Anni ’90. UNA RIFORMA FALLITA

Agli inizi degli anni ’90 venne tentata una riforma del Pubblico Impiego: fallita!
Quella proposta ora dal Governo Draghi sembra esserne una riedizione che segue le stesse orme. È perciò importante esaminare cosa avvenne e quali furono le cause del fallimento.[1]
L’approvazione della Legge Quadro sul Pubblico Impiego L. 83/’93 aprì la strada alle successive stagioni contrattuali (di durata allora biennale), caratterizzandole come fasi “applicative” di un re inquadramento complessivo. Le nuove assunzioni avrebbero dovuto avvenire nei nuovi profili e qualifiche e occorreva stabilire un percorso attraverso il quale i lavoratori in servizio transitavano nei profili e nelle qualifiche individuate dal nuovo ordinamento degli impiegati civili dello Stato.

Come andarono le cose

All’epoca il sindacato nel P: I. raccoglieva crescenti consensi e si andava verso una rapida sindacalizzazione dei lavoratori del settore. Le lotte operaie spingevano in questa direzione e i lavoratori pubblici volevano recuperare un trattamento dignitoso e superare l’ostilità operaia verso i ceti impiegatizi, alimentata dalla propaganda della controparte e condivisa dalla stesse OO. SS. un po’ per compiacere certo operaismo, un po’ per spiegare ineguaglianze retributive anche reali e un progressivo depauperamento delle classi medie che il sindacato non riusciva né a bloccare né a contrastare, con gravi conseguenze per l’unità di classe e le condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Quindi i contratti dal 1986 al 1990 ebbero al centro un’operazione di riforma che produsse in effetti anche un aumento salariale che costituì per molti il vero obiettivo perseguito per contrastare una politica generale di concertazione e di contenimento dei salari, fatta propria dal sindacato. Attraverso il nuovo inquadramento si elargivano quegli aumenti salariali che la politica generale,l’accordo sulla sterilizzazione della scala mobile e la piattaforma dell’EUR negavano.
L’operazione messa in atto prevedeva, nelle intenzioni del legislatore, il coinvolgimento delle OO. SS. come elementi di cogestione dell’operazione. Il sindacato avrebbe dovuto fungere da elemento di contenimento e insieme di razionalizzazione dell’operazione, alimentandone la condivisione tra i lavoratori. In cambio la controparte elargiva i primi
spazi di contrattazione decentrata per farne elemento di stimolo a livello periferico della stessa P. A., rafforzando il ruolo istituzionale del sindacato.

Il sindacato si fa istituzione

In ogni comparto, per effetto della citata Legge Quadro, erano stati creati organismi di cogestione di diversi aspetti della prestazione di lavoro nei quali il Sindacato concertava con i dirigenti degli uffici la microconflittualità e elementi secondari della prestazione di lavoro. I poteri di questi organismi vennero accresciuti e con lo stesso criterio ne vennero creati di nuovi per gestire le procedure per il passaggio dalle vecchie alle nuove qualifiche e profili; questa operazione passava attraverso il riconoscimento giuridico e salariale di situazioni di fatto creatisi soprattutto per effetto di assunzioni fatte sulle qualifiche più basse, (per limitare la spesa), salvo poi attribuire per ragioni casuali, o clientelari, o per oggettive esigenze di lavoro, attività di fatto ben superiori all’inquadramento formale e agli stipendi corrisposti. Da qui la necessità di una sanatoria che ponesse fine al fenomeno, riconoscesse la situazione di fatto, accompagnata dalla riforma della politica delle assunzioni che avrebbe dovuto essere completamente mutata, per non perpetuare il fenomeno.
Fu proprio quest’ultimo il primo punto sul quale si verificò il fallimento della riforma.
Ciò avvenne perché da un lato le assunzioni per concorso dall’iter lunghissimo, già bandite rimasero tali e sulle vecchie qualifiche, aggiungendo il problema dell’inquadramento dei nuovi assunti nelle more dell’applicazione della legge e poi perché lo Stato non intendeva ne poteva, per ragioni di bilancio, rinunciare a bandire posti su basse qualifiche e demanzionati, poiché la spesa sarebbe aumentata. Così il fenomeno del sottoinquadramento riprese costantemente vigore e ce lo ritroviamo di fronte ancora oggi come uno dei principali problemi della P. A., anche perché ha influito sul depauperamento delle capacità operative dell’Amministrazione.
Tuttavia l’occasione era ghiotta e il sindacato vi si infilò, gestendo con entusiasmo insieme all’Amministrazione, il re inquadramento e approfittandone per condurre una campagna di sindacalizzazione malata, perché afflitta da clientelismo. In quegli anni infatti, nella prima fase di applicazione delle procedure e dei contratti, la sindacalizzazione crebbe e crebbero anche le retribuzioni del P. I., violando giustamente gli scellerati impegni al contenimento dei salari, sottoscritti con la controparte dalle OO. SS.. Il Sindacato della cogestione avrebbe pagato amaramente questa scelta pochi anni dopo, alla metà degli anni novanta, quando, esaurita la spinta dell’innovazione e visti gli effetti del rinvigorito clientelismo, iniziarono gli abbandoni e la crisi di rappresentanza del sindacato, accompagnata dalla disdetta delle iscrizioni e soprattutto dalla fine della militanza e delle lotte nel settore.

