IRAN: RISORGE L’IDENTITA FEMMINILE

“Questa non è più una protesa, è l’inizio di una rivoluzione” cantano le donne (e gli uomini) nelle strade e nelle piazze iraniane ormai da settimane nella più lunga mobilitazione popolare contro il regime dal 1979. A fronteggiarle la “polizia della sicurezza morale” (Gasht-e Ershad, in persiano), fondata all’inizio del 2005 come organo delle forze dell’ordine “per pattugliare le strade e assicurarsi che l’aspetto delle donne sia coerente con i principi islamici e le regole ufficiali del codice di abbigliamento islamico. Il 7 marzo 1979, il leader della rivoluzione, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, aveva stabilito per decreto che l’hijab sarebbe stato obbligatorio per tutte le donne sul posto di lavoro; egli considerava le donne scoperte come “nude”. Per le donne, all’indomani della fine della Rivoluzione islamica iraniana, venne introdotto il codice di abbigliamento che trasformò la monarchia del paese in una Repubblica islamica sciita, la cui costituzione si ispira alla legge coranica. Nell’Islam iraniano, che si basa sull’interpretazione della Sharia, portare l’hijab, indossare abiti lunghi e larghi per mascherare la propria figura, rientra in quello che è considerato un abbigliamento
modesto che la polizia morale si occupa di far rispettare: nessuno che guarda una donna deve poterne percepire la forma del corpo, perché l’identità della donna va nascosta, cancellata.
Benché questa disposizione fosse stata contestata già all’indomani della sua adozione da una manifestazione di più di 100mila persone, svoltasi in occasione della Festa della Donna (1979). Nel 1983, il Parlamento decise che le donne che non si coprivano i capelli in pubblico potevano essere punite con 74 frustate. Più recentemente, è stato introdotto un emendamento alla legge, aggiungendo una pena che può giungere fino a 60 giorni di carcere.
Per assicurarsi il rispetto delle disposizioni impartite inizialmente vennero costituiti i Comitati Rivoluzionari Popolari e in seguito vennero organizzate dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane (IRGC) le forze della milizia di Basij della quale fanno parte sia ragazzi e ragazze dai 12 anni in su, sia ultra 46enni di ambo i sessi. La polizia morale è di fatto una filiazione del Basij, una forza paramilitare inizialmente mobilitata per combattere nella guerra tra Iran e Iraq negli anni ’80.[1]
Basij è presente in tutte le Università iraniane per controllare l’abbigliamento e il comportamento delle persone, dal momento che gli atenei sono i luoghi in cui uomini e donne studiano e frequentano corsi insieme. Diffuso capillarmente in tutto il paese il Basij ha come struttura di punta 2.500 miliziani dei battaglioni “al-Zahrā” (interamente
femminile) e dai “battaglioni ʿĀshurā” (interamente maschili), ognuno dei quali forte di 300–350 persone. Organizzati in squadre di motociclisti armati di bastoni, vere e proprie bande di teppisti assassini, legalmente autorizzati, aggrediscono chiunque tenti di opporsi ai diktat del regime. Costoro possono contare sul sostegno di 30.000 cellule combattenti, ognuna delle quali è forte di 15-20 membri, chiamati Karbala e Zolfaqar, che cooperano strettamente con l’esercito dei Guardiani della rivoluzione e sono collegati alle moschee e indirizzati dal clero.
Le persone arrestate dalla polizia morale vengono avvisate e ammonite, ma sempre più spesso vengono portate in “strutture di correzione” o in una stazione di polizia, dove viene imposto brutalmente l’abbigliamento prescritto e vengono istruite su come comportarsi “moralmente” prima di essere rilasciate ai loro parenti maschi. Le donne vengono spesso detenute, pestate, e a volte abusate, eventualmente rilasciate solo quando un parente maschio fornisce assicurazioni sul rispetto rigoroso alle norme di abbigliamento. A discrezione della polizia vengono comminate multe che costituiscono
vere e proprie estorsioni a beneficio di questo corpo corrotto di guardiani della “moralità”; in ultima istanza si ricorre al carcere dove si trascorre molto tempo in attesa del processo.
Il 15 agosto scorso, il presidente Ebrahim Raisi, un religioso intransigente eletto l’anno scorso, ha firmato un decreto per far rispettare la legge sull’hijab e sulla castità.In base alla norma, le donne che pubblicano le loro foto senza l’hijab sui social network sono private di alcuni diritti sociali per un periodo compreso tra sei mesi e un anno, come
l’ingresso negli uffici governativi, nelle banche o l’utilizzo dei mezzi pubblici. Il governo iraniano sta anche pianificando di utilizzare tecnologie per il riconoscimento facciale sui mezzi pubblici per identificare le donne che non indossano l’hijab.

