VERONA: SUPREMATISTI A CONVEGNO

Il Congresso mondiale delle famiglie, organizzato a Verona dal fondamentalismo cattolico e dalla destra sovranista mette a fuoco in modo efficace la politica sociale della Lega e rappresenta il punto d’incontro tra l’integralismo cattolico più becero e i deliri sovranisti per combattere una società dai valori aperti, proponendo il ripristino di valori dismessi di supremazia maschile, di schiavizzazione della donna, differenziazione razziale, attingendo a quando di peggio ha caratterizzato da sempre i rapporti tra gli esseri umani. Il massiccio sostegno politico all’iniziativa messo in campo dalla Lega ci dice che la sua politica è molto di più che l’azione di contrasto all’emigrazione e il parlare alla pancia dell’elettorato per ottenere consensi, ma porta con sé un progetto di società dalle caratteristiche regressive ben definite.
Nella visione dei convegnisti oggetto della protezione sociale devono essere solo le popolazioni di razza bianca (o per meglio dire quelli che a vederli sono bianchi di pelle, posto che la razza non è un concetto scientifico, ma politico) e che da generazioni abitano i territori europei. Il principale nemico dell’attuale assetto sociale è certamente l’emigrazione che avrebbe, secondo costoro, l’obiettivo di sostituire gli abitanti europei autoctoni con popolazioni provenienti dal resto del mondo. (il cosiddetto complotto sostituzionista). Il Convegno di Verona è la sintesi di tutto questo e cerca di dare il contenuto alla società futura che la destra sociale vuole.
Con troppa faciloneria la sinistra presenta il progetto reazionario di Verona come medioevale e oscurantista – slogan facile da condividere tanto che persino gli imbecilli 5 stelle hanno parlato di sfigati,
mentre invece si sottovaluta come al solito il nemico di classe con la conseguenza poi di prendere le botte, stupendosi di tutto. Occorre a riguardo ribadire innanzi tutto che il concetto biologico di razza umana è stato smentito dalla scienza; non negando le differenze tra i popoli si deve invece parlare di etnie (o gruppi etno-geografici). L’appartenenza a un’etnia non è decisa esternamente e non serve certo per affermare la propria supremazia genetica, ma riflette un’unità culturale, linguistica e geografica

L’insofferenza verso l’uguaglianza

In tempo di crisi economica e di vacche magre non prevale la solidarietà, ma l’egoismo e ognuno cerca di salvare se stesso, cerca di limitare i danni. È questo uno dei motivi per i quali la salvezza, la difesa dei propri interessi, viene vista nella famiglia, intesa come aggregato clanico, come insieme allargato d’interesse, nel rispetto del vecchio adagio che “quando sono ferito gettami tra i miei” perché lì posso ricevere l’aiuto necessario. Da questo punto di vista la famiglia come struttura da valorizzare contrapposta alla società aperta regge il confronto, perché viene vista come una cellula base, contrapposta allo Stato che rappresenta la dimensione sociale, gli interessi generali. Perciò richiamare la famiglia tradizionale e i suoi valori non è affatto in contro tendenza con il vivere oggi.
La famiglia tradizionale nella società occidentale soprattutto cattolica è quella del matrimonio indissolubile dove però è scontato che il coniuge maschio possa avere rapporti extra-familiari; la famiglia
tradizionale è quella dove si ricostruisce la supremazia maschile, anche in caso di separazione e divorzi, e dove la violenza sulla donna è prassi, tanto da volerla riproporre con il disegno di legge Pillon.
Questa visione della società è facile da veicolare, anche perché i sostenitori di una famiglia aperta, egualitaria, che garantisce alla pari il diritto dei coniugi o conviventi è stato propagandato come desiderato e possibile, ma praticato poco e male dai suoi stessi sostenitori. È proprio la parità incompiuta di diritti a rendere fragile e friabile una proposta progressista di morale sociale che superi la subordinazione della donna all’uomo, resa manifesta da recenti sentenze della magistratura (specchio dei tempi) che rivelano comprensione per il femminicidio praticato in nome della gelosia, del possesso dello stato di “tempesta emotiva” dell’uomo che si vede sottrarre la dominanza della donna.
Per questi motivi i contenuti e le proposte del Convegno di Verona rischiano di apparire realistiche, attuali, accoglibili per una parte dell’opinione pubblica, perché sembrano frutto del buon senso comune,
propongono come lecita una morale e un’etica praticata, vissuta, messa giornalmente in atto nei rapporti di relazione delle famiglie, rette da matrimoni religiosamente celebrati, e in qualche caso di persone che praticano la convivenza. Basti guardare alla vita privata dei leader che sostengono queste posizioni i quali e le quali convivono, sono divorziati, volano di”fiore in fiore” con disinvoltura e celebrano la famiglia tradizionale. Ma l’ipocrisia non risparmia nessuno e a volte, anche nelle famiglie allargate, fatte di aggregati di più nuclei familiari frutto di diverse unioni, finiscono per svilupparsi forme di relazione “tradizionali”, dove soprattutto il rapporto uomo-donna mantiene le usuali relazioni e ruoli di potere.
A ciò si aggiunga che la rinascita del religioso (sulle cause del fenomeno ritorneremo in altra occasione) dovuto anche dall’immissione significativa della presenza di nuclei familiari di altra cultura nella società italiana a seguito delle migrazioni, che condividono una visione maschilista dei rapporti intra-familiari, offre un allargamento della base di consenso sulla quale poggiare l’attuazione di una manovra regressiva a livello sociale.

