Agricoltura, lavoro, emigrazione

Quando ci si occupa di economia e lavoro in Italia si pensa subito all’industria, senza tenere conto dell’importanza dell’agricoltura e delle attività ad essa collegate che costituiscono nell’insieme il settore più dinamico dell’economia del paese e nemmeno si indaga su quanti e quali lavoratori impiega il settore. Eppure, l’agricoltura costituisce la locomotiva dell’economia italiana: il sistema agroalimentare italiano rappresenta il 15% del Pil nazionale e il settore registra la maggiore crescita del Pil, con un balzo del 3,9% del valore aggiunto in termini congiunturali. mentre aumenta l’occupazione nelle campagne. Lo afferma anche la Coldiretti, basandosi su dati Istat relativi al primo trimestre 2021, che confermano un trend in costante miglioramento, con una crescita dell’1,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Perfino durante l’emergenza Covid, il comparto non ha mai smesso di lavorare. La percezione del suo ruolo fondamentale è cresciuta anche tra i cittadini; non a caso più di otto italiani su dieci (83%) considerano l’agricoltura importante per il rilancio dell’economia del Paese. “Le aziende agricole italiane – ha affermato la Coldiretti – non hanno mai smesso di lavorare per garantire la continuità delle forniture alimentari sugli scaffali di negozi e supermercati e consentire quindi alle famiglie di fare la spesa. 740.000 imprese agricole sono oggi impegnate per la tutela del paesaggio, lo sviluppo economico del Paese, la sicurezza e la salute attraverso la produzione di cibo. Malgrado questi dati confortanti si calcola che quasi 1 azienda agricola su 5 (18%) ha
risentito della riduzione della domanda di prodotti provocata soprattutto dal crollo del turismo e dal taglio degli acquisti da parte dei bar, ristoranti e pizzerie, costretti alla chiusura. Mentre le attività riaprono le aziende temono gli effetti di un possibile aumento dei costi di produzione del 7,5%”.
Nessuno ci dice tuttavia come tutto questo sia stato possibile e quale manodopera il settore utilizza e a quali condizioni. Si può però affermare che con oltre 522 miliardi di euro, il sistema agroalimentare italiano, che va dall’agricoltura alla ristorazione, si classifica primo in Europa per valore aggiunto agricolo, come si apprende consultando i dati che emergono dall’Annuario dell’agricoltura italiana 2019-2020 redatto dal Crea che segnala l’Italia, tra l’altro, come il primo paese produttore mondiale di vino in volume e primo europeo in valore nel settore degli ortaggi.
Nel 2019 il valore della produzione agricola è stato di 57,3 miliardi, in linea con l’anno precedente, di cui oltre il 50% dovuto alle coltivazioni, il 29% agli allevamenti e la restante parte alle attività di supporto e secondarie. Il contributo di agricoltura e industria alimentare alla bioeconomia è stato del 64%, con un fatturato in crescita dell’1,3% di oltre 324 miliardi di euro. Le produzioni di qualità certificata, Dop e Igp, si confermano tra le più dinamiche con un valore di 17 miliardi (+4%), il 19% del totale dell’agroalimentare italiano. Sempre più significativa è la crescita delle attività connesse
all’agricoltura: nel 2019 ormai oltre un quinto del valore della produzione agricola è stato costituito dall’agriturismo con +3,3% in valore e +4,1% di aziende. Dal punto di vista strutturale sono 1,5 milioni le aziende agricole, di cui il 27% orientate al mercato con il 75% della produzione, contro il 66% del totale, di cui il 36% ha rapporti commerciali solo saltuari e il 30% per autoconsumo. E’ sempre rilevante ma in calo il sostegno pubblico al settore che segna 11,9 miliardi di euro nel 2019 (- del 10% a partire dal 2015 per un totale di 1,3 miliardi): una riduzione dovuta quasi totalmente –
segnala il Cera – a minori agevolazioni nazionali sul piano fiscale e contributivo. Ciò malgrado il sostegno pubblico al settore, soprattutto attraverso fondi europei, rimane di 11, 9 miliardi nel 2019 di contributi erogati sotto varie forme comunque anche questo in calo rispetto agli anni precedenti. In costanza di pandemia il deficit degli scambi commerciali con l’estero ha visto una riduzione netta della bilancia agroalimentare italiana, scesa largamente al di sotto di 1 miliardo di euro nel 2019, a fronte degli oltre 9 miliardi del 2011. Sono aumentate le vendite all’estero di vino olio e pasta.

