Capitalismo criminale: lo sfruttamento della comunità cinese in Toscana

Nel primo dopoguerra il distretto del tessile in Toscana era localizzato nei comuni intorno a Prato e inglobava, Scandicci, Campi Bisenzio, Calenzano. In quest’area era molto diffuso il lavoro a domicilio, ritenuto una forma di lavoro “arretrato” rispetto allo sviluppo capitalistico e alla grande industria. Per noi invece Prato era “ un’immensa fabbrica di un solo padrone” Analizzandola rilevavamo che “. Questi sono i vantaggi che la struttura scelta gli garantisce.
1. Mancanza di stabilimenti e in generale del capitale fisso, che secondo i canoni di economia marxista è improduttivo. Viene qui smentita la presunta crescita della percentuale di capitale fisso rispetto al capitale variabile (manodopera).
2. Nessuna concentrazione operaia, quindi totale assenza di lotte e rivendicazioni di qualsiasi tipo.
3. Lavoro a ciclo continuo. Ogni famiglia che “possiede” un telaio lo fa funzionare 24 ore su 24, per guadagnare il più possibile, istituendo al suo interno turni di 8 ore. Tutti gli appartenenti alla famiglia fanno il loro turno al telaio,
4. Cogestione: ogni “possessore” di telaio è convinto di lavorare per sé e quindi produce più di qualsiasi operaio di fabbrica.
5. Assenza di oneri sociali: non vi è alcun contratto di lavoro, perché ogni produttore è formalmente indipendente.
6. Il padrone vende il telaio al produttore che lo riscatta col lavoro.
7. Sia la materia prima che il prodotto finito sono controllati dal padrone che controlla il mercato e quindi fissa i prezzi.
8. I costi di ammortamento e aggiornamento dei macchinari ricadono sui lavoratori.”(1)
Notavamo che “Una struttura di questo tipo si sta espandendo nell’alto Casentino, e, per quanto riguarda l’industria dell’oro, ad Arezzo. Quest’ipotesi non è così com’è, praticabile su vasta scala per la sua evidente limitatezza a certi settori. Comunque risulta ovunque possibile una parcellizzazione di tutte le lavorazioni; cioè invece di fare vari reparti di una stessa fabbrica si possono fare tante piccole industrie (possibilmente cooperative), specialmente in certe lavorazioni.”
Rilevavamo ancora che “Il modello di produzione capitalistico copre oggi tutto il mondo. Ma esso non applica ovunque gli stessi sistemi di estrazione del plusvalore e non gode ovunque del medesimo livello di consenso. Si rileva anzi che anche all’interno di aree geoeconomiche delimitate dagli Stati, il capitalismo mantiene e fa sopravvivere livelli di accumulazione del profitto secondo schemi più o meno «arretrati». In Italia, ad esempio, troviamo a coesistere l’uso del taylorismo e delle grosse concentrazioni operaie, dove il plusvalore viene estratto secondo i sistemi ormai classici, del lavoro in catena, e sistemi cosiddetti «arretrati» come il lavoro a domicilio, dove si seguono forme «arcaiche» di estrazione del plusvalore. Si è cercato di sostenere che sotto la spinta delle lotte il capitale adotti modelli di organizzazione produttiva più raffinati ed avanzati e che successivamente il capitale tende a generalizzare questi modelli. Da ciò si è voluto dedurre un esaurirsi progressivo delle capacità del capitale di superare le crisi imposte dal suo stesso sviluppo e della lotta di classe.
C’è invece da prendere atto che per il capitale non esistono modelli di organizzazione del lavoro avanzati e arretrati, ma solo modelli funzionali al raggiungimento di due obiettivi: l’accumulazione del profitto mediante l’estrazione del plusvalore e il permanere del consenso a questo sfruttamento.
Le esemplificazioni e il ventaglio della diversificazione dei modelli di estrazione del plusvalore potrebbe continuare, ma il dato che si rileva è la reciproca funzionalità dell’uno all’altro modello e la compensazione che ogni metodo opera rispetto all’altro Il caso emblematico di Prato offre un esempio di modello «arretrato» di organizzazione del lavoro perfettamente funzionale agli interessi del capitale e compatibile con l’organizzazione del lavoro di tipo avanzato all’interno di una stessa area geoeconomica. Anzi, i due modelli di organizzazione del lavoro sono applicati in rapporto complementare l’uno con l’altro”. [Autonomia e organizzazione. Sui rapporti sociali comunisti, Crescita Politica Editrice, Firenze, 1975, 9-10]
In concreto si passa dalla produzione di coperte a quella di cappotti, un prodotto che rimane lo stesso per trent’anni, una produzione realizzata senza investimenti in ricerca e innovazione; con bilanci in utile, senza rimanenze di magazzino, e dove gli operai più capaci possono mettersi in proprio e diventare imprenditori. Il cuore della produzione è costituito dalla trasformazione di materiali, filati, e tessuti che permette di accedere a una materia prima a basso costo.