La struttura sociale di potere della Repubblica Islamica

Per comprendere quali sono le basi di questo immenso potere repressivo bisogna tenere conto che nel sistema istituzionale iraniano la Guida suprema della rivoluzione svolge una duplice funzione: in quanto esponente del circolo ristretto di potere ed anche mediatore super partes tra le diverse fazioni nelle quali è articolato il regime, mettendo in atto una gestione collegiale del potere che, di fatto, configge con la teoria totalitaria del velayat-efaqih.[2] Questo circolo ristretto è espressione di una struttura articolata delle componenti di carattere economico e sociale della società che si dividono il controllo degli affari. Si tratta di un sistema di attribuzione verticale di potere che dovrebbe impedire l’emergere di aree di conflitto o di sovrapposizione, consentendo una gestione controllata dell’economia di mercato nella quale operano le bonyad.
Ci riferiamo alle “fondazioni” – l’equivalente nel mondo sciita dei waqf o hubus, propri dei paesi sunniti – di fatto gestite da persone provenienti dall’ambito dei pasdaran che hanno in mano circa il 70% dell’economia iraniana. Ci riferiamo ai membri della milizia popolare dalla forte impronta religiosa, voluta dal clero al momento della rivoluzione
che oggi gestisce un potente ed articolato sistema militare ed economico, rappresenta la spina dorsale dell’impianto istituzionale rivoluzionario. Come avviene con tutte le milizie rivoluzionarie, una volta finita la fase “eroica” della rivoluzione e acquisita la gestione del potere questa organizzazione si è progressivamente “imborghesita” e ha prodotto un ceto manageriale e burocratico che vive in modo sempre più indipendente dal progetto politico e ideologico che lo ha prodotto, in questo caso il sistema teocratico iraniano.
Oggi i pasdaran gestiscono un enorme e complesso sistema di industrie militari, di aziende industriali che producono beni di consumo, erogano servizi sociali. Danno lavoro, creano clientele che nel loro insieme costituiscono una sorta di Stato nello Stato, con una capacità di orientare il voto e la capacità di influenza senza pari nel paese.
Nonostante la fedeltà al vertice dello Stato non sia mai stata messa ufficialmente in discussione, molte e sempre più evidenti sono le fazioni politiche all’interno dei pasdaran.
Oggi la crisi economica che investe il paese sta mettendo alla prova questo sistema e la società civile prende le distanze dal regime che reagisce inasprendo i controlli e utilizzando la struttura paramilitare legata al clero e all’apparato istituzionale per reprimere ogni dissenso.

Cresce la protesta sociale

La protesta dilaga e le restrizioni dello scorso mese hanno portato a un aumento degli arresti, ma hanno anche innescato un’ondata di dimostrazioni. Molte donne, in segno di protesta, hanno deciso di non portare il velo in pubblico in varie città iraniane, filmandosi e condividendo i video sui propri profili social. Quelle che si stanno registrando in questi giorni non sono quindi le prime proteste contro l’uso obbligatorio dell’hijab. Un sondaggio condotto da un centro di ricerca collegato al Parlamento nel 2018 aveva rilevato che è diminuito il numero delle persone favorevoli all’azione del
governo sul rispetto dell’obbligatorietà del velo. Da qui il decreto del 15 agosto che ha innescato le proteste, in un paese che attraverso il web sempre più frequentato dai giovani li avvicinava al mondo Ma perché in questo caso la protesta risulta insolitamente duratura e cresce malgrado la durissima repressione e i tanti morti e arresti? Ebbene è proprio la durezza della repressione che ha fatto fare un salto di qualità alla protesta che si è trasformata rivolta radicale contro l’esistenza stessa del Governo. È ancora troppo presto per dire a cosa porterà quando sta avvenendo, ma certamente le manifestazioni sono le più lunghe in termini di durata e le più grandi in termini di partecipazione popolare, svoltesi nel Paese da sempre.
L’uccisione della 22enne Mahsa (Jina) Amini, fermata perché non indossava “regolarmente“ il velo è finita in coma mentre era sotto la custodia della “polizia della sicurezza morale” della Repubblica islamica.
Quando dopo numerosi arresti cardiaci, causati dalle percosse ricevute, è stata trasferita in ospedale semi-cosciente dopo sole 2 ore in detenzione, ha fatto capire che ciò che è accaduto a lei può accadere a chiunque e che chiunque può morire impunemente a causa delle percosse della polizia, come le altre morti di ragazze coraggiose hanno dimostrato.
Il 18 ottobre Asea Panahi, una ragazza di 16 anni è stata uccisa a bastonate dalla polizia “morale” per non aver cantato – insieme ad altre ragazze di un liceo femminile, un inno dedicato alla Guida Suprema dell’Iran, Alì Khamenei. La ragazza aveva anche urlato: ” Donna, vita, libertà! ” e si era rifiutata insieme alle sue compagne di partecipare a una manifestazione pro-regime.
Quanto sta avvenendo ha spinto iraniane e iraniani a protestare nelle strade non solo contro la violenza della polizia, ma anche contro l’intero sistema di oppressione che ha dominato l’Iran per oltre 4 decenni dopo la rivoluzione di Khomeini.
Così la lotta contro l’oppressione delle donne, si è saldata con quella contro la corruzione e la povertà, contro la discriminazione etnica, contro il fondamentalismo religioso, contro la Repubblica Islamica, contro il conformismo intellettuale e per la libertà politica, contro il terrore di Stato. Sempre più iraniani vogliono un Paese libero
dal dogmatismo religioso e politico in cui prevalgano la dignità umana e la giustizia e dove tutti possano godere di una società equa e non discriminatoria.

