Analizzando la dilagante infatuazione della “globalizzazione” dei mercati, e la relativa nascita di movimenti che vi si opponevano in molti paesi, nel 2002 scrivevamo quanto segue.
“[…], quello che tende a divenire pervasivo è un modello di relazioni economiche e sociali fortemente sperequante, sia tra gli individui di uno stesso paese che tra paesi ricchi e paesi poveri, un sistema che regala un diritto assoluto di comando sulla forza di lavoro ai capitalisti […]. La cosiddetta globalizzazione non è, quindi, una progressiva, anche se rapida, compenetrazione di tutte le economie internazionali, ma la omologazione dei paesi ad un modello economico, fatto di finanziarizzazione e deregolazione dei rapporti sociali e produttivi. […]; il libero mercato è una fola: competizione commerciale, controlli crescenti sui movimenti delle persone (auspice l’allarme terrorismo), blocco alla circolazione delle idee (auspice la guerra contro il nemico semitico), caratterizzano in realtà la situazione del momento, e hanno radice ben più profonde della contingenza seguita all’11 di settembre. Non resta che il secondo degli aspetti del fenomeno della globalizzazione. Qui non ci sono regolamentazioni che tengano, non c’è un meno peggio nel confronto selvaggio tra detentori dei mezzi di produzione e prestatori d’opera: il processo della perdita dei diritti, di potere e di reddito del proletariato non può essere edulcorato; può solo essere contrastato[…]. Occorre anche sfatare il presunto effetto progressivo che la globalizzazione […] avrebbe nel diffondere cultura e democrazia nelle aree che sono rimaste ai margini, o al di fuori, dello sviluppo economico. […]. le aree economicamente
depresse tali rimangono ed anzi sono investite da nuove politiche di rapina quando detengano risorse di materie prime: non è un caso che i conflitti che hanno giornalmente accompagnato gli ultimi dieci anni si siano sviluppati tutti attorno a zone ricche di fonti energetiche o collocate sulle direttrice delle loro linee di comunicazione. […]. La parola globalizzazione contiene, quindi, un equivoco che è necessario chiarire. Il processo reale, cui abbiamo assistito ad oggi e che ora scricchiola vistosamente, non è la creazione di un modello universale di relazioni sociali improntate alla democrazia, ma una fase di sviluppo del capitalismo che diviene più aggressivo contro l’avversario di classe e a volte cannibalizza se stesso.”
L’impero della finanza
La parola “finanziarizzazione” è la chiave del ragionamento. Il mondo “globalizzato” che ha tenuto il campo negli ultimi di decenni, da quando Clinton nel 1999 abolì il Glass_Steagall Act, cioè quella norma che dal 1933 imponeva di tener separate le banche di risparmio tradizionali dalle banche di investimento, è stato contrassegnato dallo strapotere degli istituti finanziari, con le conseguenze sopra descritte e che si sono
puntualmente andate verificando. Ma dopo un’iniziale fiammata di contestazione internazionale, piano piano il dominio delle grandi banche statunitensi ed europee e delle relative agenzie di rating, si è imposto quale unico orizzonte possibile per l’economia globale.
Nel 2007 i nodi di una sostanziale miopia del capitale finanziario, volto alla realizzazione dei guadagni facili ed a brevissimo termine e quindi privo della capacità di programmare il futuro sviluppo seppur solo come traccia dell’azione, sono venuti clamorosamente al pettine. La crisi che ha investito clamorosamente i paesi industrializzati ha messo in mostra che non vi è prospettiva per un’economia che non è in grado di chiudere il ciclo delle merci e che il contrarsi dei redditi e dei consumi delle classi subalterne, a partire dalla classe media autentico fulcro del mercato, porta il sistema al collasso.
Subito si disse che il complesso della finanza avrebbe dovuto essere sottoposto a regolamentazioni più stringenti; si capì, o meglio si fece finta di capire, che le banche creavano in realtà una moneta virtuale, ne possedevano il controllo, ne alimentavano lo sviluppo cumulando profitti del tutto avulsi dall’economia reale; ma in realtà nulla è stato fatto, se non immettere soldi pubblici a sostegno degli istituti bancari claudicanti, senza che essi fossero costretti a rivedere le proprie strategie di investimento. Anzi, la loro fame perenne di risorse fresche, sottratte agli investimenti nell’economia della produzione, è cresciuta continuamente.
Parallelamente, per di più, le grosse concentrazioni creditizie hanno subito un generale processo di gigantismo, rami secchi sono stati tagliati (Lehman Brothers) e gli istituti periferici inglobati (casse rurali negli USA); in Italia il terminale del sistema finanziario, il governo Renzi, ha trasformato d’imperio le casse di risparmio in società per azioni, consentendone così l’acquisizione da parte dei gruppi più forti, aprendo la prospettiva della concentrazione in soli quattro grossi gruppi. In questo processo, ovviamente, la ricchezza ed il potere sono andati vieppiù concentrandosi in poche mani, quelle di un’élite sempre più ristretta.
