La ricerca: cui prodest?

Per capire le problematiche relative al mondo della ricerca è necessario distinguere gli aspetti generali, tipici dei tempi in cui viviamo, dalle questioni tipicamente italiane.
Cominciamo individuando le motivazioni generali che sono alla base delle ristrutturazioni del settore ricerca, in atto in Europa ormai da più di un decennio. Il motore principale è la pretesa necessità di migliorare l’efficienza, tradotta in pratica nella richiesta che i prodotti della ricerca siano rapidamente inseribili nel mondo
della produzione, siano cioè commerciabili. Un primo corollario di questo modus operandi è stato un continuo spostamento di fondi dalla ricerca di base verso la cosiddetta ricerca applicata. Siamo arrivati al punto che i programmi quadro dell’Unione Europea finanziano quasi esclusivamente progetti che prevedano il coinvolgimento di industrie o compagnie che operano nel mondo della produzione. Un secondo corollario è la scelta di distribuire i fondi passando esclusivamente attraverso la sottomissione di progetti che devono essere valutati preventivamente dai propri pari.
Contemporaneamente i vari governi centrali hanno dato il via ad un processo di concentrazione dell’attività di ricerca in cosiddetti centri di eccellenza, con la motivazione che sia possibile ottenere risultati validi solo là dove sia stata raggiunta e superata una massa critica, cioè dove ci sia un numero minimo di persone che lavorano su una data tematica.
Infine il miglioramento dell’efficienza passa attraverso l’idea di premiare coloro che (singoli ricercatori o interi Istituti) lavorano meglio. In questo caso, il corollario obbligatorio, la necessità di valutare oggettivamente la qualità della ricerca svolta, ha portato alla proliferazione di indicatori (numero di citazioni, fattore di impatto, indice H, etc.) che ogni ricercatore è obbligato a produrre quando prepara il proprio CV in vista di concorsi o promozioni interne. Un secondo corollario è il mantenimento dei giovani ricercatori in posizioni di lavoro a tempo determinato, perché se il tuo posto di lavoro non è sicuro, allora sarai più motivato a lavorare bene per poter proseguire nella carriera.
Ad una prima disamina è difficile non concordare con le motivazioni che hanno spinto il legislatore a muoversi nella direzione qui riassunta. Senza pretendere di essere in grado di individuare le scelte ottimali che dovrebbero essere fatte, qui di seguito cercherò almeno di mostrare come la realtà sia molto più complessa e che la direzione intrapresa è più il risultato di assunzioni ideologiche a priori che non il risultato di un’analisi ragionata.
Cominciamo con il notare che l’attuale organizzazione della ricerca richiede che ogni ricercatore impieghi una parte del proprio tempo a preparare progetti, a scrivere rapporti sullo stato di avanzamento dei medesimi, a produrre risultati che siano oggettivamente riconoscibili come tali. È difficile quantificare questo impegno, ma è sicuramente cresciuto fino a diventare una frazione non trascurabile. Dobbiamo infatti tener conto che è necessario scrivere molti progetti prima di averne uno approvato, non tanto per la scarsa qualità, quanto per la limitatezza dei fondi disponibili e la conseguente difficoltà di distinguere fra progetti di qualità spesso comparabile. A questo dobbiamo aggiungere che la stesura di un singolo progetto richiede tempo: non è
sufficiente spiegare cosa si voglia fare, ma è necessario dimostrare di poter essere in grado di farlo, spiegare l’enorme importanza del progetto proposto ed introdurre ancora altri elementi.
Non ultimo, è necessario che il ricercatore sia in grado di ottenere dei risultati: questa richiesta che è quanto meno doverosa, ha però due conseguenze indirette non banali: al fine di essere ragionevolmente sicuri del raggiungimento di un obiettivo, il ricercatore: 1) è spinto, in parte, a barare annunciando risultati di cui è già in possesso (poco male, anche se mette in luce l’ipocrisia del processo); 2) si pone obiettivi più limitati (anche
se, ovviamente, conditi da frasi roboanti sull’incredibile rilevanza del progetto). Risultato netto: tarpare le ali a coloro che, in altre condizioni, avrebbero cercato di volare alto.
