FEDELI ALLA LINEA

Dopo un paio d’anni di silenzio, quest’autunno un simulacro di movimento degli studenti medi ha rifatto la sua comparsa; la causa scatenante è stata la versione “buona” che la legge 107 del 2015 ha sancito della cosiddetta alternanza scuola-lavoro. Non è un caso che questo che , come tanti altri, si è rivelato un punto debole della “riforma” fortemente voluta dal governo Renzi, subisca oggi un autentico battage pubblicitario da parte del Ministero, sostenuto dal giornale di Confindustria: se la linea della “buona scuola” tanti dispiaceri ha dato al PD renziano, non è certo il caso che si apra un contenzioso anche con il fronte degli studenti. Prima di entrare nel merito di cosa viene addotto da Miur e industriali a supporto della scelta operata, è necessaria una precisazione lessicale, non di poco conto, ed una revisione storica dell’argomento.
Il blitz legislativo del 2015, nell’ansia propagandistica che l’animava, ha cavalcato la parola d’ordine dell’alternanza nella più totale ignoranza di cosa questa significasse realmente. I percorsi veri di alternanza scuola-lavoro sono tutt’altra cosa dagli stage aziendali; mentre i secondi sono, appunto, un contatto degli studenti con il mondo del lavoro, di per sé positivo, i primi sono veri periodi alternati di formazione teorica e di formazione pratica: questi sono finalizzati ad una reale acquisizione di esperienze di lavoro volti al raggiungimento di qualifiche professionali e che possono sfociare in autentiche assunzioni. Non a caso i percorsi di alternanza erano progettati per studenti, cosiddetti drop-out cioè in odore di fuoriuscire dal percorso formativo o per studenti diversamente abili, in modo da creare per essi la possibilità concreta di un inserimento nel mondo del lavoro. Nel 2000 fu firmato un accordo tra Ministero e Unioncamere, con l’avallo della Conferenza Stato-Regioni, per la sperimentazione in alcuni Istituti di percorsi di alternanza finalizzati, per l’appunto, al conseguimento di titoli di specializzazione spendibili successivamente nelle assunzioni. Quelli previsti dalla 107/15 non sono, in questo senso, percorsi scuola-lavoro, ma stage prolungati.
Uno scampolo di memoria storica, che sembra ormai non albergare nei governanti, ci dice che gli stage sono da molto tempo sono largamente applicati da istituti tecnici e professionali, ben prima della riforma sfascista del ministro Moratti. Non solo, ma fanno parte del bagaglio dei curricoli e quindi non erano opzionali ma necessari. Allora qual è la novità? Le novità sono tre: il loro ampliamento temporale, l’estensione dell’obbligatorietà ai licei e l’inserimento della esperienza “on job” (come ormai si dice in gergo) nell’esame di stato. Ognuna di queste novità merita un approfondimento.
La professionista dell’ovvio, il ministro meno qualificata della storia, tale Fedeli, in una intervista (Il Sole 24 ore, 17 dicembre 2017, a.151, n° 341, p. 20) fa annunci clamorosi, almeno così crede: gli studenti potranno fare la cosiddetta alternanza anche all’estero e durante il periodo estivo. Certamente ella ignora che entrambe le cose erano già largamente praticate, ma l’apertura al periodo in cui le lezioni sono terminate suggerisce che, forse, al ministero si sono resi conto che un così elevato numero di ore (400 nel triennio per gli istituti tecnici e professionali) costituiscono un’eccessiva riduzione dei corsi curricolari. Certamente un’esperienza negli ambienti di lavoro può essere utile anche per gli studenti liceali, ma poiché i licei non sono concepiti per l’accesso immediato al posto di lavoro, rendere l’alternanza obbligatoria per essi (200 ore nel triennio) è inaccettabile per l’impoverimento della formazione teorica che ciò comporta.
Inoltre l’esperienza si sviluppa prevalentemente in studi professionali, biblioteche, enti culturali e amministrazioni pubbliche; quindi non si può menare scandalo per le attività che si possono altrettanto utilmente organizzare nelle scuole, come fa Claudio Terzi in un articolo (Il Sole 24 ore, 16 dicembre 2017, a.151, n° 340, p. 14) su cui sarà opportuno tornare.
Che cosa poi possa significare inserire l’alternanza all’interno del mondo del lavoro, quale parte dell’esame finale sfugge invero ad ogni seria analisi. Significa sostituire all’accertamento delle “competenze” il racconto di un’esperienza. Questo è già di per sé poco auspicabile, ma se a questo si aggiunge che molte di queste esperienze si svolgono in modo molto poco formativo e spesso in attività che poco o nulla hanno a che vedere con il percorso formativo (come da più parti denunciano gli studenti e anche molti Istituti Scolastici), la situazione diviene grottesca. Perché questo potesse acquistare un minimo di senso occorrerebbe una stretta correlazione tra specializzazione degli studenti ed esperienza lavorativa ed un’effettiva crescita delle conoscenze, cosa che potrebbe essere assicurata se essi sperimentassero in pratica quanto hanno visto solo dal lato teorico o in un laboratorio già predisposto per le proprie esercitazioni.
