Piccole patrie e autonomia

Ha suscitato molta attenzione il referendum scozzese per l’indipendenza mentre è ancora aperta la battaglia per indire quello della Catalogna. La crisi economica e il ridursi delle risorse inducono le popolazioni a guardare al particolarismo territoriale per la soluzione dei loro problemi.
Avviene in Scozia come in Catalogna, nei Paesi Baschi come in alcune regioni italiane. Ne il fenomeno è limitato ai soli paesi dell’Europa occidentale perché questo percorso è stato fatto ad Est a partire dai Balcani con la dissoluzione della Jugoslavia e ora si presenta sotto altre forme in Ucraina e in altri paesi di quell’area.
Certo la tendenza alla costituzione di unità statali minori si fonda in alcuni casi su ragioni linguistiche, etniche, storiche ma su tutto dominano le ragioni economiche Non è un caso che la voglia di indipendenza della Scozia della Catalogna e dei Paesi Baschi poggia nel primo caso sulla presenza di una consistente produzione petrolifera, nel secondo sul fatto che l’economia Catalana fornisce il maggior contributo a quella spagnola, e sul fatto che la struttura produttiva basca sia solida anche se messa a dura prova dalla crisi. Gli elementi di analisi segnalati deporrebbero a favore di una lettura dei problemi di carattere “egoistico” e cioè che in tempo di crisi emergono gli interessi particolaristici forti e tuttavia vi sono alcuni elementi ulteriori di analisi da considerare
partendo dal fatto che tutti questi indipendentismi tendono poi a ricomporsi nella richiesta di adesione all’Unione Europea e gli Stati unitari che ad essi si oppongono dichiarano che opporranno il veto all’ingresso delle nuove entità nell’Unione
Dicevamo che la dissoluzione di Stati nazionali non è un fenomeno nuovo rispetto alla separazione tra Cechia e Slovacchia e alla dissoluzione jugoslava, ma in quel caso l’ingresso nell’Unione Europea non solo era voluto, ma stimolato e in molti casi era da ascriverne agli interessi degli Stati che facevano già parte dell’Unione i quali si sono impegnati a sollecitare l’adesione delle nuove entità dopo averne riplasmato le
istituzioni e la struttura ordinamentale. Il processo di unificazione europea non può prescindere dal sia pur graduale smantellamento degli Stati nazionali, perché dalle loro ceneri possa sorgere lo Stato unitario europeo.
Il fatto è che le politiche liberiste hanno fatto prevalere il disegno della Grande Germania, la quale sostiene un suo progetto di egemonia che tende a sganciare le economie deboli di Italia Francia e Spagna e degli altri paesi del mediterraneo in nome della realizzazione di quell’area di predominio economico che Hitler individuava come quella dello spazio vitale nel Mein Kampf costituita dai Balcani e dai territori ad est del
confine tedesco inglobando il Nord Europa.
Ecco allora che i nazionalismi regionali della Gran Bretagna e della Spagna perdono di consistenza e sono destinati a non potersi inserire in una strategia europea di sviluppo fondata sull’autonomia delle istituzioni regionali e sulla territorializzazione dei diritti, dell’organizzazione sociale delle strutture istituzionali che presuppongono una distribuzione delle risorse maggiormente vincolata al territorio e forme di equilibrio nella
redistribuzione tra le diverse aree.
Per gli stessi motivi il leghismo italiano assume posizioni anti europeiste e vede nello sganciamento dall’area euro la sola strada per perseguire i suoi obiettivi. La loro posizione si caratterizza per l’appoggio a tutte le opzioni separatiste in nome di un particolarismo che sposa la strada dell’autodeterminazione.
L’uscita dall’immobilismo dell’area UE passa inevitabilmente per un mutamento della politica economica e per l’abbandono delle ricette neoliberiste. Solo il  ridimensionamento delle ambizioni tedesche e il rilancio di una economia integrata di sviluppo possono consentire al continente di raggiungere la sua unità che è il presupposto per il rilancio di quest’area sul mercato mondiale, Indipendentismo identitario e federalismo solidale Potrebbe, di primo impulso, sembrare ovvio che il decentramento delle decisioni, il rendere meno lontani e più controllabili i centri di potere sia un passo in avanti nella strada della democrazia diretta da sempre perseguita dagli anarchici. Questo, però, sarebbe un approccio troppo superficiale. Infatti non è che la nuova società possa costruirsi a piccoli e ripetuti scalini: questo sì che sarebbe vero e proprio riformismo. Senza un ribaltamento dei rapporti proprietari della società non vi è alcuna possibilità di fondare una società di liberi ed eguali. Il federalismo non è la via maestra per la società anarchica, ma il cavallo di troia dei particolarismi identitari, volti a chiudere i territori al diverso, visto come nemico pericoloso, in funzione di una purezza, bene che vada, di tradizioni che affondano le proprie incerte origini in una passato tanto antico quanto mitico. Non è un caso, ad esempio, che la rivendicazione di indipendenza della Scozia, unita all’Inghilterra (e al Galles, all’Irlanda del Nord, all’isola di Man) nel Regno Unito da oltre tre secoli, covasse nel suo seno anche la richiesta di indipendenza delle isole Orcadi e Shetland che aspiravano a riunirsi alle loro origini norvegesi: tant’è che, giudicando uno Stato scozzese meno favorevole alle loro posizioni di quanto non lo fosse il governo
di Londra, le loro popolazioni si sono schierate per il no.
Il problema è che il federalismo anarchico non nasce da una difesa ad oltranza delle abitudini di un territorio (culturali, religiose, linguistiche, etc.), in funzione della costruzione di una forma di aggregazione ostile al cambiamento, ma dal riconoscimento di queste abitudini in una prospettiva solidale, pronta ad accogliere innesti diversi, valorizzandone la capacità di contaminazione; il portatore di una cultura diversa sarà
visto come una grande occasione per riconsiderare la validità di quanto fino ad allora ritenuto corretto. Il federalismo anarchico non è il risultato di uno sminuzzamento di un tessuto statuale, ma la costruzione dal basso di un’unità via via più ampia, costruita con coscienza e volontà di integrazione umana.
Un discorso diverso, ma fino ad un certo punto, è la questione relativa alle lotte di liberazione nazionale, che scaturiscono da un’oppressione straniera, spesso di natura coloniale. Queste hanno sempre goduto delle nostre ampie simpatie, per motivazioni ovvie. Il risultato finale, però, si è sempre rivelato essere l’emergere di uno strato dirigente indigeno, nelle migliori delle ipotesi legato alla borghesia nazionale, se no, a volte, di regimi dittatoriali estremamente efferati. E sempre le borghesie locali promuovono e spingono le richieste di divisioni territoriali, speculando sulle insoddisfazioni dei cittadini delle classi sfruttate, per approdare a soluzioni a loro economicamente più favorevoli.
Per tutto ciò i comunisti anarchici guardano con scetticismo i conati indipendentistici delle regioni, che tanto vanno di moda nell’epoca della globalizzazione, che non a caso fa da sfondo al loro proliferare; non perché pensino che sia difendibile uno Stato centralistico, ma perché ritengono che la divisione della casa madre non sia foriera di un miglioramento del proletariato, seppure esso vi si impegni, spinto da una miraggio
che in realtà non lo riguarda. Le classi subalterne transiterebbero da un padrone ad un altro, non certo più benevolo e la delusione che ne seguirebbe non accelererebbe una presa di coscienza rivoluzionaria, ma la allontanerebbe.

La Redazione