La crisi prosegue pesando sulle solite spalle
È ovvio che in assenza di un reale cambiamento delle politiche economiche la crisi non possa far altro che proseguire, avviandosi ad essere quella più longeva di tutti i tempi. Nel 1938 il mondo era ormai ben avviato al superamento della crisi del 1929, anche se solo il secondo conflitto mondiale ne avrebbe segnato l’uscita definitiva, considerando anche il fatto che alcuni paesi dall’economia chiusa non erano stati contaminati
dal flagello. A distanza di oltre nove anni questa crisi si barcamena ancora nell’osservazioni al microscopio di flebili segnali di ripresa, puntualmente fatti naufragare da un intervento traumatico “imprevisto”.
Ma i banchieri hanno tempo, loro, perché continuano ad accumulare ricchezza, mentre strati sociali e interi paesi vedono aumentare solo i loro bisogni, anche primari, insoddisfatti. E non sono solo i più poveri a immiserirsi ulteriormente. Ceti che un tempo partecipavano alle briciole del benessere, conducevano vite dignitose supposte al riparo delle traversie economiche, scivolano lentamente ed a volte precipitosamente verso livelli di indigenza. In Giappone sono molti i quadri aziendali, anche di livello elevato costretti a vivere per strada, perché tutto hanno perso, con l’espulsione dal mondo del lavoro. Proprio in questi giorni l’ISTAT ha certificato che in Italia “nel 2015 la stima delle persone a rischio di povertà o esclusione sociale è al 28,7%” ed è in costante crescita.
È evidente, quindi, che questa crescente emarginazione, la continua precarizzazione dei rapporti di lavoro, la compressione dei diritti di contrattazione, la defalcazione del potere d’acquisto non potevano che generare un moto montante di insoddisfazione e di protesta e che questa protesta cerchi i propri modi di rappresentazione.
L’ “antipolitica”
Così le classi dominanti hanno qualificato questa espressione di profondo disagio, che al momento trova sfogo nelle occasioni di voto. Ma i politici di tutti i paesi occidentali sono più o meno direttamente esecutori delle volontà del potere finanziario, per cui quando i cittadini chiamati alle urne esprimono con il loro suffragio un rifiuto vero di loro, non si oppongono alla “politica” in quanto tale, ma alla “loro” politica, quella dei grossi
istituti di credito internazionali che la dettano e che loro eseguono supinamente. Protestano quindi contro i ceti dirigenti, che tali non sono, e che agiscono al servizio di politiche economiche che li danneggiano, favorendo spudoratamente gli interessi della finanza. Si dovrebbe quindi parlate più correttamente di antifinanza.
Ultimamente tutte le consultazioni popolari svoltesi hanno segnato un clamoroso fallimento degli esponenti di quella che si autodefinisce pomposamente la Politica: Brexit, Trump, referendum costituzionale in Italia. Solo il ballottaggio presidenziale in Austria non ha visto la vittoria dell’esponente di estrema destra, forse grazie ad una mancata attenzione dei media internazionali, grancassa degli interessi dei finanziari, per un evento ritenuto marginale.
E qui veniamo al problema. Gli eredi illegittimi della socialdemocrazia in Europa, i democratici negli Stati Uniti d’America, sono da tempo divenuti gli alfieri più conseguenti delle politiche neoliberiste (Clinton, Blair, Schröder, Mitterand, Gonzales, Prodi) e come tali rientrano in pieno nel novero dei nemici delle masse depauperate da quella politica. Con l’aggravante che una politica di destra trova migliora attuazione da parte di un governo di destra e che essi vengono chiamati al governo quando le tensioni sociali crescono e solo loro possono tentare con un qualche successo di sedare gli animi. Ma ormai la misura è colma!
L’alternativa cui si rivolgono i cittadini non è però un’alternativa reale al sistema, ma si concentra su soluzioni improbabili; il paradosso, ad esempio, è che alla rappresentante dell’establishment finanziario Hilary Clinton, sia stato contrapposto il multimiliardario Donald Trump. Ma è storia generale che il malcontento, spesso deviato su falsi obiettivi per non far individuare il vero nemico, venga convogliato su movimenti antisistema di destra: è già successo nel passato e rischia di ripetersi ora.
Manca un’alternativa di sinistra, che possa aiutare a rivolgere il dissenso verso i veri obiettivi e che possa creare la consapevolezza che solo la fuoriuscita dal sistema dei rapporti sociali capitalistici può permettere la creazione di una società più giusta, non più basata sullo sfruttamento, sembrano parole stantie, ripetute meccanicamente e stancamente, utopie del secolo passato ci par di sentir dire, ma resta inequivocabilmente vero che qualsiasi altra medicina lascia i rapporti di forza tra le classi immutate, permettendo che permanga un mondo tragicamente diseguale a scapito di molti. Perché una prospettiva diversa possa crescere ed affermarsi occorre riscoprire che non basta recarsi a votare una volta ogni tanto per depositare nell’urna il nostro urlo di dissenso, ma che essa va costruita giorno dopo giorno dentro di noi e fuori di noi, intorno a noi, con un impegno faticoso certo più di un tweet, ma sicuramente più produttivo.
Saverio Craparo