1.1. Origini
Ora che il neoliberismo, teoria economica che ha dominato il panorama mondiale da oltre trent’anni, ha mostrato tutti i suoi frutti maleodoranti, è utile ripercorrerne la parabola. Nel pieno dispiegarsi della novità costituita dalla teoria economica keynesiana, un filone sotterraneo rifacentesi al liberismo classico è sopravvissuto. La scuola minoritaria ha avuto come alfieri, dagli anni trenta fino agli anni cinquanta del secolo scorso, due economisti austriaci emigrati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: Ludwig Von Mises[7] ed il suo allievo Friedrich Von Hayek[8]. Costoro sono stati i primi a confondere i tre aggettivi di liberale, liberista e libertario, avviando l’equivoco che ha portato alle teorizzazioni dell’anarco-capitalismo[9], tanto diffuso nel panorama statunitense.
Il paradigma neoclassico è tornato alla ribalta tra gli anni sessanta e settanta grazie al premio Nobel assegnato al suo nuovo teorizzatore, Milton Friedman[10]. Da proposta controcorrente essa è divenuta teoria di riferimento attraverso tre passaggi storici: il golpe cileno di Pinochet (1973), l’ascesa a Downing Street di Margareth Thatcher (1979) ed infine l’elezione a Presidente degli USA di Ronald Reagan (1981). Ma se questi sono stati i passaggi politici che hanno determinato l’imporsi del monetarismo friedmaniano quale asse di riferimento unico della politica economica internazionale per oltre un trentennio, quelle che vanno indagate sono le cause strutturali del suo successo, ovverosia i mutamenti profondi del sistema produttivo che ne hanno determinato la necessità, fino ad oggi data per indiscutibile.
1.2. La struttura sottostante
Le fondamenta su cui si è edificato il successo del neoliberismo sono sostanzialmente due: una prettamente economica e l’altra di natura sociale e politica. Prime di esaminarle è però opportuno indagare le motivazioni che hanno portato il capitale ad abbandonare il paradigma precedente, quello di John Maynard Keynes[11], che pure gli aveva consentito di fuoriuscire dalla crisi più devastante della sua storia, il crollo di
Wall Street del 1929; anche se è bene ricordare che solo la seconda guerra mondiale aveva permesso di chiudere definitivamente la vicenda.
Gli assi portanti che hanno caratterizzato il periodo keynesiano si possono riassumere in due linee. La mano pubblica nel governo del sistema economico e quella che viene detta la “regolazione fordista”. La prima linea prende corpo dallo spunto iniziale dell’intervento statale in economia nei momenti di crisi, intervento volto a permettere l’interruzione del gorgo recessivo, immettendo denaro nel circuito economico con
l’effettuazione di lavori pubblici. Questi creavano lavoro, concedevano nuova liquidità ai lavoratori interessati e quindi rianimavano un mercato in caduta libera. D’altra parte il panorama mondiale del periodo è caratterizzato dalle economie di piano, generate dalla diffusa consapevolezza che il liberismo, ovverosia la fiducia durata un secolo e mezzo sulle funzioni taumaturgiche e salvifiche del libero mercato, aveva fallito il compito che si era proposto: creare opportunità per tutti e quindi garantire un costante elevamento del tenore di vita delle popolazioni, da un lato, e dall’altro assicurare alle aziende un progresso continuo dei loro profitti.
A seguito di questa prospettiva di intervento statale nell’economia a supporto delle crisi, in Italia durante il ventennio fascista venne creata nel 1933 l’IRI [12] , ente dedicato al salvataggio e ristrutturazione delle aziende decotte. Dopo la seconda guerra mondiale l’IRI assunse un ruolo più attivo nel sistema economico italiano: grazie alle aziende che aveva acquisito e ristrutturato era divenuto l’imprenditore più importante del paese, imprenditore pubblico con forti poteri di regolamentazione del sistema industriale, tanto che nel primo trentennio dopo la guerra le categorie private firmavano due contratti, uno per le aziende private ed uno per quelle pubbliche, e quest’ultimo spesso faceva da battistrada al primo. Il sistema dell’IRI era divenuto talmente di esempio che negli anni cinquanta una delegazione del governo laburista inglese venne a studiarne il
funzionamento.