Il bisogno di una nuova cultura sociale

A eventi come quelli di Verona si reagisce non solo manifestando e opponendosi, protestando e denunziando, ma praticando altre relazioni, altri rapporti, altra pratica sociale. Ancora una volta bisogna
spostare l’attenzione sulle condizioni materiali per fornire un sostegno strutturale alle trasformazioni sociali. E qui l’attenzione si sposta sulla donna la quale va messa nelle condizioni di uguaglianza con l’uomo, innanzi tutto per quanto riguarda l’accesso al lavoro e all’indipendenza economica. Si sposta sui nonni che non possono essere il sostegno dei figli privi di lavoro e di futuro. Riguarda le strutture di accudimento degli anziani e dei malati, perché l’assistenza a costoro non può pesare sulle sole donne.
Ciò significa pensare le politiche non a favore della famiglia, o pensare solo ai figli da mettere al mondo come fa la destra, ma a tutti i suoi componenti, prima di tutti i più deboli. Ciò significa permettere alle donne di realizzarsi non nella maternità e nella genitorialità, ma nello sforzo di costruirsi una vita di relazioni e di soddisfazione dei bisogni e delle aspettative di vita, che veda la genitorialità e la maternità solo come una delle componenti possibili della vita della donna.
Si tratta di un modo di ragionare e di procedere complesso che necessita di disporre di una attrezzatura culturale per affrontare i tanti problemi e soprattutto che si sia dotati della possibilità di rispondere a un quesito: a una donna che si batte per la propria autonomia umana i suprematisti di Verona obiettano che in tal modo si mortifica il suo ruolo quando non si esalta il suo ruolo riproduttivo. A costoro bisogna poter rispondere che non basta l’adozione di sostegno economico alla maternità – politica nella quale e sulla quale i convegnisti veronesi sono d’accordo – ma occorre ricordare prima di tutto che la donna è persona umana che ha diritto a realizzarsi nei suoi sogni e nelle sue aspirazioni. In buona sostanza chi è persona umana non è diversa per etnia, nascita da famiglie prive di nazionalità, ma per cultura, educazione relazioni sociali e opportunità e quindi l’antidoto necessario a evitare la sostituzione culturale delle popolazioni non sta nella demografia, obbligando la donna a porre rimedio col proprio utero ai problemi demografici, ma nella capacità di assimilazione, di acculturazione attraverso procedure e percorsi dei bambini e degli adulti, i quali trasmettano, rinnovandoli in senso dinamico, i rapporti di relazione elaborati nel contesto europeo.
Queste considerazioni devono indurre a evitare di pensare alla concessione della cittadinanza come premio, come atto del principe sovrano, come elargizione, ma piuttosto come a un insieme di diritti e doveri, che contengono in sé i valori condivisi della convivenza sociale.
Per fare questo bisogna partire dal concetto che la visione di famiglia contenuta negli artt. 29 e 30 della Costituzione è superata e va letta alla luce di quanto il sentire sociale ha elaborato dopo il 1947, nella consapevolezza che dopo 70 anni un ritorno acritico e decontestualizzato a quelle affermazioni sarebbe regressivo e antistorico. Non è un caso che i proponenti di quel convegno si richiamino ai valori costituzionali, intesi come bandiera da difendere, una bandiera in questo caso logora e piena di buchi. Del resto era già vecchia quando quelle norme furono proposte da una componente cattolica retriva e tradizionalista e da una componete della sinistra largamente altrettanto bigotta e retriva in materia di relazioni interpersonali. Anni di riforme, conquiste costate lotte molto dure come il divorzio e il diritto a una maternità responsabile, la cancellazione di norme sul delitto d’onore, sulla discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio non possono essere svenduti per valorizzare il matrimonio religioso indissolubile come la chiave per un risanamento della società che da queste conquiste sarebbe stata messa in crisi.
Per evitare il baratro, la cultura di sinistra non deve e non può condurre una battaglia difensiva, ma deve passare al contrattacco, a cominciare dal progetto di società che vuole costruire e nella quale desidera vivere che è fatta di rispetto reciproco, di pari opportunità economiche e salariali tra uomini e donne, di parità di genere, di cultura inclusiva e aperta, capace di rielaborare i valori culturali dell’occidente senza vergogne e pudori.

