda.
I due aerei di linea che l’11 settembre di dieci anni fa si schiantavano in diretta televisiva mondiale sulle torri gemelle di New York avevano un significato simbolico molto più profondo della tragedia umana che evidenziavano: il cuore della civiltà occidentale non era più intoccabile, il centro dell’impero capitalistico d’occidente era vulnerabile. Da anni gli Stati Uniti avevano cominciato a costruire le ragioni del proprio declino, ma quel giorno il tramonto di un sistema di valori diveniva tangibile. Ancora una volta la reazione non fu la riflessione sulle cause che a quel punto avevano condotto, un ripensamento  su quel sistema di valori e sulla loro tenuta, ma uno scatto d’orgoglio rabbioso ed inconsulto, tale da aggravare nel tempo la situazione. E tutti i paesi occidentali hanno, come sempre prima di allora, seguito la traccia del comando, senza critica, senza
la capacità di opporre una strategia politica alternativa.
Il punto è che quel sistema di valori, nati sull’onda della frontiera che avanzava verso il Pacifico, fondati su di un individualismo non solidale che ha generato una società aggressiva e superficiale, alla ricerca di una sicurezza muscolare per fronteggiare la paura non risolta dell’assedio del nemico esterno, priva di storia e quindi di identità e perciò permeabile e non in grado di integrare le culture ma solo di sovrapporle
incoerentemente, quel sistema di valori così diverso da quello del vecchio continente europeo ha cominciato a farsi strada in esso. È così che la tendenza a costruire il continente dei popoli si è mutata nello sminuzzarsi delle etnie (l’unico collante che resta è non a caso la moneta), che la tensione verso una vita collettiva sempre più sicura, si è trasformata in una continua e catastrofica erosione dei diritti, che lo stratificarsi di grandi esperienze di sistemi formativi, fucina di rivoluzionarie innovazioni scientifiche e culturali, ha dato luogo ad un degrado sistematico delle linee di trasmissione del sapere.
In questo quadro i giovani crescono in un ambiente ostile, dove gli altri sono temibili concorrenti per le poche opportunità di lavoro e di carriera, i diversi e i migranti sono mondi incomprensibili e pertanto potenzialmente pericolosi, il futuro è imperscrutabile e non genera alcuna rassicurazione; restano pertanto, anche per la difficoltà nel raggiungere un’indipendenza economica, nel calore protettivo della famiglia e
quando alfine ne escono sono ancora più impreparati ad affrontare in proprio le difficoltà vere della vita e tendono ad amplificare le proprie paure e le proprie chiusure. Non c’è da stupirsi, quindi, se un mondo costruito su questi presupposti non trovi più in sé le energie, la fantasia per imboccare vie di uscita originali. L’Occidente si avvia ad un tramonto che si è procurato.

Saverio Craparo