Carlo Terzi lamenta appunto che molti studenti svolgono la loro alternanza in ambienti diversi dalle aziende. Nel proprio furore di compiacere il ministero ed il proprio datore di lavoro (Confindustria) dimentica di fare due cose fondamentali per scrivere un articolo: informarsi e riflettere. Infatti egli sembra credere che istituti tecnici e professionali attivassero percorsi di alternanza solo dal 2003 “grazie alla legge Moratti-Aprea”, se si fosse minimamente documentato avrebbe facilmente scoperto che è già dagli anni ’70 del secolo scorso che detti istituti organizzavano obbligatoriamente stage aziendali. Ma il problema più grave è la mancanza di riflessione: come detto, per essere minimamente proficua l’esperienza di lavoro deve essere coerente con il percorso di studi intrapreso dallo studente; infatti, se un allievo segue un indirizzo di servizi sociali, ricava poco da una permanenza in azienda metalmeccanica, oppure un allievo geometra non trova certo giovamento in un istituto di assistenza agli anziani. Cosa quindi può ricavare un liceale da un cantiere edile? Molto meglio che svolga la propria attività in una biblioteca. Ma ancora una volta questo è un problema poco correlato alla realtà, perché spesso le “aziende” in cui gli studenti vengono avviati fanno fare loro lavori per nulla attinenti ai loro interessi formativi, come viene sovente lamentato da loro od anche dai docenti tutor. Inoltre ci sono “aziende” che cercano studenti anche se non possono per la loro specificità offrire alcun aiuto formativo, ma che li cercano per risparmiare sulle assunzioni a tempo determinato; altrimenti perché una nota catena di fast food telefonerebbe alle scuole per offrire posti per lo svolgimento dell’alternanza? C’è solo la speranza che un attento monitoraggio della situazione permetta al ministero di evitare tali palesi abusi e distorsioni.
Ma il problema è molto più profondo. C’è dietro questa propaganda spasmodica per la cosiddetta alternanza una filosofia francamente inaccettabile. Il pensiero che sottostà, nemmeno occultamente, a questa manovra e quello che lega scuola ed industria, nella convinzione che ciò possa agevolare la ricerca di un’occupazione da parte dei neodiplomati. In linea generale la scuola non deve preparare per un lavoro specifico per due ordini di motivi. Il primo è che il lavoro cambia al giorno d’oggi molto rapidamente nel tempo e quindi è più opportuno fornire una formazione più generale ed una forma mentis adatta ad apprendere un lavoro ed a cambiarlo se necessario con sufficiente e facilità e rapidità; d’altronde se ben riflettono gli imprenditori necessitano di forza lavoro dotata di elasticità mentale piuttosto che di un lavoratore molto specializzato, ma incapace di mutare le proprie attitudini. E questo è stato uno dei punti di forza del nostro sistema formativo rispetto a quello di altri paesi.
Il secondo motivo è più teorico, ma certo non meno importante. La scuola è un momento formativo globale: deve insegnare conoscenze e capacità specifiche coerenti alle propensioni espresse dagli allievi, ma il suo compito non si esaurisce qui: essa deve anche fornire agli studenti una coscienza critica che li renda in grado di affrontare poi la vita nella società e nell’ambiente di lavoro con una propria autonoma capacità di giudizio. Questo compito non ha nulla a che vedere con l’alternanza e purtroppo resta sempre più in secondo piano: un popolo ignorante o poco attento è più suggestionabile e maneggiabile, a tutto vantaggio di coloro che detengono le leve del potere politico ed economico.

Saverio Craparo

L’alternanza scuola lavoro è stata introdotta per la prima volta nelle scuole italiane nel 2005 con il decreto ministeriale numero 77 del 2005, voluto dall’allora Ministra dell’Istruzione Moratti, che istituiva l’alternanza in via sperimentale, quindi non obbligatoria, per gli studenti degli istituti tecnici e professionali.
La legge 107, con la sua approvazione, ha reso obbligatoria l’alternanza scuola lavoro istituendo anche un limite minimo delle ore da completare di 200 per i licei e di 400 per gli istituti tecnici professionali, con la possibilità di effettuarla anche nei periodi di sospensione didattica (ovvero durante le vacanze). L’imposizione di un monte ore così elevato assieme alla mancanza di uno statuto delle studentesse e degli studenti che sono collocati in alternanza scuola lavoro ha portato a numerosi casi di sfruttamento del lavoro senza alcun beneficio per la formazione degli studenti