L’attività di coltivazione: la produttività drogata

Dicevamo che il 50% della produzione di ricchezza è dovuto alle coltivazioni e il 29% agli allevamenti ma quali sono le caratteristiche della forza lavoro occupata definita ufficialmente in crescita. Andando a guardare con attenzione ci accorgiamo che rispetto al numero di addetti la produttività è comunque altissima, la più alta a valore aggiunto rispetto a Francia, Spagna e Germania. Tuttavia, se approfondiamo l’analisi ci accorgiamo che questo dato è drogato anche se si possono fare solo delle ipotesi perché i dati forniti sui valori assoluti dell’occupazione non vengono forniti, ma i dati
vengono dati in relazione alle percentuali, le quali risultano in costante aumento, compresa l’occupazione di stranieri, aumentata nel 2020 di più del 10%.
Questo mistero è quello di pulcinella: la maggiore produttività dei lavoratori agricoli in Italia dipende dal numero altissimo dei lavoratori in nero impiegati nel settore: per questo motivo diviene necessario andare a vedere, attraverso una ricognizione empirica le cui fonti sono sotto gli occhi di tutti – basta scorrere le cronache e guardarsi intorno – per capire.
Per procedere con metodo analizzeremo separatamente l’occupazione nelle coltivazioni e quella negli allevamenti: si scopre così che tra lavoro agricolo e emigrazione clandestina e appartenenza etnica dei migranti esistono delle relazioni
che cercheremo di evidenziare e che spiegano molte apparenti anomalie e dimostrano che l’emigrazione in Italia è tutt’altro che fuori controllo ma è invece canalizzata dagli interessi del capitale e del mercato del lavoro, sia esso regolare sia clandestino.
Nelle produzioni agricole da orto l’agricoltura italiana, ci dicono i dati ufficiali, ha avuto performance positive tanto da divenire esportatrice. Ebbene questo tipo di produzione è quella che richiede insieme un alto numero di addetti ed è quella che produce con tecniche semi industriali ricorrendo alla coltivazione nelle serre in modo da alimentare il
mercato con prodotti anche fuori stagione che producono un maggiore rendimento. Ma il lavoro di serra e tra quelli dove l’intervento manuale del lavoratore agricolo è più ampio, gravoso e insalubre. Quale migliore soluzione che quella di adibirvi lavoratori immigrati. Ma la gestione di una manodopera di questo tipo richiede una utilizzazione continua nel tempo e quindi un insediamento stanziale nel tessuto urbano. Nascono perciò insediamenti ghetto come quelli nei pressi di Latina dove si incrementa insediamento stanziale di lavoratori indiani che offrono u serbatoio di manodopera
costantemente alimentato nel quale vige un’alta competitività per effettuare orari di lavoro che arrivano anche alle 14 – 15 ore: per reggere questi ritmi i gestori del territorio organizzano con la complicità di medici e farmacisti compiacenti l’uso smodato di farmaci anfetaminici che consumano il corpo mentre lo stimolano. Questi lavoratori sono insediati sul territorio con le loro famiglie e dotati di permesso di soggiorno è solo il loro utilizzo che è illecito in quanto nella gran parte dei casi una parte del lavoro non viene ufficialmente contabilizzato in busta paga ma corrisposto a nero, si dice ipocritamente “con reciproco vantaggio”. In questo caso, ad esempio i flussi migratori sono regolati e controllati attraverso i reclutatori o per catene familiari. Il caso di Latina è uno, ma su questo modello ve ne sono altri.
Vi è poi il modello diffuso nelle serre distribuite nella cosiddetta Padania irrigua e in Emilia-Romagna. Anche in questo caso si tratta di emigrazione regolare controllata, proveniente dal Pakistan, dal Bangladesh, dal Nord Africa, insediati nel tessuto urbano della bassa o in prossimità dei frutteti che dividono il loro impiego tra le serre che gestiscono una produzione a livello semi industriale, il lavoro stagionale nei frutteti, e quello negli allevamenti di bestiame da stalla o le porcilaie. Questo modello crea un proletariato urbano diffuso caratterizzato da difficili problemi di integrazione, ma in qualche modo gestibile se si esclude la difficile inclusione femminile. Non è un caso che proprio in queste aree si riscontri una presenza diffusa delle pratiche di infibulazione, come dimostrano i dati, in verità piuttosto riservati, raccolti dagli ambulatori gestiti da associazioni di volontariato e movimenti femminili di emancipazione sociale. Anche in questo caso più che di lavoro nero si deve comunque parlare di lavoro parzialmente a nero in quanto solo una parte delle ore di lavoro prestate viene dichiarata e quindi computata ai fini di calcolare la produttività in relazione al volume della produzione
realizzata.

