Crisi della socialdemocrazia e assenza di alternative

Se c’è una crisi evidente in tutto il mondo è quella della sinistra, sia che essa venga declinata come “socialdemocrazia”, ovvero come socialismo riformista o vissuta, nelle sue forme ibride di centro sinistra che infine come sinistra di classe. Le vecchie categorie del secolo scorso non bastano per capire e spiegare il fenomeno ma possono aiutare ad orientarsi.
Quella che fu la socialdemocrazia classica dopo la seconda guerra mondiale, intesa come interpretazione riformista dell’analisi socialista della società, non esiste più. Sono stati abbandonati completamente i suoi punti di riferimento classici quali: l’accettazione dell’ordine legale delle democrazie liberali, la democrazia parlamentare, il rispetto dei diritti individuali di libertà (inclusa la libertà di mercato); è stato abbandonato, dichiarandolo non più “sostenibile”, il welfare State, che avrebbe dovuto realizzare una maggiore equità sociale e correggere i ‘difetti’ del mercato, che costituiva l’elemento di differenziazione della proposta sociale volto a tutelare le classi meno abbienti e a dare un’almeno parziale attuazione ai principi di uguaglianza, solidarietà e libertà.
L’ordine legale delle democrazie liberali che si accompagnava alla democrazia parlamentare di fatto non esiste più, travolto da leggi elettorali maggioritarie che stravolgono la rappresentanza, dal rafforzamento progressivo e inarrestabile del potenziamento degli esecutivi sul Parlamento, dal venir meno del bilanciamento dei poteri tra i diversi organi costituzionali, dall’abbattimento del ruolo della rappresentanza attraverso il voto. Questo processo ancora in atto – plasticamente ben rappresentato dalla riforme costituzionali italiane volute dal PdR – si pone coerentemente nel solco di quelle riforme di carattere autoritario che superano il concetto stesso di liberalismo, per proporre una visione unica e assolutizzante della gestione del potere politico economico e sociale.
Questa trasformazione intervenuta nella configurazione stessa della gestione della società, ha finito per mettere in discussione e ridurre sempre più gli spazi relativi al rispetto dei diritti individuali di libertà (inclusa la libertà di mercato), introducendo limitazioni che fanno inorridire il più tiepido dei liberali. Uno Stato, spesso etico, impone ai cittadini le proprie scelte, mentre prolifera una pletora di soggetti non cittadini (i migranti), i quali costituiscono di fatto un “esercito industriale di riserva” – si sarebbe detto una volta – che vanno ha costituire un bacino nel quale attingere per svolgere lavori e funzioni certo indispensabili, ma pesando in modo differenziato sull’erogazione dei servizi. Ciò avviene malgrado che ricada su costoro il carico fiscale necessario a reperire molta parte delle risorse necessarie a fornire beni e servizi. Inoltre costoro sono posti nella condizione di non incidere in alcun modo nemmeno rispetto alle scelte della composizione delle strutture politico-amministrative che gestiscono il territorio. Sono cioè ridotti alla funzione di schiavitù sociale senza diritti di rappresentanza.
Una volta distrutte le basi liberali della sua teoria politica ancor più i partiti cosiddetti socialdemocratici odierni stanno distruggendo l’elemento qualificante della loro stessa teoria politica il welfare State. Avendo fatto proprie le dottrine neoliberiste in economia, essi affermano che i suoi costi non sono più sostenibili, accettano di attaccare i livelli salariali e di destrutturare la legislazione del lavoro, costruita in anni di lotte e frutto dei precedenti cicli economici per imporre una società precarizzata a livello sociale, squilibrata nel rapporto tra ricchi e poveri, alimentando sempre più la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e distruggendo completamente la classe media. Il risultato è quello di ricorrere a una gestione sempre più autoritaria della società e di preparare non solo il definitivo annullamento della loro stessa identità, ma anche di rendere inutile la loro funzione di rappresentanza. Si spiega così, e non a causa di un insorgente populismo, la perdita inarrestabile di consensi dei partiti cosiddetti socialdemocratici e riformisti ovunque.

