Karakiri

“Il lavoro si difende lavorando!”. Fu questo lo slogan con cui i 40.000 colletti bianchi (in realtà erano meno della metà), il 14 ottobre 1980, marciarono a Torino per rompere il picchettaggio operaio che bloccava la produzione della FIAT. Cosa chiedeva l’azienda? Cosa opponevano i sindacati? Come andò a finire?
Partendo da una dichiarata situazione di crisi delle vendite l’industria torinese chiedeva l’accesso alla cassa integrazione per una parte delle maestranze, con un particolare non del tutto trascurabile: i nominativi di coloro che dovevano allontanarsi dagli stabilimenti momentaneamente (ma a conti fatti definitivamente) erano stabiliti e, guarda caso, erano tutti coloro che avevano guidato le lotte operaie negli anni precedenti. I sindacati si erano detti disponibili a trattare sul numero dei cassaintegrati, ma l’allontanamento dal lavoro doveva avvenire a rotazione e non essere nominativo.
Gli impiegati ed i “capetti” (coloro che dirigevano le linee di montaggio), che scesero in piazza quel giorno, mutarono il quadro di riferimento. Opportunamente enfatizzata ed ingigantita dalla propaganda, la manifestazione indusse i sindacati a cedere (nonostante pochi giorni prima Enrico Berlinguer, segretario del PCI, si fosse speso a favore dello sciopero ad oltranza davanti ai cancelli della FIAT) e la capitolazione fu totale. Il risultato fu la decapitazione delle avanguardie operaie nell’azienda torinese ed occorsero più di vent’anni perché i sindacati potessero fare il loro ingresso di nuovo all’interno degli stabilimenti e perché si potessero ripresentare delle manifestazioni operaie.
Ma per i “quarantamila” non andò molto meglio. La ristrutturazione produttiva, le nuove tecnologie introdotte e l’evoluzione delle forme di prestazione lavorativa resero meno necessarie la loro presenza e la loro attività. In particolare per i “capetti” ci fu una totale perdita di ruolo. Nell’arco di pochi anni finirono tutti fuori produzione. Lavorando non avevano difeso il proprio posto di lavoro.
Oggi come ieri la FIAT detta la linea del padronato e fa da battistrada alle nuove relazioni industriali.
Se l’azienda torinese (ormai multinazionale) traccia il solco, oggi la spada di un buon numero di sedicenti sindacati lo difende. La FIOM, sempre più isolata, tenta di fare opposizione, con una presa sulle maestranze in crescita, tant’è che più di un terzo dei lavoratori ha votato “no” alla ratifica dell’“accordo”, anche senza avere una sponda politica. La storia di tre decenni fa dovrebbe essere conosciuta e meditata per non ripetere gli errori di allora; ma se è comprensibile che gran parte dei nuovi operai non conosca i fatti di allora, questo non è pensabile per alcuni vertici Confederali, quei vertici che hanno firmato un documento, che lo stesso Pierre Carniti (ex segretario della FIM ed ex segretario generale della CISL) ha dichiarato essere un diktat e non un
accordo.
Qui sta il succo della questione. Un sindacato che sigla un patto che non è frutto di alcuna trattativa, ma solo di un’imposizione della controparte (“o firmate, o Pomigliano non avrà più alcuna produzione”), dismette il proprio ruolo di sindacato. Ma di più. Un sindacato che accetta di rinunciare alle proprie azioni di lotta, in nome della difesa del posto di lavoro, non solo rinuncia ad un diritto costituzionalmente garantito, ma
rinuncia a difendere quello stesso posto di lavoro in un futuro non troppo lontano. Se il modello FIAT dovesse prendere piede, e nulla osta a che ciò avvenga, oggi quei sindacati si sono suicidati in quanto tali.
CISL e UIL stanno transitando verso una struttura non più sindacale, ma di tipo “patronato”, di garanzia giuridica e di fornitura di servizi (CAAF), quindi il loro atteggiamento stupisce fino ad un certo punto. Quello su cui occorre meditare è la risposta dei lavoratori. La crisi imperversa, il lavoro manca, sul tetto sventola bandiera
bianca. Ma se la paura di perdere l’unica fonte di reddito è il ricatto antico ed efficace del padronato, tanto più ora in epoca di facile e dilagante delocalizzazione, e se l’aggrapparsi al poco ora promesso è comprensibile, non si può non meditare sulla perdita di senso strategico da parte dei lavoratori in questi anni di oscuramento del
pensiero e di spegnimento delle ideologie.
Farsi crumiri di se stessi non ha mai prodotto futuro stabile. E poi, come credere alle promesse di un’azienda, la FIAT, che del disattenderle ha fatto la propria costante di conduzione? Oggi la stessa azienda che promette di portare la produzione della Panda in Campania, la reimposta dalla Polonia dove l’aveva introdotta negli anni scorsi con promesse di lungo periodo. Forse perché in quei luoghi la presenza di un lavoro più stabile cominciava creare le possibilità del formarsi di aggregazioni sindacali e del conseguente rialzare la testa di maestranze un tempo piegate dalla miseria e dall’assenza di prospettive lavorative. E se gli operai campani ancora non sono in queste ultime condizioni si cerca di imporre la latitanza della coscienza di classe con dei puri e semplici ricatti.
Se circa un terzo dei lavoratori non ha subito la pressione infernale delle forche caudine e non ha piegato la testa, il terreno campano si rivela più infido del previsto per Marchionne: il deserto pacifico che pensava di imporre col pesante ricatto occupazionale non si è verificato e nulla garantisce la futura acquiescenza dei lavoratori. Ma se invece di blandire il grande manager, come fa il Governo del grande baro (ma un Governo di centro sinistra saprebbe comportarsi diversamente?), si chiedesse alla FIAT di rendere alla collettività l’enorme quantità di prebende a suo tempo elargite direttamente ed indirettamente dallo Stato, unica condizione per consentirle di abbandonare il paese, pena la confisca degli impianti, forse i rapporti di forza potrebbero essere diversi. Per decenni l’azienda torinese ha usufruito di finanziamenti a fondo perduto, di creazione di infrastrutture adatte alla sua produzione, con la promessa di portare posti di lavoro al sud, quei posti di lavoro che oggi si rimangia. Ora, auspice la crisi internazionale, fa la voce grossa, dimenticando che,
senza gli aiuti avuti, non sarebbe sopravvissuta fino ad oggi.

Saverio Craparo