Attivano i cinesi

Poi arrivarono i cinesi, cominciando a inserirsi nel settore più basso e disagiato della catena produttiva: la cernita stracci. In capannoni polveroso tra polveri ammorbanti si assunsero il compito di dividere gli stracci provenienti da tutto il mondo, suddividendoli per tipologie diverse in modo da poterli riciclare, rigenerare, trasformare in nuovo filato, tingerli di nuovo, ridare vita al tessuto. Un lavoro infame veniva tolto ai pratesi; e poi i cinesi si adattavano: vivevano nei capanni, anzi non ne uscivano mai. Costavano poco e quando affittavano i capannoni erano puntuali nei pagamenti. Nessuno faceva attenzione a come vivevano, alle strutture proprietarie alle quali davano vita, seguiti com’erano da un sinologo dell’Università di Firenze, Renzo Rastrelli e pochi altri che cercavano di alleviare le loro condizioni di vita con il loro volontariato.
Col tempo la comunità prosperò e crebbe di numero alimentata da una emigrazione più o meno clandestina dalla Cina e cominciò ad espandere le proprie attività come facevano i pratesi: comprò il telaio da istallare in casa e cominciò a tessere assorbendo l’organizzazione del lavoro a ciclo continuo dei pratesi. Le famiglie erano numerose e potevano ben gestire e a un prezzo più economico la tessitura del filato. Cominciarono poi ad imitare i pratesi nella produzione di accessori per l’abbigliamento adottando le stesse metodiche di organizzazione del lavoro ma con una marcia in più. L’emigrazione clandestina cresceva e la manodopera a costo sempre più basso non mancava mai.
Poi venne l’apertura del mercato mondiale e il mondo produttivo cinese si lanciò nel settore del colore e delle confezioni a bassa qualità. I pratesi poco avevano fatto per l’innovazione, scarsamente sostenuti com’erano da un Governo che poco si interessava della produzione della piccola impresa. Si ci fu qualche tentativo di collegamento al mondo della moda perfino la creazione i una scuola il “Polimoda” nato dall’iniziativa privata ma scarsamente sostenuto dall’investimento pubblico, in parte associato all’Università di Firenze ma tenuto ai margini. Poca innovazione, pochissima e soprattutto dittatura del mondo del designer che regolava l’accesso alla fascia alta della produzione e detta sempre di più le condizioni di mercato senza che i produttori possano orientare il processo di progettazione, produzione e commercializzazione dei prodotti in cui i tessuti sono impiegati. Ciò li sottopone al ricatto costante del mondo della moda che espande o limita le richieste, anche se gli industriali pratesi sono convinti di determinare e orientare il mercato grazie all’abilità nell’uso del colore e nella tinteggiatura.
Un’illusione che viene meno con l’espandersi del mercato mondiale e con l’ingresso in scena di produttori abbastanza agguerriti ai quali sono in grado di rispondere solo i produttori cinesi di Prato, entrando nel mercato delle fasce basse della produzione sia del tessuto che delle confezioni. La conoscenza e l’abilità operaia del tintore non serve più, poco importa se le sostanze utilizzate per trattare i tessuti provochino dermatiti o lascino presto scolorire il prodotto. Ciò che importa è il basso costo del lavoro e i cinesi sono in grado di offrirlo grazie alla condizioni di lavoro pessime, ai salari bassi, alle condizioni di vita in capannoni alveari che nel piccolo spazio soppalcato del laboratorio ospitano i letti dove si avvicendano coloro che garantiscono una lavorazione a ciclo continuo vivendo in condizioni sanitarie e umane indescrivibili. Ma la forza lavoro è cinese e quindi pochi o nessun controllo della ASL e della Medicina del Lavoro. Di sindacato neanche a parlarne. Sono fatti loro!
L’IRAP (che a Prato hanno ribattezzato Iraq a sottolinearne gli effetti devastanti) da un altro duro colpo all’economia pratese e induce molti a cedere la propria attività. L’imprenditoria cinese ha intanto accumulato capitali e risorse finanziarie ed è la sola forza capace di rilevare le precedenti attività produttive, trasformandone l’attività e finalizzandola alle fasce basse del mercato del tessile e dell’oggettistica legata all’abbigliamento. Progressivamente le. imprese artigiane che non sono state capaci di passare a modelli di nuovo artigianato, cioè di trasformarsi in imprese ad alta specializzazione capaci di essere interlocutori attivi della progettazione dei committenti, quelle che hanno accarezzato l’idea della produzione di nicchia si rivelano incapaci di adottare processi di innovazione e di espansione della produzione e perciò chiudono e vendono o affittano ai cinesi. A farne le spese è certamente la qualità dei prodotti, e che questo finisce per colpire tutti gli attori, anche quelli che inizialmente giocano a schiacciare i più deboli sul piano contrattuale. Trionfa la produzione di prodotti di qualità bassa che trovano concorrenti potentissimi nei paesi a basso costo del lavoro e che possono essere contrastati solo da quelle le fabbriche di Prato vendute ai cinesi.
Intanto la comunità cinese si è data proprie strutture finanziarie, propri professionisti che curano agenzie di import export, che canalizzano verso i distretti della madrepatria i guadagni accumulati, che investono sostenuti e ben inseriti nel mondo finanziario cinese e internazionale.