La questione femminile e quella dei giovani

La differenza principale di questo movimento è costituita dal livello di unità e dalla diversità delle forze che lo sostengono. I giovani vogliono riconquistare il loro Paese, vogliono essere liberi, vogliono che i loro meriti siano riconosciuti e vogliono costruire un Paese modellandolo con le proprie mani. Per questo hanno adottato uno slogan
condiviso “Combattiamo, moriamo, ma ci riprenderemo l’Iran”.
Le donne iraniane, che hanno una solida tradizione di lotte, a partire dalla Rivoluzione Costituzionale Iraniana (1905-1911), che hanno condotto dure battaglie nelle campagne per l’emancipazione femminile e non scesero in piazza solo (come ricordato) nel 1979, ma anche in occasione delle proteste studentesche del 1999, con il Movimento Verde, le Ragazze della Via Enghelab e le proteste del Aban di Sangue, e questo perché moltissime sono le studentesse, quasi il doppio dei maschi. E questa volta la protesta non riguarda solo le Università, ma anche le scuole superiori, mettendo in crisi l’operato repressivo della polizia morale, la sua presa sui giovani il che fa sì che essa sia ritenuta nel sentire comune sempre più formata da bande di teppisti e teppiste pervertiti. Dopo anni di frustrazione sociale e difficoltà economiche, persone di tutte le classi e gruppi sociali sono ora in strada. Le proteste sono arrivate nei villaggi e nelle città,
coinvolgendo le classi più fragili della società iraniana – che sono le più numerose – nelle periferie come nelle città grandi che sono tradizionalmente più conservatrici e religiose.
In passato a mobilitarsi erano state le categoricamente di studenti,  lavoratori,appartenenti a classi medie e medioalte dei centri urbani, le minoranze, le componenti etniche regionali, le donne e la componente LGBTQ+, ma mai era
successo che agissero uniti in un modo inclusivo e tutte insieme. Per la prima volta sembra esservi la coscienza che si lotta contro il nemico comune: il governo al potere cerca continuamente di affermare il proprio controllo, minando la coesione sociale e mettendo le persone ed i movimenti sociali uno contro l’altro. La Repubblica Islamica cerca di ridurre le identità nazionali iraniane alla sua visione di una comunità islamica universale (Ummat), fomentando il settarismo etnico e indebolendo il punto di forza dell’Iran che è la sua multietnicità ed è contro tutto questo che si è costruita l’unità.
Vi è poi da prendere atto di un cambio generazionale: la maggior parte dei manifestanti ha un’età compresa tra i 15 e i 25 anni e sono in maggioranza donne. Anche se la componente femminista del movimento di lotta appare come essenziale è la globalità delle azioni nelle recenti manifestazioni che sono inclusive a un livello senza precedenti a costituire la novità. Il fatto è che la protesta è riuscita a riunire vari movimenti e forze di opposizione in un’unità organica.
La rivolta è cominciata tra i Curdi, i Beluci o da altri gruppi politici. ma ora, sempre di più, tutti gli iraniani condividono la stessa causa. La lotta delle donne è riuscita a fare da collante e ad unificare uno scontento segmentato e così iraniani di diverse etnie protestano per i diritti di tutti e ciò che è importante è riuscire a vedere l’originalità e il significato storico e globale di questa lotta.
Gli uomini che scendono in piazza nelle tante città sanno bene che la lotta per i diritti delle donne è anche la lotta per la propria libertà: l’oppressione delle donne non è un caso speciale, è il momento in cui l’oppressione che permea l’intera società è più visibile. Anche i manifestanti che non sono curdi vedono chiaramente che l’oppressione dei curdi pone limiti alla loro stessa libertà: la solidarietà con i curdi è l’unica via e un passaggio obbligato per la libertà in Iran.