La nuova agricoltura di cascina

Da secoli la cascina è stato un modello di vita e di produzione dell’area padana e per molti versi un luogo nel quale si produceva cultura e formazione di coscienza di classe. Questo perché la cascina era un luogo di convivenza di eguali governati da un padrone e dai suoi sgherri il che produceva per contrappunto lo sviluppo della coscienza di classe al punto che i lavoratori di cascina sono stati l’asse portante del movimento socialista e anarchico nelle campagne, poi gestito dal partito comunista e liquidato dal fascismo e strutturalmente dalla diffusa meccanizzazione che ha ridotto enormemente l’impiego bracciantile e alimentato l’urbanizzazione delle popolazioni. Ora l’attività di cascina sembra rinascere con il salto di qualità della meccanizzazione agricola affiancata dall’attività zootecnica per la produzione di latte e casearia come per l’allevamento finalizzato ad alimentare la produzione di carne. Sono solo cambiati gli addetti sia numericamente, visto che occorrono molte meno persone, sia come provenienza. Scomparso l’alloggio di cascina trasformato spesso in bed and breakfast i lavoratori occorrenti vengono collocati in alloggi di fortuna come roulotte parcheggiati nei pressi della casa padronale o prefabbricati perché non si crei quel luogo di aggregazione del quale i nuovi padroni conservano il ricordo e ben conoscono l’efficacia. A seconda della specializzazione produttiva dell’azienda la manodopera occorrente si gonfia a livello stagionale per la raccolta dell’uva, di pomodori o di altri prodotti, ma si tratta in quel caso dell’utilizzazione di un altro grande segmento dell’esercito industriale di riserva al quale sono prevalentemente addetti lavoratori neri, spesso clandestini o clandestinizzati. Costoro, a causa dell’estrema precarietà del loro impiego, quant’anche dopo molto sforzi conquistano il permesso di soggiorno lo perdono con la cessazione temporanea del lavoro e ritornano nella clandestinità. Gli addetti a questi tipi di coltivazione vedono il loro numero incrementato (sempre meno)
da giovani e donne in cerca di lavoro temporaneo, nel caso delle produzioni intensive e stanziali ed è quello al quale abbiamo dedicato parte dell’articolo comparso nel numero precedente (La schiavitù in Italia. La questione bracciantile, Crescita Politica N 147, giugno 2021). Tuttavia il suo ruolo e la sua importanza nella composizione del mercato del lavoro nero e clandestino è essenziale come numericamente importante è la sua consistenza in quanto oltre a costituire una massa di lavoro itinerante che si sposta con le stagioni, è composto quasi totalmente da lavoratori estremamente ricattabili molto ambiti perché costano poco: possono essere pagati poco ed essere alloggiati – si fa per dire – in baraccopoli e privi di tutto, ricattati dai caporali, sfruttati con paghe minime e privi di ogni tutela, spesso oggetto di mattanze da parte dei padroni e dei loro sfruttatori. È questa la parte del proletariato agricolo che versa nelle peggiori condizioni, senza nulla togliere alle condizioni di sfruttamento nella quale vivono gli altri gruppi dei quali abbiamo riferito.

