La crisi economica e la conseguente minore disponibilità di risorse in tutti i paesi europei fa regredire le politiche di integrazione ed accoglienza predisposte dalla Comunità europea. Si è discusso a lungo se fosse meglio adottare una soluzione all’inglese, permettendo alle diverse comunità di occupare uno spazio proprio e di essere governate e gestite attraverso la conservazione dei loro valori, propendendo per una integrazione delle diverse comunità nel tessuto sociale piuttosto che per
l’integrazione dei singoli o piuttosto se non fosse meglio puntare all’assimilazione, sia pure in un clima di pluralismo e di interculturalità secondo il modello francese. Vi era chi proponeva di fare tesoro dell’esperienza canadese che si caratterizza per il passaggio dal multiculturalismo all’interculturalismo che cerca di conciliare la diversità culturale con la continuità della cultura di base della società preesistente e la conservazione della coesione sociale. Allo stesso modo, esso garantisce la sicurezza, le minoranze fculturali, tutelando al contempo i diritti di tutti nel rispetto della tradizione liberale. Per
raggiungere questi obiettivi era stato predisposto il programma Intercultural Cities.
Anche in Belgio, di concerto con l’Unione Europea, erano state prese specifiche iniziative per favorire l’integrazione e si era detto che “Nell’ambito dello sviluppo di una società aperta e tollerante, il governo favorirà il rispetto dei nostri valori democratici comuni e organizzerà le “Assise dell’interculturalitè” composte dall’insieme dei rappresentanti interessati allo scopo di formulare al governo delle raccomandazioni miranti a rafforzare la riuscita di una società fondata sulla diversità, il rispetto delle specificità culturali, la non discriminazione, l’inserimento e la condivisione di valori
comuni”. L’obiettivo poteva essere raggiunto a condizione di rimuovere gli ostacoli socio-economici, sviluppando un intervento per rafforzare le posizioni socio-economiche delle minoranze, troppo spesso soggette a forti ingiustizie; occorreva poi intervenire sulle politiche migratorie e di integrazione nel loro complesso poichè, in Belgio come negli altri paesi europei, per legge, da una parte si sancisce la libera circolazione dei cittadini europei all’interno dei paesi dell’Unione europea e, dall’altra si
sottopone a un rigido controllo quello dei soggetti residenti, mettendo in atto strategie di espulsione e di marginalizzazione sociale.
Se non che di fronte alla recessione e quindi al restringimento delle possibilità di lavoro
diminuisce il bisogno di disporre di quel grande esercito di lavoratori pronti a sopperire alle richieste di manodopera da impiegare nei lavori svantaggiati, in quelli usuranti, in alcune professionalità che fino ad ora avevano resa l’emigrazione funzionale alle esigenze del mercato del lavoro. Non solo, ma la riduzione dell’occupazione anche nel settore femminile diminuisce le possibilità di impiego in quello delle badanti e dell’assistenza agli anziani. Il ridotto importo delle pensioni rende sempre più difficile
potersi permettere l’assistenza domiciliare, malgrado la riduzione dell’assistenza pubblica, Non resta altra strada che l’eutanasia sociale: una forma moderna di eugenetica che lascia insensibili i tanto solerti gruppi cattolici che si oppongono all’eutanasia volontaria, come risposta alla medicalizzazione forzata e alle cure, quando queste finiscono per configurarsi come accanimento terapeutico. Oggi per morire, e morire senza assistenza basta il ritrarsi dello Stato e del servizio sanitario nazionale, sul quale cade la scure pesante dei tagli dei Governi. I provvedimenti killer di Monti fanno il paio con quelli dei Governi greco, spagnolo, portoghese e di ogni altro paese che via via finisce nel gorgo della crisi economica.
Ma c’è di più. Gli ordinamenti giuridici d’Europa hanno messo a punto un percorso di espulsione dei migranti che si fonda su alcuni punti cardine e che è stato largamente e compiutamente sperimentato durante tutto il secolo scorso, dimostrandosi quanto mai efficace nel “bonificare” ieri la composizione “etnica” delle popolazioni ed oggi il mercato del lavoro di una quota consistente di lavoratori i quali vengono prima imprigionati poi espulsi dal territorio nazionale.