Arriva la crisi

Oggi la crisi del tessile colpisce anche Prato. Lucrare sul costo infimo della forza lavoro non basta più a vincere la concorrenza sostenuta dal decentramento produttivo e la grande mole di prodotti scadenti che arriva da luoghi che utilizzano il lavoro minorile e gli stessi metodi di lavoro familiare coatto praticati dai cinesi. Il contesto nel quale queste produzioni sono inserite permette economie di scala maggiori e pone fuori mercato una produzione che non è stata capace di recuperare in qualità e valore. A reggere ancora sono gli investimenti nella pelletteria e nell’oggettistica (per ora) e intorno a questo settore si concentra la resistenza di una popolazione da lungo tempo emigrata che non riesce ad accettare la soluzione del ritorno in patria dove peraltro lo sviluppo economico subisce battute d’arresto. Così assume consistenza una crisi occupazionale che diviene politica mentre la potente struttura di comunità è attraversata da infiltrazioni mafiose che del resto sono da tempo presenti nella parallele comunità autoctone.
Così il problema diviene sociale e si paga il prezzo del fallimento della politica di integrazione che a Prato e dintorni semplicemente non c’è stata o è stata molto flebile e comunque non è riuscita a rompere i legami di comunità e a superare la solidarietà etnica che trasforma l’area progressivamente in una periferia degradata alle porte di Firenze. Da qui le manifestazioni e proteste di questi giorni, occasionate dagli spintoni della polizia a un vecchio con in braccio un bambino, gesto che attacca direttamente i valori della comunità e crea coesione sociale ogni ragionevole motivo di dissenso e sospetto per il recente incendio di uno stabilimento nel quale lavoravano e vivevano ammassati decine di famiglie, a dispetto delle costatazione dell’ASL, dell’Ispettorato del lavoro sulle condizioni indegne di lavoro e di vita di tutti. Certo il disaggio dei lavoratori cinesi c’è ma la prospettiva di un ritorno forzato in patria, la fine dell’emigrazione costituisce una prospettiva ben peggiore e allora meglio giocarsi tutto e resistere con ogni mezzo anche se si è consapevoli che l’altra popolazione, quella indigena, dell’area e sempre più chiusa e assume atteggiamenti di aperto razzismo non capendo che la sola soluzione possibile è quella di un’alleanza tra glia abitanti tutti del territorio, che vada al di la delle strutture di comunità Eppure basterebbe riflettere sul fatto che l’allontanamento dei cinesi non farebbe comunque ritornare in vita, non farebbe risorgere, il distretto del tessile ne rifiorire le altre attività e che solamente un piano di investimenti e riqualificazione dei diversi settori produttivi e l’introduzione di alta specializzazione e il recupero delle antiche e ancora valide manualità potrebbero far rifiorire un’attività funzionale allo sviluppo della produzione finalizzata alla moda al designer.
Una soluzione troppo complessa che richiederebbe investimenti strutturali privati e/o pubblici ma questa è una soluzione di la da venire, mentre i problemi si aggravano. Basti pensare che le recenti elezioni amministrative a Sesto hanno fatto perno intorno al problema della costruzione dell’inceneritore e dell’allargamento della pista del vicino aeroporto malgrado la vicinanza nel raggio di mezzora degli aeroporti di Pisa e Bologna. Ma si sa gli interessi del “giglio tragico” legate alle due ricordate realizzazioni son ben più importanti della soluzione dei problemi delle periferie. I cittadini di Sesto l’hanno capito e intanto hanno fatto fuori il candidato renziano. Che non sia un piccolo inizio?

(1) [CRAPARO S., LEONI G., MASCIOTRA P., PAGANINI M., CIMBALO G., Ai compagni su capitalismo ristrutturazione e lotta di classe, Crescita politica editrice, Firenze 1975, 44-45.]

La redazione