TRUMP E LA TREGUA A GAZA

Gli israeliani si sono concessi una pausa nell’esecuzione dell’olocausto della popolazione di Gaza: relativa, perché continuano ad uccidere. Ma c’è di più, hanno finalmente svelato l’arcano. Lo scopo ultimo dell’operazione è costituito dall’estensione del territorio dello Stato ebraico non solo a Gaza ma anche alla Cisgiordania, e all’uopo hanno provveduto ad approvare una legge apposita che lo prevede. A bloccare l’operazione è intervenuto, inatteso, perfino il veto di Trump che va spiegato.
Innanzitutto bisogna considerare l’indebolimento e le divisioni insorte nella lobby ebraica mondiale che da sempre sostiene Israele, causate dal genocidio messo in atto a Gaza, dall’orrore generato dal massacro, dai metodi usati come la fame, l’uccisione indiscriminata di donne e bambini, le violenze individuali di non pochi soldati sulla popolazione gazaui, le orribili torture dei prigionieri nelle carceri israeliane, ma soprattutto il rendersi conto che quando stava accadendo era venuto ha la conoscenza del mondo, che disgustato e indignato era sceso in piazza, facendo temere il risorgere di un antisemitismo virulento. Qualunque cosa dicano i negazionisti quanto è avvenuto è stato documentato da giornalisti coraggiosi, che hanno sacrificato la loro vita per far conoscere al mondo quanto avveniva, anche se Israele non ha trascurato occasione per eliminarne ben 247, e nascondere il genocidio dei gazaui.
Se molti tra gli ebrei residenti in Israele possono vedere quanto fatto a Gaza come una necessità e un bisogno di soddisfare il desiderio di vendetta, gli ebrei della diaspora, almeno parte delle comunità sparse per il mondo, hanno visto nel genocidio degli abitanti di Gaza una riproposizione dei metodi e della tragedia dell’Olocausto, che molti di loro hanno vissuto. Certo si tratta di defezioni e di perplessità individuali, ma è un fatto che l’unanime sostegno ad Israele, per la prima volta, viene messo in discussione. Ben si comprende quando sta avvenendo se solo si guarda alle posizioni assunte
dalla Comunità degli ebrei romani che si è distinta per pavidità. Le prese di posizione coraggiose e individuali di intellettuali, superstiti dell’Olocausto e semplici cittadini, colpiti dall’orrore di quando stava avvenendo non basta a restituire dignità all’ebraismo che tende sempre più ad identificarsi con il sionismo. Il frutto malato di quando sta
avvenendo e che questi comportamenti rischiano di fornire le basi per far risorgere un antisemitismo radicale proprio a causa dell’identificazione di Israele con l’ebraismo. Ne è consapevole almeno una parte della stessa società israeliana prova ne sia che le persone più brillanti e dinamiche, i titolari di startup alle quali si deve la forza dell’economia di Israele stanno abbandonando il paese che si sta sempre più orientalizzando e quel che è più grave clericalizzandosi.
Alla migrazione di cui si diceva corrisponde una crescita demografica ad opera delle famiglie di ebrei ortodossi che includono la procreazione tra i doveri religiosi, che educano, i loro figli in scuole separate e confessionali, evitando l’insegnamento di materie scientifiche e sostengono con sempre più convinzione il creazionismo e sono convinti che e non dalla forza, ma dal numero nascerà la Grande Israele, facendo agio sulla forza della demografia.
All’orrore per quanto stava avvenendo ha indotto molti a scendere in piazza in tutto il mondo: stimolati dall’iniziativa di forzare il blocco di Gaza da parte della “Flottiglia del Ṣumūd globale”, l’opinione pubblica si è mobilitata, particolarmente in Italia, per esternare la condanna dei comportamenti del Governo d’Israele che si è difeso bollando queste mobilitazioni come antisemite, mentre non di antisemitismo si tratta, ma di condanna del sionismo e delle politiche del governo di Israele.
Della sua ferocia ha dato prova, ancora una volta, Israele assaltando la flottiglia in acque internazionali, dimostrando con il trattamento riservato ai sequestrati, condotti in carcere, privati di ogni conforto e di acqua: una crudeltà che comunque suggerisce un’idea dell’intensità ben maggiore applicata ai palestinesi prigionieri. A chi sostiene la