L’occupazione nell’allevamento

Dicevamo in premessa che l’allevamento rappresenta in Italia un quarto delle attività produttive complessive del comparto agricolo: abitualmente si pensa a questo settore riferendosi alla gestione delle stalle, delle porcilaie, degli allevamenti di pollame anche se, come vedremo, il settore ha una struttura più vasta e complessa. È fatto noto l’impiego “specializzato” anche in questo settore di migranti. Emblematico il caso dell’insediamento Sikh a Novellara provincia di Reggio Emilia. Arrivati negli anni ’90 vennero inizialmente impiegati nel settore zootecnico, nell’industria agricola e lattiero-casearia. Il rapporto religioso degli Indu con le vacche dovette far pensare che erano particolarmente adatti a svolgere questa attività. Poi la comunità crebbe e oggi i Sikh hanno diversificato il proprio inserimento economico: lavorano nelle fabbriche come operai, hanno aperto attività commerciali di import-export o piccole aziende. Alcuni di loro si sono inseriti nella produzione casearia della filiera del parmigiano, e sono giunti a svolgere l’ambita e ben remunerata attività di casari. Ma si tratta comunque di un lavoro duro svolto anche in questo caso da una comunità migrante i cui flussi sono ben controllati ed orientati, tutt’altro che selvaggi e spontanei. Il loro radicamento sul territorio è testimoniato dalla costruzione del loro più importante Gurdwara (tempio – letteralmente “porta del Guru”) costruito sul territorio italiano, il secondo in Europa dopo quello di Londra e può ospitare fino a 600 persone. L’insediamento Sikh ha caratteristiche particolari perché ha mantenuto la struttura di comunità e gestisce una cassa di solidarietà che aiuta i membri della comunità (ma anche altri) che lo richiedono.
Ma accanto a questi insediamenti eccellenti che certo contribuiscono con il lavoro di chi vi appartiene a sostenere la produttività del settore zootecnico vi sono i tanti addetti alle stalle, agli allevamenti intensivi di polli e a quelli di maiali che lavorano in condizioni inaccettabili per la sporcizia e il calore, per gli spazzi angusti nei quali gli animali sono
costretti, condizioni nelle quali gli italiani non lavorerebbero mai. Ma c’è un’altra componente importante di immigrati, anche questi a flusso controllato che svolge l’attività di pastore ripopolando l’Appennino e le valli e gli alpeggi delle Alpi orientali, desertificati dall’abbandono della popolazione indigena. Costoro dividono la loro attività tra la pastorizia e la coltivazione dei boschi. Si tratta, anche in questo caso di una migrazione almeno parzialmente controllata, proveniente in gran parte dalla Macedonia, dalla Bosnia, dal Kossovo e dall’Albania. Costoro sfuggono ad un censimento e pur
alimentando la produzione casearia non sono inclusi nella rilevazione della manodopera impiegata nel settore.