Il socialismo riformista erede del marxismo

La degenerazione appena descritta dei partiti non più socialdemocratici non si accompagna certamente alla rinascita di partiti socialisti riformisti. Questo non avviene in Italia tra i transfughi che alla spicciolata lasciano il PdR, certamente non premiati dagli elettori in quanto non credibili. Le loro proposte non offrono un’alternativa valida, non prospettano nemmeno una politica di profonde riforme ma solo qualche aggiustamento rispetto alle scelte del PdR. Non offrono insomma un’alternativa, un progetto di società, per il quale valga la pena di battersi. Sono privi non solo di visione strategica, ma anche di proposte tattiche, immediate, almeno difensive. Da qui la mancanza di consenso degli elettori i quali rimangono sensibili solo su grandi temi quando lo scontro si polarizza intorno a questioni strategiche, come è stata da ultimo quella dell’acqua e della sua gestione pubblica, anche se su queste aggregazioni la sinistra che si dice ancora socialdemocratica non riesce a costruire organizzazione politica, dimenticando che per socialismo dovrebbe intendersi ogni dottrina, teoria o ideologia finalizzata a una riorganizzazione della società su basi collettivistiche e secondo principi di uguaglianza sostanziale, contrapponendosi alle concezioni individualistiche della vita umana. Si è certamente persa l’idea che è necessario ridar vita e concreta attuazione a un sistema generalizzato di idee, valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti collettivi – e i movimenti, i gruppi, i partiti che li organizzano – verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali, attraverso una qualche forma di socializzazione dei mezzi di produzione e individuando correttivi applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche. Le loro proposte invece si limitano a suggerire qualche correttivo di una politica conservatrice quando non hanno l’effetto di razionalizzare un sempre maggior controllo su una platea di poveri sociali in espansione costante.
Impantanati in questa palude sono anche i socialdemocratici inglesi, la Linke in Germania, i socialisti portoghesi Ziriza in Grecia e chi più ne ha ne metta.

I riformisti “populisti”

Una novità nel panorama politico sembra essere costituita da quei partiti e movimenti che si dichiarano post ideologici – ne di destra ne di sinistra e che presentano comunque caratteristiche tra loro molto diverse. Tratto comune non è tanto e solo la dichiarazione di abbandono dei un’analisi e di una collocazione ideologica nello schieramento politico, ma l’inesistenza di un progetto definito di società futura, una dimensione empirica dell’azione che fa di loro dei riformisti e razionalizzatori del sistema. Nella loro azione confluiscono l’insofferenza per la mala politica, il rifiuto della corruzione, la consapevolezza che vi sono margini di azione positiva se solo ci si muove da un’ottica efficientistica, la convinzione che si può fare di meglio anche muovendosi all’interno delle regole stabilite e accettandole, l’idea che un altro ordine non è possibile.
Si tratta di proposte all’apparenza minimaliste ma che di fronte alla povertà e alle miserie della socialdemocrazia degenerata e all’inconsistenza delle proposte di ciò che resta della sinistra istituzionale e di classe, appaiono come il male minore e spesso come una soluzione dignitosa ai problemi. A rafforzare il fascino della proposta serve la promessa della rotazione degli incarichi, della revisione della democrazia di mandato, il tentativo di mettere sotto controllo gli eletti evitando che si formi un novo ceto politico burocratico dedito a vivere dalla gestione della cosa pubblica, di politici di mestiere, gestori del consenso.
Tuttavia nemmeno costoro possono sfuggire al dominio del capitale e del mercato,alle imposizioni che vengono attraverso un sistema di gestione centralizzato che vede gli organismi del potere finanziario dettare le regole di funzionamento non solo del mercato ma della gestione politica della società. Malgrado ciò queste forze raccolgono le pulsioni anti sistema a livello di massa, l’insofferenza per i diktat della Banca mondiale, del fondo monetario internazionale e delle stesse istituzioni europee della gran parte dei cittadini che hanno trovato espressione nella Brexit (vedi l’articolo a riguardo) e che alimentano la tendenza a una sempre maggiore avversione verso gli strumenti della politica comunitaria della U. E.. D’altra parte non c’è dubbio che si deve a scelte di politica comunitaria l’attacco complessivo al mondo del lavoro, la destrutturazione del rapporto di lavoro, la riduzione del welfare, la perdita dei diritti anche politici con l’intento di fare del fattore del costo del lavoro lo strumento della concorrenza capitalistica e il sostegno allo sviluppo delle politiche speculative e finanziarie che alimentano il mercato.