L’Iran è un paese giovane

Va ricordato a tutti che l’Iran è un paese giovane. La popolazione dell’Iran è cresciuta durante il XX secolo, raggiungendo i 77 milioni di abitanti nel 2013. Secondo la IRNA (Islamic Republic News Agency) alcuni studi demografici prevedono che la popolazione potrebbe salire a centocinque milioni di abitanti nel 2050, per poi stabilizzarsi a quel livello o diminuire in una fase successiva.
L’Iran inoltre ospita un insieme di popolazioni di rifugiati più alto al mondo, stimato a circa un milione di persone, causate principalmente dalla guerra civile e povertà in Afghanistan e dalle invasioni militari di Afghanistan e Iraq. Secondo stime ufficiali vi sono all’incirca cinque milioni di cittadini iraniani emigrati all’estero, la maggior parte
dopo la rivoluzione iraniana del 1979, ma il numero effettivo è certamente maggiore,
A dispetto di quanto pensano gli sciiti al potere l’Iran è un paese multietnico e multireligioso. Non disponendo di altre fonti secondo le stime della Biblioteca del Congresso le stime sono le seguenti: persiani (65%), azeri (16%), curdi (7%), luri (6%), arabi (2%), Beluci (2%), turkmeni (1%), tribù turche quali i Qashqai (1%), e altri gruppi non iranici non turchi quali armeni, assiri e georgiani, meno del 1%; il persiano è la madre lingua del 65% della popolazione e diffusa come seconda lingua della maggior parte del rimanente 35%.
Nonostante l’alta diversità etnica e culturale bisogna, tuttavia prendere atto che l’Iran ha una lunga storia di integrazione tra varie etnie e religioni sotto la Persia, tanto che oggigiorno l’élite politica del Paese rappresenta una mescolanza dei vari gruppi, non percorsa da rivalità basate su origine etnica. Oggi, sotto la spinta della repressione attuata dal regime, si stanno creando fratture soprattutto con la minoranza curda e azera e la religione rischia di non fare più da collante.

Distribuzione etnico-religiosa dell’Iran

Repressione e radicalizzazione

Fino ad ora, sono state uccise più di cento persone innocenti e migliaia sono state ferite, migliaia sono gli arrestati. La maggior parte sono giovani e soprattutto giovani donne, come Mahsa Amini. Nika Shakarami (17 anni), Hadis Najafi (20 anni), Hannaneh Kia (23 anni), Ghazaleh Chalavi (32 anni), Mahsa Moguyi (18 anni) per citare solo alcune delle vittime. Nella regione del Sistan e del Baluchestan, almeno 42 persone sono state uccise nelle proteste dopo la preghiera del venerdì del 30 settembre. I numeri sono incerti e in crescita, l’accesso a Internet è in gran parte limitato e altri canali di comunicazione sono stati interrotti. Le famiglie delle vittime sono minacciate, non possono parlare e devono seppellire i propri morti; molti sono gli scomparsi dei quali non si hanno notizie. A scendere in lotta non sono solo le Università, ma anche lavoratori e pensionati scioperano per le loro condizioni di vita e di lavoro. Ragazzi e le ragazze delle scuole medie superiori partecipano attivamente alle proteste e si ribellano contro la discriminazione nelle scuole e in pubblico. Da parte sua il regime utilizza bambini-soldati, arresta la gente perfino nelle ambulanze, mentre aumenta la violenta campagna contro i manifestanti con ogni mezzo possibile.
Benché la solidarietà internazionale sia importante bisogna evitare che la diaspora iraniana pur numerosa metta il cappello su quanto sta avvenendo: si tratta in molti casi di persone che non conoscono più la realtà del paese e la libertà del popolo iraniano non può che essere opera degli iraniani stessi. Anzi la politica degli occidentali, più interessata al nucleare iraniano per tutelare Israele che al benessere e alla libertà del popolo iraniano, è bene che sia tenuta il più lontano possibile. Per ora la scelta più opportuna è concentrarsi nella lotta, nelle strade e nelle piazze per la libertà, cercando di trovare ogni possibile soluzione per una effettiva organizzazione dal basso e per fare in modo che il regime crolli.

[1] Basij, acronimo di “L’Organizzazione per la mobilitazione degli oppressi” e un’organizzazione che è stata fondata nel novembre del 1979. Il Basij riceve ordini dall’Esercito dei guardiani della rivoluzione islamica e dal clero. Combattenti volontari reclutati tra le classi diseredate e prive di istruzione i suoi membri vennero utilizzati per condurre attacchi suicidi nella guerra Iran Iraq, soprattutto attorno a Bassora, mandati a morire sui campi minati. Fanatici fondamentalisti sono le squadracce del clero e del regime.
[2] G.L., L’Iran come archetipo di un altro Islam, UCADI, Numero 82 – Febbraio 2016, Newsletter Crescita Politica, Anno 2016.

G.L.