Gianni Cimbalo

Annotazioni a margine
Credo che uno dei problemi che la discussione su quali debba e possa essere il ruolo sociale della famiglia e della donna – ed è per questo che ritengo il dibattito non consono al nuovo secolo – derivi dal fatto che la società è profondamente cambiata per cui oggi è impensabile che una donna non lavori e non contribuisca col suo stipendio a mantenere la “famiglia”. Penso anche che molte donne vorrebbero potere stare a casa e smetterla di fare lavori sottopagati rispetto ai colleghi uomini, ma semplicemente non possono permetterselo. Dare dei bonus economici (una tantum) a chi fa figli non ha senso. Occorrerebbe un welfare appositamente dedicato alla famiglia, e che sia encomiabile, come accade in Francia o nei paesi scandinavi.
Sarebbe necessaria la parità salariale tra uomini e donne. Ma in Italia è impensabile attuarlo, come d’altronde un welfare di autosussistenza familiare è non solo retrogrado, ma pure allucinante. Trovo delle similitudini col discorso sul volontariato e quanto esso sia perverso nella società contemporanea. Questi dibattiti li trovo vecchi e mi paiono più un canto del cigno della visione di una società che non esiste più, piuttosto che una pericolosa realtà che possa prendere piede.
Anche lo stesso concetto di famiglia, come nucleo attorno al quale ruotano i diversi interessi in gioco, ormai è desueto. Basti solo pensare al frazionamento costante che esiste nel campo immobiliare degli appartamenti, trasformati ormai tutti in bi-trilocali al massimo e che certamente non consentono un ménage familiare così come concepito un tempo dove vecchie e nuove generazioni stavano insieme e si sostenevano a vicenda. Anche le case di riposo sono piene di nonni che nessuno vuole in casa. Le nuovissime generazioni vanno a scuola con immigrati di seconda generazione che parlano e mangiano e credono nelle stesse cose degli autoctoni. L’integrazione, seppur zoppicante come in Italia, ha bisogno di tempo e non dobbiamo stupirci di quanto ci siamo scoperti razzisti. Purtroppo, fin quando permane il problema della disoccupazione, dell’abitazione, di un servizio sanitario sempre più ombra di se stesso, la “tradizione” trova ancora spazio nella mente di vecchi nostalgici, ma non è questa la strada per il paradiso.
In ogni caso, tornando all’argomento principale, le questioni legate alla “famiglia” sono, in contesti come quello veronese, solo degli specchietti per le allodole che se da una parte richiamano i fan della famiglia tradizionale, dall’altro creano l’occasione, sempre in nome della famiglia, per volere togliere diritti democraticamente conquistati e per affermare che le donne che abortiscono sono delle cannibali o altre cazzate di questo genere.
Probabilmente la sedicente sinistra dovrebbe rimarcare con maggiore autorevolezza che aborto, divorzio, nuove forme di convivenza affettiva, eutanasia ormai fanno parte del nostro patrimonio culturale e soprattutto del suo. Ma non lo farà mai, perché agendo così, se da una parte prende una posizione, dall’altra si inimica tutto l’elettorato del centro-destra dal quale spera sempre di (ri)prendersi i voti e preferisce mantenere dei confini fluidi, proprio per poter catturare il più alto consenso possibile. Se non fosse però che, in casi come questi, o è bianco o è nero, cioè o sei a favore di un diritto o sei contro, tante mezze misure non possono esserci.
Moriremo tutti democristiani e, se continua così, pure terrapiattisti (a proposito di ritorno al medioevo).
A parte questo, io metterei in maggiore evidenza la strumentalizzazione che viene fatta del concetto di famiglia per finalità molto più losche.
F.B.