tesi che la mobilitazione pro Palestina è venata di antisemitismo, occorrerebbe ricordare che gli ebrei, come gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania, sono anch’essi popolazioni semite e che l’opposizione di chi manifesta in piazza e nelle strade è contro il governo di Israele e la sua politica ispirata al più becero sionismo.
Infatti il sionismo è un’ideologia nazionalista, xenofoba e razzista che sostiene la superiorità genetica del popolo ebraico, concepita e sviluppatasi nel secolo scorso e affermatasi grazie al sostegno dell’Inghilterra che voleva stabilire un presidio sicuro nel Medio Oriente per garantire la sopravvivenza dell’impero britannico. Per questo motivo l’Inghilterra che esercitava il Protettorato sulla Palestina ha fatto di tutto per favorire l’emigrazione degli ebrei europei e non solo, delle vittime dell’Olocausto, verso i territori attualmente occupati dallo Stato ebraico. Una volta insediatisi sul territorio i sionisti hanno combattuto una dura lotta per ottenere la creazione dello Stato ebraico, mettendo in atto attentati e azioni terroristiche contro l’esercito inglese, di una violenza almeno pari a quelle messa in atto dai palestinesi. [1]
Trump, da buon comunicatore, ha fiutato l’emergere di queste posizioni, anche perché possiede un canale diretto e privilegiato per sondare gli orientamenti della Comunità ebraica degli Stati Uniti, attraverso il genero e socio in affari Kushner, interessato com’è a fare buoni affari con i paesi arabi e musulmani e a contrastare gli interessi cinesi, poiché l’annessione della Cisgiordania sarebbe un atto indigeribile per i suoi interlocutori mediorientali e, ritenendo di avere buone carte in mano, ha imposto a Netanyahu di fermarsi.                                                                                                                    Trump vuole realizzare con i Patti di Abramo un’area economica-politica che faccia da supporto agli Stati Uniti, impedisca che i paesi chiamati a farne parte scivolino gradualmente nei Brics, vuole dare vita finalmente a quella “via del cotone” che dovrebbe fare da alternativa alla “via della seta”. La realizzazione di questo progetto politico-economico converrebbe anche ad Israele che vive oggi una grave crisi economica. D’altra parte l’economia israeliana ha visto calare il Pil del paese a causa della mobilitazione che ha privato le aziende di personale indispensabile. Guardando alle azioni belliche occorre tempo agli israeliani per effettuare la manutenzione dell’aviazione dopo l’uso e dotarsi di più efficaci strumenti di difesa per contrastare eventuali attacchi da parte dell’Iran che, al di là di quanto si dice, ha raggiunto una
capacità missilistica notevole e che durante la guerra dei 13 giorni ha individuato e colpito importanti obiettivi israeliani, bucando ripetutamente i sistemi di protezione anti-missili.
E poi i “Patti di Abramo” non reggerebbero ad un’eventuale annessione della Cisgiordania, che solleverebbe le proteste delle opinioni pubbliche degli Stati arabi e musulmani, anche se non da parte di coloro che li governano, ma della popolazione in lotta, mettendo in pericolo i governi di quei paesi, che si troverebbero contestati dall’opinione pubblica interna ad opporsi. E poi la “via del cotone” è un ottimo affare anche per Israele, perché portando le merci provenienti dall’India e da tutto l’Estremo Oriente al terminale del porto di Haifa, concepito come hub, destinato a servire il Mediterraneo ne ricaverebbe notevoli profitti. Non solo la realizzazione dell’infrastruttura immetterebbe Israele nei circuiti del commercio mondiale, più di quanto lo è attualmente, e rappresenterebbe un introito finanziario notevole.
Questa, per Trump, è un’occasione troppo ghiotta da farsi sfuggire per conseguire l’obiettivo di staccare l’India dai Brics e avvicinarla agli Stati uniti.

