Europeo, a chi?

L’Europa germanocentrica è ad una svolta. Movimenti che ne vogliono la dissoluzione crescono ovunque. La vittoria del “leave” nel Regno Unito non è che il caso più eclatante, ma forse il meno significativo, se non per il fatto che può fungere da detonatore, alimentare per contagio le forze centrifughe già attive. Per capire dove volge il futuro dell’Unione occorre svolgere un’analisi dei vari attori sulla scena.

Regno Unito

La vittoria dell’orgoglio britannico rischia di trasformarsi in autentico boomerang, sia politicamente che economicamente. Dal punto di vista politico è la stessa nozione di “Regno Unito” che rischia di uscire dal vocabolario. Spinte centrifughe in direzione dell’UE si stanno manifestando in Irlanda del Nord (che punta alla riunificazione con l’altra Irlanda indipendente), Scozia, un po’, anche il Galles e persino la rocca di Gibilterra dove il “remain” ha toccato una punta intorno al 90%. Così al Governo britannico non resterebbe per poter parlare di “Regno Unito” che il fittizio e virtuale controllo di quelle che furono un tempo le colonie ed ora sono in realtà Stati del tutto indipendenti, che mantengono con la corona britannica un legame puramente formale.
Ma il punto dolente è quello dell’economia. Se la Scozia dovesse separarsi l’Inghilterra perderebbe l’accesso ai preziosi giacimenti petroliferi del Mare del Nord: la prospettiva non è così remota, visto che due anni fa il referendum svoltosi per l’indipendenza scozzese ha raggiunto il 45% dei voti validi e quello per l’uscita dall’UE ha registrato in Scozia una netta maggioranza per la permanenza; il probabile futuro referendum per la separazione dal Regno Unito molto probabilmente conoscerebbe un risultato diverso da quello del 2014. Ma i problemi economici per la Gran Bretagna non finiscono qui. Non è un caso che a Londra il “remain” abbia ottenuto un largo successo. Da tempo il Regno Unito ha perso il primato nell’industria, per divenire il centro europeo della finanza ed è una delle piazze borsistiche più importanti del mondo. L’uscita dalla UE, con il conseguente calo del valore della Sterlina e il restringersi della sfera d’influenza del mercato finanziario britannico divenuto periferico e provinciale, spinge alla fuga dalla capitale di molte aziende che vi si sono quotate e delle sedi europee di molte grandi banche mondiali; già il NYT (New York Times, il centro propulsore del neoliberismo) ha stilato una classifica delle grandi città europee che possono sostituire Londra quale centro della finanza dell’Unione, classifica che vede in testa Francoforte e Parigi di rincalzo.

Resto d’Europa

Partiti antieuropeisti avanzano in molti paesi. In Francia il FN della Le Pen mette un’ipoteca non trascurabile sulle prossime elezioni presidenziali. Presidenziali che dovranno replicarsi in Austria dove il candidato contrario all’Europa era stato battuto per un soffio dal candidato dei verdi. In Polonia e nella Repubblica Ceca le forze politiche che predicano l’uscita dall’Unione sono in crescita. Persino l’Olanda, l’alleato più fedele della Germania nei vertici europei, corre il serio rischio della vittoria di una partito euroscettico, attualmente favorito nei sondaggi. È appena il caso di ricordare che i partiti sopra ricordati sono tutti di destra, spesso estrema, e che questi esistono dovunque nei 27 paesi dell’Unione, anche se con pesi meno rilevanti.

Germania

L’identificazione tra l’establishment di Bruxelles ed il governo tedesco è tale che basta analizzare l’uno per capire cosa succederà all’altro. È chiaro a chiunque che quanto sopra delineato non è che il risultato della gestione della crisi incentrata sulle politiche di austerità, sostenute, volute ed imposte dalla Germania, che è l’unica ad averne tratto vantaggio. È inutile ricordare che questa è ed è stata una politica miope; da un lato ha ristretto i mercati, finendo per avere ripercussioni anche sulle esportazioni tedesche, con le conseguenti lotte economiche di cui la Volkswagen è stata la vittima più illustre. Dall’altro ha spinto le classi più sacrificate, che hanno pagato e pagano il peso della restrizione del loro potere d’acquisto, nelle braccia euroscettiche. La Germania stessa conosce una restrizione del mercato interno, per l’estendersi dei micro contratti che non garantiscono neppure il sostentamento minimo dei lavoratori. I tedeschi rischiano di perdere così la terza guerra da loro intrapresa per la conquista dell’Europa: le prime due con le armi e questa con il dominio economico, che aveva loro consentito l’infeudamento del continente. Se l’UE dovesse incamminarsi verso la dissoluzione, la Germania resterebbe isolata nel propugnare le politiche del rigore economico e del pareggio di bilancio, perdendo in poco tempo altre fette di mercato e quella centralità di cui ha ampiamente abusato nell’ultimo ventennio.