Cosa non ha funzionato

L’inserimento del sindacato nelle commissioni di riprofilatura e inquadramento nelle mansioni superiori ha lasciato scontenti e delusi molte lavoratrici e lavoratori, lo schifo del prevalere delle cordate di amici, l’arruffianamento con i capi ufficio e con i boss sindacali locali hanno reso palpabile il clima di favoritismi e partigianeria dominante, hanno ulteriormente eroso la solidarietà di classe e individualizzato il rapporto di lavoro. La politica di proliferazione delle indennità, resa necessaria per aggirare il blocco degli aumenti salariali in paga base, ha allargato a ventaglio le differenze retributive, contribuendo a individualizzare il rapporto di lavoro, rafforzando la tendenza all’edonismo sociale degli anni a cavallo della fine del secolo. Il blocco sociale costituito dalla classe media è regredito nel reddito e nelle condizioni materiali di vita, ingenerando falsa coscienza e minando ogni solidarietà di classe.
Le conseguenze di questa situazione sono da ascrivere tra le cause della crisi delle Pubblica Amministrazione ulteriormente depauperata dalle esternalizzazione delle attività più qualificanti e privata perfino della funzione di controllo e verifica delle attività esternalizzate per la mancanza di personale in grado di svolgere queste funzioni.
Parallelamente la farraginosità delle leggi e dei regolamenti ha fatto il resto. Non ha migliorato le cose né la digitalizzazione né l’introduzione della telematica e dell’informatica, sia perché la necessità del supporto cartaceo di ogni documento è rimasta, sia perché alla digitalizzazione di archivi, banche dati e uffici, non ha corrisposto la realizzazione di interfaccia che rendessero tra loro dialoganti i diversi sistemi informatici realizzati. Il risultato di questo disastro è apparso chiaro durante la pandemia ed evidenziato dall’incapacità delle banche dati regionali di comunicare tra loro.
L’operazione di riforma è fallita e quei pochi nuovi lavoratori che arrivavano, malgrado i blocchi delle assunzioni, sono ancora una volta assunti sui bassi livelli, demansionati, e l’organizzazione del lavoro già vecchia e decrepita degrada ulteriormente.

Una lezione per il sindacato

Quanto avvenuto dimostra che là dove il sindacato si è fatto cogestore dell’inquadramento, divenendo controparte dei lavoratori, si è autodistrutto come aggregato di classe ed è divenuto una delle diverse bande di portatori di interessi
che imperversano nella pubblica amministrazione, impedendo qualsiasi riforma e facendosi complice dell’immobilismo e del depauperamento dei servizi alla persona.
Una strada diversa è possibile e può essere cercata anche tra le esperienze maturate a cavallo degli anni ’90, come vedremo nel prossimo numero.

[1] Questo articolo riguarda le Amministrazioni pubbliche e non la Scuola. I lavoratori di questo settore, benché costituiscano una parte rilevante dei dipendenti pubblici, hanno percorsi e problematiche sindacali specifiche di comparto che necessitano di un’analisi
specifica.

Gianni Cimbalo