La carta cinese

Si spiega anche con questa motivazione il viaggio di Trump in Oriente dove il tycoon si è recato per creare e consolidare una rete di alleanze che prevede il riarmo del Giappone, assicurato da un’altra donna al governo come Primo ministro che aspira ad emulare quelle che gestiscono la politica comunitaria, tutte guerrafodaie. In questo caso il pericolo viene dalla Cina che Trump va ad incontrare nella speranza di ammorbidirne le posizioni e rassicurarne le preoccupazioni, avendo compreso che lo strumento dell’aumento dei dazi per piegare la Cina serve a poco, non solo perché il Governo cinese risponde per le rime, ma perché ha modo di ricattare gli USA con molti strumenti, primo dei quali la vendita delle terre rare che sono essenziali allo sviluppo dell’economia statunitense.
Si dice inoltre che Trump voglia sollevare nell’incontro con i cinesi il problema di un contenimento della Russia a proposito della guerra in Ucraina per indurli ad accettare una tregua e a porre fine alla guerra. È probabile che per la prima volta Trump abbia un piano: con le sanzioni contro la Russia, delle quali chiede il rispetto anche ai cinesi, pensa di mettere in crisi l’economia russa e al tempo stesso di assumere il controllo del mercato mondiale del petrolio, appropriandosi dei giacimenti venezuelani o attraverso l’intervento militare, oppure finanziando l’attività dell’opposizione interna, guidata dalla pacifista Machado.
Se si sa qualcosa della Cina c’è da credere che il governo cinese, che affronta i problemi in un’ottica strategica è tutt’altro che di lungo periodo sia disponibile ad accogliere le proposte di Trump, anche se questi è pronto a prospettargli il sostegno per la colonizzazione di parte della Siberia, attualmente russa e largamente spopolata. Non si tratta per loro di tener fede ai Trattati liberamente stipulati con la Russia, né della dipendenza della Cina attuale dalla fornitura di energia da parte della Russia, sia sotto forma di petrolio che di gas. Quel che c’è in ballo è il partenariato strategico tra Cina e
Russia nella gestione di una futura rotta artica per raggiungere l’Europa, la quale, se pure in crisi economica e sociale, rappresenta l’area più grande di consumatori dell’intero pianeta, anche se è bene domandarsi per quanto, se a gestire la sua
politica saranno ancora per molto tempo la von der Leyen e la Kallas, sodali compresi.

Il futuro di Gaza e della Cisgiordania

Leggendo attentamente i 20 punti di Trump con i quali è stata stipulata la tregua si può vedere che ciò che è cambiato non è il progetto di fare di Gaza una riviera per ricchi turisti, ma che non si parla più di sgomberare i palestinesi, almeno per ora. Comunque il progetto del Governatore in pectore Blair, che dovrà gestire Gaza, è sempre lo stesso e
Trump, non dubita che sarà capace di condurre a termine la transizione e l’operazione di sfollamento e la graduale espulsione dei palestinesi. Tanto più che si troverà ad avere a che fare con una popolazione denutrita, debilitata, con tanti mutilati, con problemi sociali enormi, con le famiglie distrutte, con una vita sociale e una tenuta sociale quanto meno difficile con con crescente difficoltà. Saranno in grado di restare a Gaza, tanto più se questo diventerà un luogo per ricchi, dove sarà sempre più difficile vivere?
Sulla Cisgiordania invece, anche se momentaneamente l’annessione sembra essere accantonata, a causa degli interessi superiori degli Stati Uniti, l’acquisizione continuerà anche se con lentezza e l’infiltrazione israeliana e l’installazione illegale di nuove colonie anche, visto che i palestinesi che vi abitano non avranno alcuna forza che si
opponga alla violenza, con la quale i coloni penetrano nel loro territorio e lo acquisiscono: i loro corpi.
Così la pace di Trump regna sovrana sulla Palestina.

Gianni Cimbalo

[1] Per una ricostruzione del conflitto israeliano-palestinese, l’insediamento dei sionisti in Palestina e il processo di formazione dello Stato di Israele, Vedi: UCADI, i comunisti anarchici, la questione ebraica e quella palestinese, Newsletter Crescita Politica,
Novembre, n. 178, 2023, https://www.ucadi.org/categorie/newsletter/anno-2023/numero-178-novembre-2023-numero-speciale