Ulteriore conseguenza non voluta: una volta ottenuti i fondi, si deve dimostrare di averli usati saggiamente e proficuamente, cioè, in molti casi, si devono produrre pubblicazioni su riviste, meglio se internazionali. Anche questo è uno stimolo positivo con conseguenze negative. Infatti, aumenta la tendenza a pubblicare un qualunque risultato anche minimale, che in altri tempi, sarebbe rimasto sul proprio quaderno perché giudicato di scarsa rilevanza. In effetti l’esplosione esponenziale delle pubblicazioni scientifiche è sotto gli occhi di tutti ed è sostenuta non solo dalla comparsa sullo scenario internazionale di grandi paesi come India e Cina, non solo dal fatto che il computer facilita la scrittura, ma anche (ed in misura tutt’altro che trascurabile) dalla necessità di avere un timbro che certifichi la propria buona condotta, da usare successivamente nei momenti in cui si viene valutati. Invece, per valutare correttamente le conseguenze di quest’attitudine, dobbiamo notare che l’impatto di un articolo “che non aggiunge niente” non è solo il tempo necessario per scriverlo, ma anche il tempo di inserire una serie di fronzoli (simulazioni aggiuntive o misure sperimentali) per renderlo apparentemente interessante, anche il tempo che uno o più colleghi dovranno dedicare per valutarlo ed infine le risorse necessarie per trasformare l’articolo in una pubblicazione.
L’analisi critica potrebbe continuare ed estendersi al fatto che un giovane con una posizione a tempo determinato può essere più motivato, ma anche è anche più ricattabile e questo accade nel momento della vita in cui il ricercatore è maggiormente in grado di proporre idee innovative: quando è fresco di studi e con un’organizzazione mentale ancora non fossilizzata.
Questi sono alcuni dei problemi che occorrerebbe prendere in seriamente considerazione prima di parlare di riforme (che sono comunque necessarie). Veniamo, adesso alle (molte) patologie italiane che rendono la prospettiva di una possibile rinascita ancora più stretta e buia. Intanto, la scelta di offrire posizioni a tempo determinato durante i primi anni della carriera si è spesso tradotta, in Italia, nell’offerta di un assegno di ricerca, in pratica una borsa di studio che non prevede il versamento di contributi previdenziali. Questa scelta, tutta italiana, non ha bisogno di ulteriori commenti. Vale solo la pena di aggiungere una domanda retorica: quali ricercatori stranieri possiamo pensare di attrarre in tale condizioni? Certamente non ricercatori dell’UE, ma difficilmente anche ricercatori dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, dato il costo della vita e le complicazioni legate alla gestione dei visti di ingresso che non distinguono minimamente i profili professionali.
E che dire dei finanziamenti alla ricerca? Lasciata da parte la questione “ricerca di base/ricerca applicata”, ogni paese civile ha una o più agenzie il cui scopo è la distribuzione di fondi in maniera articolata, passando attraverso la sottomissione di progetti e la loro successiva valutazione da parte di esperti nazionali ed internazionali. Molti anni fa, in Italia, il CNR aveva questa funzione, ma con il progressivo taglio di
finanziamenti, negli ultimi anni il CNR non è più nemmeno in grado di finanziare l’attività del proprio personale (qualsiasi modalità si abbia in mente). Nell’ultimo decennio abbiamo visto la nascita di strumenti che avrebbero potuto avere un ruolo sostitutivo, come i cosiddetti FIRB (fondo investimenti per la ricerca di base) che, all’inizio degli anni 2000 hanno offerto possibilità concrete a ricercatori con idee valide. Purtroppo, tutto ciò è durato lo spazio di un mattino. A partire dalla tornata successiva, sono state introdotte modifiche per garantire un controllo preventivo sull’elargizione dei fondi, definendo in maniera fin troppo dettagliata le tematiche passibili di finanziamento. Con il passare degli anni, questo strumento è stato ulteriormente svuotato, semplicemente diradando le chiamate a progetti.
Un altro strumento, nato per finanziare la ricerca in ambito universitario, e che ha ragionevolmente assolto questo compito per un certo numero di anni, è quello dei PRIN (programmi di ricerca di interesse nazionale). Anche in questo caso, stante però la progressiva riduzione dei fondi disponibili, il ruolo dei PRIN sta diventando sempre più marginale, al punto che in varie occasioni progetti approvati (che sono biennali per
loro natura) ricevono finanziamenti appena sufficienti per coprire spese minimali (vedi, assunzione di un assegnista di ricerca) su un anno. In questo quadro, la recente estensione dei PRIN ai ricercatori pubblici che operano al di fuori dell’ambiente accademico, anche se doverosa, suona decisamente come una beffa.
Ulteriore strumento è quello dei PON (programmi operativi nazionali) e dei POR (programmi operativi regionali), che sono approvati dalla Commissione Europea, ma la cui funzione è sostanzialmente di supporto nelle aree e regioni che sono individuate come meno sviluppate.