Il ruolo delle destre populiste

Questa insufficienza delle forze populiste ha alimentato ed alimenta una soluzione a “destra” della crisi di gestione del consenso che si sta producendo nei diversi paesi europei e in buona misura anche negli Stati Uniti. Se il riformismo si rivela incapace di gestire il consenso proprio a causa del venir meno – come abbiamo visto -. della sua stessa ragion d’essere acquista consistenza la proposta avanzata dai partiti di destra che si fanno interpreti del disagio sociale, della crescita della disoccupazione, delle diminuite protezioni sociali, indicandone la causa nell’immigrazione di massa (economica e politica) a sua volta prodotta proprio da una gestione dissennata del mondo di quello stesso capitale finanziario e di quelle forze monopolistiche che questi dicono di voler combattere.
Così mentre i gestori attuali dei governi investono, sia pure tra mille contraddizioni sull’immigrazione di massa per alimentare un consistente esercito industriale di riserva e per contrastare gli effetti della riduzione della natalità nei paesi dell’Europa le forze della “destra” politica si fanno carico della conflittualità nascente nei territori, delle insofferenze razziali, dei problemi identitari e dei problemi sociali collegati a questi fenomeni proponendo soluzioni di contrasto e contrapposizione che sembrano allettare non pochi operatori economici e finanziari, preoccupati del crollo di consenso imputabile a quelle forze politiche “riformiste” alle quali hanno appaltato la fase attuale della gestione della società.
i spiegano con queste motivazioni le crescenti fortune del lepenismo in Francia, della destra xenofoba in Austria, delle destre in moltissimi dei paesi ex socialisti, la crescita della destra nella stessa Germania mentre la concorrenza a destra che il PdR fa alla Lega di Salvini ne ridimensiona i successi elettorali, riuscendo a contenere anche la nascita di una destra istituzionale nel Paese.

L’insufficienza della sinistra di classe

Se il riformismo, in tutte le sue accezioni non ride, se la destra in alcuni casi accumula successi o come in Italia e ferma al palo la sinistra di classe non esiste e tanto meno esiste un’alternativa rivoluzionaria in questa fase economica e politica.
Manca il progetto, sono assenti le idee cardine di riferimento, manca ogni idea sulle alleanze, sull’organizzazione politica, su una proposta anche minima di carattere strategico, mancano perfino proposte tattiche di breve periodo e di limitata ampiezza territoriale. Un silenzio assordante giunge dalla sinistra sulle vertenze aziendali, sulla scuola, sulle pensioni, sull’assistenza sanitaria e il welfare, sul problema istituzionale. In tempi passati provammo a ipotizzare accanto a il progetto strategico gli elementi i un programma minimo, perché i nostri interlocutori a livello sociale potessero individuare delle soluzioni passibili e fossero chiamati intorno a delle linee di azione. Questo sforzo di progettualità è necessari soprattutto in un momento in cui il movimento sindacale sembra occupato a raccogliere firme e solo a fare questo. Lo raccoglie per la carta del lavoro, li raccoglie contro il Job Act, li raccoglie contro la riforma della scuola e solleva flebili proteste contro l’uso dei vaucer e la precarizzazione infinita del mercato del lavoro. Un sindacato ridotto a fare petizioni e non lotte non offre nessuna alternativa politica!
Quello che occorre è far partire dal basso. Dai luoghi di aggregazione e di lavoro lotte esemplari autogestite in grado di dare corpo e anima all’autonomia sociale, sostituendo alla mediazione dei corpi intermedi che peraltro non esiste più l’azione diretta e la costruzione di alleanze tra lavoratori migranti e autoctoni nella comune difesa di condizioni di vita e di lavoro. Nessuna alternativa è possibile se non si parte dalla ricomposizione degli interessi dei lavoratori, indipendentemente dalla loro collocazione nel mercato del lavoro.
In questa direzione un contributo può arrivare da analisi specifiche come quelle del tessile in Toscana che sviluppiamo in altra parte di questa newsletter.

Gianni Cimbalo