Unione Europea

Si è detto all’inizio che “Brexit” è forse in sé l’evento meno rilevante dal punto di vista della tenuta dell’Unione. Di fatto il Regno Unito aveva un legame molto lasco con il resto dei paesi europei; non faceva parte della moneta unica, non riconosce il trattato di Schengen, godeva di clausole esclusive relativamente al riconoscimento della legislazione europea non concesse ad altri Stati membri. La sua uscita, che il governo britannico punta ora a procrastinare per i contraccolpi disastrosi che essa potrà comportare all’interno del paese, comporterà solo che alcune intese, ora di routine, ampiamente scontate, andranno sottoposte a nuova contrattazione tra le parti, e non è detto che questa nuova trattativa risulti più favorevole ai fuoriusciti. Certamente per il resto dei paesi dell’Unione si restringeranno ulteriormente gli sbocchi di mercato per i dazi che la Gran Bretagna vorrà imporre alle merci provenienti dall’estero, e questo nel guado di una crisi irrisolta potrà accentuarla, soprattutto per un paese a vocazione esportatrice come l’Italia.

Spagna

Caso isolato, insieme alla Grecia, in Spagna il risentimento contro l?unione si è canalizzato a sinistra, ma diversamente dalla Grecia in una sinistra meno legata a schemi ideologici del passato. Le recenti elezioni hanno fortemente penalizzato “Podemos”, si dice per il contraccolpo dovuto alla vittoria dei “Brexit” in Gran Bretagna,; la lettura però deve esser diversa, perché non è neppure ipotizzabile che gli eventi britannici di mercoledì possano avere avuto un effetto così rimarchevole sulle lezioni spagnole di quattro giorni dopo, in quanto questo presupporrebbe un elettorato politicamente molto avvertito. Quello che ha giocato contro il partito di Pablo Iglesias è stata l’alleanza con Izquierda Unida, un partito di tradizione autenticamente socialdemocratica: questo ha portato nell’unione elettorale con Podemos circa 1 milione di voti, ma complessivamente il cartello ha perso 1,200.000 voti. Difficile credere che chi aveva votato IU a dicembre scorso non lo abbia rifatto a giugno; quindi sono i votanti di Podemos che gli hanno voltato le spalle nella misura del 20%. È evidente che solo una forza che si presenta con un volto nuovo (anche se Iglesias non ha mai nascosto le proprie idee di sinistra) e non troppo marcatamente ideologica incontra i favori dell’elettorato in questo frangente politico. Le ragioni della perdita di appeal della socialdemocrazia e della sinistra sono analizzate in un altro articolo di questo numero. C’è da aggiungere che i partiti discendenti dalla sinistra storica sono ormai percepiti come i più coerenti e tenaci sostenitori delle politiche economica che ci hanno portato e che ci fanno restare nelle onde della crisi più devastante che il sistema capitalistico abbia mai vissuto per il loro sostegno alle politiche economiche di austerity. E c’è anche da aggiungere una considerazione più sociologica: la sinistra, quella vera, si è sempre nutrita della militanza dei suoi aderenti, si è sostenuta sulla volontà di riscatto delle masse diseredate (che sono in crescita), che l’hanno supportata con le proprie energie. L’allontanarsi di un orizzonte di vero cambiamento, costruito su di una visione alternativa dell’assetto sociale, in altri termini la morte proclamata della fine delle ideologie ha privato i movimenti di opposizione della linfa di cui si erano alimentati per due secoli. Non esiste più, se non in modo residuale, il sacrificio del militante per un ideale condiviso, ma è diventato molto più comodo e deresponsabilizzante deporre un voto nell’urna, piuttosto che assumersi in prima persona l’onere della costruzione di una visione antagonista al capitalismo. È così che la spinta rivoluzionaria si è mutata in pura e semplice protesta, che premia un volto nuovo, solo perché sembra incarnare nel momento un cambiamento, un cambiamento che non avverrà perché non mette in discussione i fondamenti dell’attuale sistema sociale ed economico.

Saverio Craparo