Infine, come per tutti gli altri paesi europei, i ricercatori italiani hanno accesso direttamente ai finanziamenti UE che in molti casi sono l’unica fonte che permette la sopravvivenza. Questo aspetto richiederebbe di per sé una discussione approfondita: qui ci limitiamo a notare che nei paesi Europei più grandi (leggi Germania, Francia, Gran Bretagna), questa opzione viene spesso messa in fondo alla lista delle possibili
risorse per la macchinosità dei meccanismi e per un alto rapporto costi/benefici. Alternativamente, all’estero, alcuni alcuni grossi centri si sono attrezzati, creando strutture di supporto che aiutano i ricercatori proprio per aumentare la probabilità di successo (incidentalmente, vorrei comunque far notare che il costo di queste strutture – centri va a detrimento dei finanziamenti veramente dedicati alla ricerca).
Adesso viene la ciliegina sulla torta. Se è sicuramente vero che la frazione del prodotto interno lordo dedicato in Italia alla ricerca è inferiore a quella degli altri paesi sviluppati (ed anche di molti paesi in via di sviluppo), è tragico notare che le difficoltà in cui si dibattono l’Università e le strutture pubbliche tradizionali (il CNR primo fra tutti) sono ben superiori a quello che i numeri potrebbero suggerire. Il motivo è che nel frattempo sono stati accesi canali di finanziamento verso nuove strutture, prima fra tutte l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Tremonti, che non sono passati attraverso i sempre invocati meccanismi di selezione basati su referaggi internazionali. Da notare che il finanziamento annuale dell’IIT ammonta a 100 Milioni di euro, da confrontare con i 550 Milioni di Euro di finanziamento ministeriale a tutto il CNR (il cui spettro di competenze
copre tutti i settori della ricerca con eccezioni come la Fisica nucleare e poco altro). È del tutto ovvio notare che la semplice sostituzione dell’IIT con un’agenzia che gestisse i fondi di ricerca, distribuendoli a tutti i ricercatori con criteri oggettivi, risolverebbe (a costo zero) molti degli attuali problemi in cui versa la ricerca italiana.
Se l’IIT è il caso più eclatante, non è l’unico esempio di scelte sconcertanti. Che dire del fatto che, sfruttando la notorietà del premio Nobel Rita Levi Montalcini, in Italia è stata fondata e raccoglie fondi la Fondazione EBRI (European Brain Research Institute)? Qui si confonde il rispetto per la saggezza degli anziani, tipica e doverosa in una società civile, con la capacità di gestire un moderno centro di ricerca. Quale altro paese lancerebbe un Istituto in un settore come quello delle neuroscienze, facendosi scudo di una signora che è andata in pensione ben prima che il settore si sviluppasse grazie alla messa a punto di nuove tecnologie?
La lista delle anomalie italiane potrebbe continuare, passando per l’Istituto di Studi Avanzati creato a Lucca per soddisfare l’ego del grande intellettuale Marcello Pera, oppure micro Università (create dalla signora Moratti) che adesso si scopre di dover chiudere (non quelle, altre …).
Infine è doveroso commentare sul ricorso crescente a metodi per la valutazione dell’attività scientifica.
Sono anni che l’opinione pubblica viene continuamente informata della necessità di ridurre sprechi ecc. Cosa dire allora del fatto che il CNR prima delibera sulla distribuzione delle nuove assunzioni (fra i vari Istituti) e poi conclude una costosa operazione di valutazione per stabilire gli Istituti virtuosi? È del tutto evidente che si
fanno affermazioni pubbliche senza la minima preoccupazione per la loro correttezza (questo problema, però, viene da più lontano).
E dire che il sistema scolastico/universitario italiano sta continuando, nonostante tutto, a funzionare; prova ne sia il fatto che l’anno scorso, quella italiana è stata la compagine nazionale più numerosa fra i neoassunti dal CNRS (la struttura francese equivalente al CNR italiano) – superiore perfino al numero di francesi. A proposito, forse non ci credete, ma in Francia si aprono annualmente nuove posizioni posti di lavoro.
Ma non è tutta colpa di governanti incapaci o malintenzionati a cancellare un settore dove più che altrove si annidano oppositori (o forse, dove più che altrove gli addetti hanno il difetto di continuare ad usare il proprio cervello). La riduzione delle risorse ed i nuovi meccanismi di distribuzione di fondi sta selezionando una sottospecie di ricercatori i quali, più che dedicarsi alla ricerca, imparano a curare le public relations, a costruire una rete di relazioni personali per gestire centri di ricerca (o meglio di potere) che dovrebbero fare quello che essi ormai non sono più capaci di fare.

Antonio Politi