Scenari di guerra: gas e petrolio

Venti di guerra soffiano in in Europa, alimentati anche dal Governo italiano, che prono alle scelte politiche della NATO, decide di inviare 140 uomini nei Paesi Baltici “per contrastare la politica espansionistica della Russia”. Questo impegno va ad aggiungersi alle sei missioni in ambito Nato, alle due sotto l’egida dell’Onu, alle dieci con mandato dell’Unione europea, alle otto operazioni multinazionali. Tra le missioni in ambito Nato, l’Italia è impegnata in Bosnia Erzegovina, Afghanistan, sul Mediterraneo, nelle acque della Somalia (operazione Atlanta, vedi vicenda marò), a Skopje e in Kosovo. Con i partner dell’Onu, l’Italia partecipa alla “Minusma” in Mali e ad Unifil in Libano. Le missioni in ambito Ue si svolgono in Afghanistan (Eupol), Kosovo (Eulex), Mali (Eutm), Somalia (Eunavfor), Palestina-Egitto, Somalia (Eutm), Corno d’Africa, Mediterraneo (Triton), Bosnia Erzegovina (Efor-Althea), Mediterraneo (Eunavfor Med). In ambito
multinazionale, l’Italia opera infine in Egitto, in Iraq (presidio della diga di MOsul e non solo), Kurdistan, a Hebron, in Libia, negli Emirati arabi uniti e ancora in Libano (Mibil). Sono dati forniti dal Ministero della difesa dai quali apprendiamo che si tratta di complessivi 4542 unità alle quali va aggiunto un contingente dai numeri imprecisati che opera sotto copertura in Libia.
Per una nazione che ha una Costituzione nella quale si dice all’articolo 11 che ripudia la guerra non c’è male, anche se qualcuno verrà a raccontarci che si tratta di interventi di “dissuasione” volti a separare i contendenti. Una foglia di fico dietro la quale si nasconde una politica che utilizza la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie, come strumento di sostegno alla politica economica, prova ne sia che l’Italia continua a comprare quelle bare volanti costituite dai caccia F 35, ognuno dei quali costa un quarto della finanziaria di quest’anno.
Malgrado questi impegni l’Italia resta esclusa da ogni attività volta alla ricomposizione dei conflitti. Un primo banco di prova è offerto dal medio Oriente dove tra Afganistan e Iraq l’impegno italiano è evidente e reale. Quella dell’Afganistan è destinata a essere una guerra eterna, mentre la spartizione della Siria prossima ventura, appena Putin avrà eliminato l’enclave di Aleppo, vedrà la probabile creazione di tre entità: una alauita, ancora sotto il controllo di Assad, una sunnita satellite della Turchia e una kurda. Gli sciiti avranno il loro spazio nel nord Iraq nel quadro di un paese “federalizzato”. L’utilità del Governo italiano sarà quella di aver fatto conseguire ad un’azienda italiana il contratto per il ripristino della diga di Mosul e poco altro.
Il vero terreno di intervento per l’Italia è la Libia, scacchiere sul quale si muovono i francesi e gli egiziani e nel quale giocano un ruolo sia inglesi che americani. La posta in palio è quella di riuscire a mantenere le concessioni petrolifere, insidiate dai francesi che vollero la caduta di Gheddafi, senza scontrarsi troppo con gli egiziani per via del grandissimo giacimento di gas scoperto dall’ENI al largo di Alessandria.
Soprattutto quest’ultimo affare è interessante perché questi nuovi giacimenti potrebbero essere agevolmente collegati a terra e da li allacciati al gasdotto già esistente in partenza dalle coste africane. Da qui l’interesse strategico alla stabilizzazione della Libia. Inoltre questo scenario crea una reale alternativa al gas proveniente dalla Russia che attraverso il gasdottoTurkish Stream, permetterà alla Russia di portare il suo gas naturale ai paesi dell’Europa occidentale, tra cui l’Italia, senza passare dai gasdotti dell’Europa orientale: soprattutto permetterà alla Russia di bypassare paesi come l’Ucraina.
E’ su questi interessi che gioca la politica estera italiana, nascondendosi dietro il paravento delle azioni finalizzate a controllare le coste libiche dichiarando di voler contenere e controllare l’immigrazione.
Mentre chiudiamo queste note giunge la notizia che grazie all’opposizione della comunità fiamminga belga che ha posto il veto è stata bloccata per ora la ratifica del trattato di liberalizzazione del commercio con il Canada, l’Accordo Economico e Commerciale Globale (CETA), collaterale al TITIP, che avrebbe permesso anche agli Stati Uniti di invadere, utilizzando come cavallo di troia le filiali canadesi delle loro aziende. I governi d’Europa, proni alla dominanza USA, continuano a svendere la salute dei loro popoli, permettendo l’introduzione di prodotti alimentari transgenici sul mercato europeo, mettendo in pericolo i diritti dei lavoratori ulteriormente precarizzando i rapporti, a scapito della democrazia, dell’ambiente, della salute e della sicurezza
dei consumatori. Il cammino di questi accordi subisce una battuta d’arresto grazie all’avversione fiamminga verso i canadesi francofoni ma la battaglia per contrastarli sarà ancora lunga e difficile.

Gianni Cimbalo