L’altra gamba del sistema economico keynesiano era la regolazione fordista[13], dal nome di Henry Ford che ne era stato l’iniziatore. L’imprenditore statunitense dell’auto aveva lanciato già nel 1908 il modello T[14], la prima vettura costruita in serie grazie all’innovazione della catena di montaggio dell’ingegner Taylor, con lo slogan: “voglio produrre un automobile che i miei operai possano comprare”. Potremmo definire la regolazione fordista, quindi, come estensione di quel principio primitivo: un complesso sistema di garanzie sociali che garantiscono un reddito, diretto ed indiretto (welfare), dignitoso alle classi subalterne con un duplice scopo. Da un lato permettere al mercato di percorrere un elica crescente, tale da ridurre i profitti unitari per singola merce prodotta, ma da garantire una quantità totale di profitti sempre più consistente; dall’altro cooptare la classe operaia, ed il proletariato tutto, all’interno del riformato sistema capitalistico, in modo da produrre una diminuzione progressiva della conflittualità sociale.
1.3. Motivi del successo
Dicevamo che a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta il monetarsimo ha soppiantato il modello sopra esposto per due cause ed è giunto il momento di esaminarle. Sul versante sociale il ciclo di lotte esploso tra gli anni sessanta e settanta a livello internazionale testimonia il fallimento della politica di integrazione delle classi meno abbienti. Il reddito più elevato, le garanzie sociali, l’elevamento dell’istruzione generano coscienza e un accrescimento delle esigenze e delle richieste. Restano escluse da questa rinascita del conflitto di classe le socialdemocrazie nordeuropee. Comunque, esso genera un aumento delle garanzie della prestazione d’opera ed una riduzione ulteriore dei margini di profitto. I capitalisti giudicarono non ulteriormente procrastinabile una resa dei conti che riportasse sotto il loro controllo la dinamica sociale e quella del costo del lavoro ed il panorama politico offrì loro le condizioni opportune. Negli anni ottanta, in contemporanea con l’ascesa della nuova dottrina neoliberista nei paesi occidentali, entra in disgregazione l’impero sovietico e con esso l’antagonista principe dell’imperialismo statunitense. I partiti usciti dalla terza internazionale perdono il loro
orientamento e con esso il proletariato di tutti i paesi, che troppo si era identificato sulla prospettiva sovietica, smarrisce la bussola degli eventi e non trova gli strumenti per una lettura critica della realtà alternativi, al pensiero unico che viene imposto.
Sul piano più strettamente economico e strutturale il capitale finanziario riacquista il ruolo centrale che la crisi del 1929 aveva messo in secondo piano, con la conseguente centralità che il keynesismo attribuiva al momento produttivo. Non deve infatti ingannare il titolo dell’opera principale di Keynes (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936), perché essa, lungi dal teorizzare la centralità del denaro, ne faceva uno strumento flessibile che lo Stato utilizzava per sopperire alle carenze che si fossero verificate nel sistema produttivo, incapace di garantire di per sé la piena occupazione. È da ricordare, inoltre, che negli anni venti a Cambridge Keynes aveva chiamato a collaborare con lui Piero Sraffa, il titolo della cui opera principale
non lascia adito a dubbi: Produzione di merci a mezzo di merci, (1960)[15]. Sta di fatto che il sistema keynesiano era intrinsecamente inflattivo e che l’inflazione penalizzava i prestatori di denaro (finanza) e giovava ai debitori (capitale di rischio). Ed è proprio per questo che il ritorno alla teoria neoclassica ha avuto come obiettivi primi una moneta salda e forte sul mercato internazionale ed una drastica riduzione dei tassi di
inflazione.