L’attività di trasformazione

Ben il 25 % delle attività del sistema agroalimentare è costituito da altre attività collegate a quelle propriamente agricole e dalle attività di trasformazione. Le prime vanno dalla pesca dove diminuisce il volume e il valore del pescato mentre anche per la piscicoltura nazionale, si registra un lieve calo della produzione e questo anche se l’Italia rappresenta uno dei principali paesi UE per il consumo di prodotti ittici; infatti crescono i consumi domestici del 2,5%, in quantità e in valore Ebbene la gran parte dei lavoratori imbarcata è costituita da lavoratori immigrati, soprattutto nord africani che
rappresentano ormai la gran parte della categoria. Si tratta ovviamente per le caratteristiche dell’imbarco di immigrati regolari dal cui lavoro comunque dipende il settore. L’industria di trasformazione continua ad essere dominata da piccole
e microimprese, spesso a carattere familiare.
Per quanto riguarda la cura e sfruttamento dei boschi l’attenzione sociale al loro ruolo nella lotta al cambiamento climatico e alla tutela della biodiversità, come anche la richiesta di servizi ecosistemici socio-culturali sta portando allo sviluppo di iniziative imprenditoriali innovative ad alto valore aggiunto, ma vista la disponibilità a svolgere questo lavoro particolarmente disagiato la gran parte della manodopera è destinata a venire dall’emigrazione.
L’altro pilastro della diversificazione italiana era rappresentato dall’agriturismo, la cui crescita continua (+3,3% in valore e +4,1% di aziende nel solo 2019) ha subito un duro colpo per gli effetti della pandemia. Per quanto riguarda l’energia derivata dall’agricoltura, aumenta il contributo del settore come produttore di energia nell’ambito delle fonti rinnovabili, che proseguono la loro crescita e pesano ormai per il 21% circa sulle fonti energetiche nazionali. Al contempo, calano i consumi di energia da parte del settore agricolo (-3,9%).
Nell’ambito del Recovery Plan sono stati elaborati progetti concreti immediatamente cantierabili per l’agroalimentare, dai settori produttivi a quello dei biocarburanti, con una decisa svolta verso la rivoluzione verde, la transizione ecologica e il digitale, che si dice dovrebbero addirittura essere in grado di offrire 1 milione di posti di lavoro green entro i prossimi 10 anni. Data la vaghezza dei progetti non è possibile ipotizzare alcunché per quanto concerne la forza lavoro che potrebbe essere impiegata.
Le caratteristiche strutturali del settore agricolo e l’occupazione Considerando che il l 66% delle imprese del settore agricolo non è ancora orientato al mercato, questa dovrebbe essere una delle priorità individuate per far crescere e creare il valore aggiunto. A questo fine sembrano destinati i fondi del Recovery che dovrebbero “mettere in atto quelle riforme strutturali che ci vedono deficitari come la logistica, tutti i
temi legati allo stoccaggio, ma anche rendere più forti le filiere e garantire la redditività ai nostri imprenditori” per cogliere l’opportunità storica costituita dalla riscoperta del valore del cibo, dalla ricerca di qualità e sicurezza che sono stati al centro di quanto avvenuto nei mesi di pandemia nei comportamenti dei consumatori.
Se si tiene conto che negli ultimi 10 anni, il valore aggiunto dell’industria alimentare, per esempio, è cresciuto del 12%, il doppio del manifatturiero, bisogna che questa contribuisca a sostenere il ruolo dell’industria alimentare come prima in Europa per valore aggiunto facendo crescere la quota lorda vendibile di produzione, forte del fatto che l’agricoltura italiana riesce a sviluppare questo valore partendo da una superficie agricola che è la metà di quella spagnola e francese, tanto più che cresce l’occupazione nelle industrie alimentari a fronte di una diminuzione del numero di
imprese e aumenta, quindi, la dimensione media in termini di addetti in un comparto che risulta ancora molto frammentato, con la presenza di numerose unità produttive di piccole dimensioni ed artigianali.
Resta da capire quale sarà la forza lavoro da impiegare in questo settore e in che misura peserà nello sviluppo del settore la logistica, vista la crescita, soprattutto a causa del Covid, delle consegne a domicilio nell’ambito della ristorazione, attività nella quale, come è noto, sono impiegati soprattutto – ma non solo – lavoratori immigrati, spesso provenienti dall’emigrazione clandestina. Non dobbiamo dimenticare che c’è stato il boom dei processi di delivery (la consegna a domicilio in 30 minuti) e che il commercio on line (l’e-commerce) ha raggiunto livelli di crescita (da +80% a +160% su base annua) che, ad oggi, non mostrano segnali di rallentamento. Ciò che è avvenuto ha mutato – forse irreversibilmente – i rapporti di forza tra le varie componenti della filiera (soprattutto industria alimentare e distribuzione) e, in questo contesto, sembrano favoriti gli operatori impegnati nei canali virtuali e quelli radicati sul territorio (sia
produttori che distributori), a svantaggio delle reti di vendita del mercato di massa e delle multinazionali.
Il food delivery è stato l’ancora di salvezza per la ristorazione e da servizio aggiuntivo è divenuto un punto di forza per rimanere sul mercato. Prima del lockdown solo il 5,4% delle imprese della ristorazione era in grado di fornire un servizio di delivery; il 10,4% si era subito attivato per svilupparlo, mentre il restante 85% affermava di non avere
intenzione di muoversi in questa direzione. Tuttavia, la domanda di cibo a domicilio è cresciuta del 24 % in una situazione nella quale il mercato della ristorazione era disorientato e allarmato, a causa delle chiusure. La situazione di oggi fa pensare che la consegna a domicilio continuerà ad essere un fattore di sviluppo fondamentale per la ristorazione, anche quando le attività dei servizi tradizionali potranno tornare a funzionare. Perciò è ipotizzabile che vi sarà un aumento degli addetti alle consegne, irrimediabilmente provenienti dalla crescita della disoccupazione industriale e dal mercato del lavoro nero e precario prevalentemente composto da immigrati irregolari. Non è un caso se oggi le lotte più dure e radicali per la difesa del posto di lavoro e per migliori condizioni di lavoro avvengono nel settore della logistica e quindi delle consegne.
Diviene così evidente che l’emigrazione clandestina in realtà è regolata nell’utilizzo dei flussi dalla politiche di gestione del mercato del lavoro, solo che si tratta di una regolamentazione gestita dal capitale e con i suoi criteri. quindi di una regolamentazione criminale, della quale i primi gestori-attori sono coloro che dicono di essere contrari agli sbarchi, ma che alimentano in tutti i modi l’ampliamento del mercato clandestino di manodopera, clandestinizzando anche coloro che sono riusciti ad ottenere il permesso di soggiorno o cercano di integrarsi come dimostra la politica migratoria di questi anni e da ultimo i decreti Salvini anche nella loro versione modificata.

Gianni Cimbalo