Nessuno oserebbe affermare che il sistema italiano dell’istruzione fosse perfetto; o almeno che fosse privo di pecche. L’impronta gentiliana marcava fortemente gli apprendimenti scientifici, che il filosofo idealista riteneva secondari. Il problema andava quindi affrontato in vista di una società in evoluzione verso una continua e profonda implementazione dell’innovazione tecnologica in ogni aspetto lavorativo e civile.
Il fatto sconcertante è che chi si è accinto (e vedremo subito chi) a ridisegnare ex-novo, l’intero assetto della formazione in Italia sia partito non dall’esame dei punti di forza e di quelli di criticità del sistema, per migliorare i primi e modificare i secondi, ma abbia considerato spazzatura il tutto. E nel cercare il modello cui riferirsi per progettare la propria “riforma” non abbia scelto sistemi più affini a quello esistente e generalmente
più efficaci, ma si sia rivolto all’apparato più lontano dal nostro e meno efficiente al mondo: quello anglosassone.
Tutto ha origine col primo Governo Prodi e con il suo Ministro Berlinguer. Potremmo riassumere gli assunti base in pochi punti.
a) Il metodo deduttivo era obsoleto ed andava sostituito con quello di tradizione inglese, l’induttivo. Ciò senza distinguere età degli allievi da una parte e le loro vocazioni dall’altra. Per capirsi, se ai primi livelli scolastici oppure nei corsi che indirizzavano rapidamente a sbocchi lavorativi il metodo induttivo può essere un buon modo per salire dalla pratica alla teoria, ciò non è vero per i licei e per i tecnici e soprattutto per l’Università. Frutto di questa distorsione mentale è stato il capovolgimento della struttura degli studi universitari: il triennio seguito dal biennio e cioè prima una laurea specialistica di basso livello e poi la ricostruzione teorica tardiva. I laureati italiani, un tempo cervelli in fuga verso i paesi anglosassoni che sfornavano specialisti molto settorializzati e privi di ampi orizzonti, oggi sono ai livelli dei loro concorrenti e non vantano più vedute profonde e vaste.
b) La scuola deve preparare al lavoro e per questo si deve radicare nel territorio. Si è perso in tal modo l’asse di un’istruzione che preparasse il cittadino al lavoro, fornendo le cognizioni di base che si sarebbero sviluppate in mestiere nell’esperienza lavorativa. Gli effetti sono stati devastanti. Prima di tutto i datori di lavoro non sono mai stati in grado di fornire proposte operative sulle competenze a loro necessarie, oscillando dal dire “date loro le cognizioni di base che noi pensiamo alla preparazione specifica”, al dire “vogliamo uno studente che possa entrare subito nel ciclo lavorativo”. Secondo di poi il territorio, il tanto mitizzato territorio, ha vocazioni produttive stabili ed altre che possono variare rapidamente nel tempo, e se le prime possono prevedere percorsi specifici e finalizzati, le altre sono aleatorie e rischiano di lasciare gli studenti che escono dalla formazione sostanzialmente privi di sbocchi occupazionali. Inoltre sfugge a questa impostazione il fatto che uno studente tropo settorialmente formato, ha poi più difficoltà a riconvertirsi nel corso della propria vita lavorativa, che è un difetto di non poco conto in una mondo dove i metodi produttivi tendono a variare molto frequentemente. Infine occorre chiedersi come possano marciare di pari passo due affermazioni così contraddittorie come quelle che da un lato affermano di legare la formazione alle esigenze del territorio e dall’altro puntano a creare un lavoratore in grado di muoversi internazionalmente, se non altro a livello europeo.
c) Lo studente è al centro dell’istruzione: cosa che così detta non può trovare oppositori. Il fatto è che essere al centro del processo formativo non vuol dire determinarne le finalità, ma significa un progetto di cura del singolo che ne garantisca il più possibile le vocazione ed il successo. La lettura data invece ha fatto dello studente un soggetto debole da tutelare formalmente su aspetti secondari (tipo, il peso dei libri di testo non deve essere eccessivo), da preservare dai carichi di studio considerati eccessivi (diminuzione delle ore di lezione), da tutelare nei confronti di una controparte malvagia: i professori (regolamentazione dei compiti a casa con la raccomandazione di non interrogare o fare compiti in classe di lunedì). Come se nella sanità il paziente potesse determinare la tipologia di cura, senza dover accettare (o rifiutare, se vuole) la terapia indicata dal personale professionalmente preparato.
Su questi presupposti il Ministero ha iniziato a muoversi a metà degli anni novanta, e non vi è stata alcuna resipiscenza, anzi la marcia è divenuta sempre più rapida. Tutto ciò, tra l’altro, è stato accompagnato da una continua erosione (negli ultimi due anni divenute una frana) delle risorse assegnate all’istruzione pubblica: classi sempre più numerose, drastica riduzione dei finanziamenti, etc. Come questo possa tradursi nel rendere lo studente elemento centrale del processo sfugge ad ogni intelletto, perché essere in classi troppo numerose impedisce la cura individuale che gli insegnanti erano abituati a prestare e meno risorse economiche significa attrezzature obsolete. Va da sé che la penuria di fondi per le scuole statali si accompagna ad un aumento di quelli destinati alle scuole private, quello cattoliche prima di tutte. Anche ciò frutto della sciagurata operazione berlingueriana di costituire il cosiddetto sistema di istruzione pubblica, che ha messo sullo stesso piano il sistema statale con quello privato.
C’è da aggiungere la deprimente vicenda della modifica del Titolo V della Costituzione, votata a fine legislatura nel 2001 ancora dal centro sinistra col Governo Amato; in quel testo affrettato sono state mescolate malamente le competenze dello Stato con quello delle Regioni in materia scolastica, generando un contenzioso che ancora non vede la fine.
Il panorama sarebbe già tragico, ma al peggio non c’è mai fine. L’attuale ministro Tremonti, parlando per bocca della Gelmini, sta dando al tutto il colpo di grazia definitivo e su questo si rimanda all’articolo pubblicato nel n° 14 dell’ottobre 2010 di questa rivista.
Saverio Craparo