1.4. Conseguenze
Nessuno può sostenere che esista un capitalismo “umanitario” in contrapposizione ad un capitalismo iniquo; dal punto di vista dei rapporti sociali il capitalismo è sempre e comunque un sistema che rifugge per sua natura l’equità. Quella sotto analisi è, invece, la stabilità più o meno intrinseca di un sistema di gestione del capitale, in confronto ad un altro, fermo restando che la contraddizione di classe alberga comunque all’interno
di un’economia basata sulla proprietà privata.
L’avvento, o meglio il risorgere, del dominio del capitale finanziario ha comportato un profondo mutamento del funzionamento del sistema capitalistico, accentuandone fortemente la instabilità dei processi di gestione ed in ultima analisi rendendone critico, altamente critico, l’equilibrio sistemico. Le ragioni sono presto dette. La ragion d’essere della finanza è il profitto, comunque conseguito e nel più breve tempo possibile. Ne
consegue un orientamento verso forme speculative o verso transazioni nominali, che producono sì profitti, ma non merci. La produzione di quest’ultime richiede logiche di rischio, di prospettive strategiche e di tempi di rientro degli investimenti più lunghi. È per questo che negli anni ottanta negli Stati Uniti d’America si comincia a parlare di deindustrializzazione e che la bilancia commerciale entra in un deficit crescente e irreversibile, auspice anche la sopravvalutazione del dollaro.
In tutti i paesi occidentali, se si prescinde in parte dalla Germania per ragioni che verranno analizzate brevemente più sotto, il capitale finanziario ha imposto la propria logica e col controllo del credito ha contaminato le strategie industriali. Andando per sommi capi, si può riassumere la nuova visione di politica economica in alcuni titoli da sviluppare: lotta all’inflazione ed ai debiti degli stati; deperimento del Welfare e mercificazione dei servizi; liberalizzazione dei mercati e globalizzazione; compressione dei costi di produzione e delocalizzazioni; calo di liquidità dei privati e loro indebitamento. Il tutto in un contesto privo di leve di controllo dell’evoluzione dell’economia, con un fiorire di cure parziali e locali dell’insorgere dei sintomi di
crisi, cure che hanno temporaneamente colmato le falle, senza insistere sulle lacune di sistema e su di una loro risoluzione, fino al deflagrare della crisi globale.
La Germania appare oggi in una posizione meno sfavorevole degli altri paesi capitalistici, perché la sua struttura ha sempre, dagli anni del primo dopoguerra, conosciuto una stretta correlazione fra istituti finanziari e apparato industriale, che ha mitigato gli eccessi verificatesi altrove, generando una politica di più ampio respiro,
orientato verso una produzione di qualità ed una forte implementazione tecnologica. Dall’altro lato emerge incombente il modello cinese esente dai vizi del capitale finanziario, su cui oggi si appuntano gli occhi degli economisti.
[7] http://it.wikipedia.org/wiki/Ludwig_Von_Mises.
[8] http://it.wikipedia.org/wiki/Friedrich_von_Hayek.
[9] http://it.wikipedia.org/wiki/Anarco-capitalismo.
[10] http://it.wikipedia.org/wiki/Milton_Friedman.
[11] http://it.wikipedia.org/wiki/John_Maynard_Keynes.
[12] http://en.wikipedia.org/wiki/Istituto_per_la_Ricostruzione_Industriale.
[13] Cfr. ENRICO WOLLEB, in Azimut n° 18 rivista bimestrale di economia politica e cultura – luglio-agosto 1985.
[14] http://it.wikipedia.org/wiki/Ford_Model_T.
[15] PIERO SRAFFA, Production of Commodities by Means of Commodities, Prelude to a Critique of Economics Theory, Cambridge University Press, 1960, trad. It. Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino 1960.