La fine di Schengen
Gli accordi di Schengen sulla libera circolazione della manodopera in Europa sembravano aver aperto la strada ad un’epoca nuova e rispondere alla mutata realtà produttiva d’Europa. La crisi demografica di molti paesi occidentali veniva affrontata e superata grazie alle migrazioni che per mille motivi rappresenta un guadagno netto per le economie dell’Europa continentale. L’immissione di una quota di popolazione giovane attraversi i migranti avveniva senza aggravare eccessivamente i costi del
welfare e risultava essere un vantaggio netto per i sistemi pensionistici e sanitari spostando sulla spesa futura gli oneri e incassando immediatamente i proventi assicurativi e previdenziali connessi alle attività di lavoro. Inoltre la presenza dei migranti permetteva di mantenere salari bassi e una quota significativa di lavoro nero che andava a incrementare i profitti e alimentava la concorrenzialità delle merci e del sistema paese.
La crisi aveva bisogno di un meccanismo rapido e sicuro di espulsione della forza lavoro eccedente presto trovato nella riconversione delle strutture già predisposte per il contrasto all’emigrazione clandestina: centri di respingimento ed espulsione che riproducono le strutture di internamento largamente utilizzate e sperimentate nel periodo tra le due guerre e poi durante la guerra mondiale. Sulla base di un mero provvedimento amministrativo, e spesso considerando reato l’immigrazione irregolare, i migranti possono essere rinchiusi per un periodo fino a 18 mesi e poi espulsi. Ma per finire in queste strutture non è necessario essere clandestini, basta divenirlo, e perché
ciò accada è sufficiente perdere il lavoro e allora, automaticamente, si viene privati del permesso di soggiorno anche dopo un decennio di permanenza nel paese, mentre i figli, nati in Italia seguono identica sorte, perdono il diritto di acquisire la cittadinanza e vengono espulsi, a meno che non riescono a trascorrere un periodo ininterrotto dalla nascita fino al compimento del diciottesimo anno sul territorio nazionale.
E’ il ritorno ad una delle cause principali che alimentarono e fomentarono le stragi di
popolazioni durante la seconda guerra mondiale e nella consapevolezza di ciò l’Europa comunitaria voleva prevenire il riprodursi di questi fenomeni. La crisi ha invece alimentato sentimenti e movimenti politici xenofobi, ha supportato la crescita di consenso per partiti politici di orientamento dichiaratamente neonazista, prima nei paesi periferici come ad esempio l’Ungheria e poi nel cuore della vecchia Europa, come in Olanda, paese il cui panorama sociale è tra quelli che più sono mutati nell’ultimo decennio (in peggio).
Il conflitto prossimo venturo
Il fenomeno migratorio nei paesi dell’Europa occidentale costituisce tuttavia un fenomeno ormai diffuso che ha prodotto insediamenti stabili di popolazioni e culture, al punto che in alcuni paesi siamo di fronte alla terza quando non alla quarta generazione dei figli venuti dopo queste ondate migratorie. Il panorama sociale, soprattutto delle città, ha ormai una composizione multiculturale e tornare indietro non è possibile. Chi si illude di “purificare i territori” con progressive espulsioni non comprende che non è possibile tornare indietro. Né serve scatenare la pulizia “etnica” a zone perché ciò porterebbe alla guerriglia totale. La strada della reciproca integrazione non ha quindi alternative.
Ma perché essa possa essere praticata ha bisogno di investimenti in strutture collettive, di particolare attenzione nell’erogazione dei servizi e alle politiche di gestione del territorio e alla scuola.
In concreto ciò significa che l’assistenza all’infanzia deve essere particolarmente accurata a cominciare dalla scuola materna, che deve essere culturalmente aperta e di scambio delle esperienze e delle tradizioni reciproche, salvaguardando la memoria di ognuno, ma soprattutto ispirata al principio di laicità e i cui operatori vengano assunti su concorso e selezione pubblica. Così dicasi per la scuola di ogni ordine e grado, dove l’adozione di una gestione in regime di sussidiarietà che sovvenzioni scuole
private si risolverebbe nella creazione di tante isole culturali-religiose che finirebbero per muoversi l’una contro le altre armate.
Affrontare con intelligenza i problemi della convivenza e dell’integrazione significa assicurare pari diritti nel godimento di alcuni di essi come quello alla casa, al lavoro, alla partecipazione alla vita politica e sindacale; solo qusto può evitare lo scontro sociale di tipo razzista che altrimenti sarebbe devastante. Solo in questo modo riusciremo a sviluppare quel sapere sociale che costituisce la reale ricchezza dei lavoratori e a farne effettivo fondamento del rilancio dello sviluppo su una base effettivamente equa e solidale.
Occorre riscoprire l’importanza dell’individuo e della sua capacita di elaborare percorsi personali di emancipazione all’interno delle contraddizioni presenti nei rapporti di classe tenendo conto che l’approccio comunitario al problema distorce ogni capacità di emancipazione verso una società nuova fatta di rapporti tra liberi e uguali.
Gianni Cimbalo