Everyman

In un saggio scherzoso, ma non troppo, del 1962 (ripubblicato poi in Diario
Minimo, Mondadori, Milano 1975, pp. 30-35), intitolato Fenomenologia di Mike
Buongiorno, Umberto Eco analizzava tra il serio ed il faceto il fenomeno del
successo televisivo del noto presentatore italo-americano. La domanda cui si
cercava una risposta nasceva dall’evidente pressapochismo culturale del
personaggio, dal suo incorrere con frequenza in gaffe disarmanti e spesso
imbarazzanti, dal suo buon senso spicciolo e di scarso spessore, e quindi l’autore
s’interrogava come potesse avere successo un tale emblematico esempio di
medietà. Basti un brano.
Mike Buongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra in contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all’apatia e alla pigrizia mentale”. Il perché un personaggio così modesto riscuotesse un enorme successo popolare è presto detto: l’uomo qualunque, lo spettatore televisivo non tende ad identificarsi con il sapiente, con lo studioso, con il competente, con il superman, che si rispetta e si ascolta, ma che non provoca empatia; l’uomo qualunque, lo spettatore televisivo tende ad identificarsi con un soggetto che sia suo pari, anzi forse un po’ al di sotto, l’everyman; il meccanismo è semplice: l’uomo modesto che ha avuto successo permette di pensare che questo
sia possibile anche per chi lo vede e lo ascolta, non crea sindromi di inferiorità, parla un linguaggio semplice e, pertanto, comprensibile come quello che abitualmente si adopera al bar ed in famiglia, fa apparire semplice e risolvibile qualsiasi problema non chiamando i cervelli in riposo a sforzi che non sarebbero in grado di sopportare.

La politica dei nostri giorni

Nella campagna presidenziale negli Stati Uniti d’America del 2000, George Bush jr. vinse contro il candidato del Partito Democratico Al Gore; come nel caso più recente del 2016, il vincitore aveva preso meno voti dell’avversario (in quel caso storico anche con l’aiuto non del tutto limpido del fratello governatore dello Stato risultato dirimente della Florida), grazie ad un sistema elettorale iniquo. Il punto però è un altro. Come mai un candidato palesemente ignorante, non dico di geopolitica, ma semplicemente di geografia, aveva potuto assicurarsi un ampio consenso elettorale, tale da mettergli in mano le sorti della maggiore potenza militare del mondo e con esse quelle di tutti i popoli, volenti o nolenti?
Ebbene, molti elettori intervistati dichiararono di non aver votato Gore, in quanto troppo preparato sullo scacchiere internazionale, troppo distante dal loro sentire a causa di un linguaggio estremamente tecnico. E così gli elettori statunitensi hanno affidato responsabilità da “far tremare le veni e i polsi”, prima ad un ex giovanotto
scapestrato ed alcolizzato, pressoché renitente alla leva, figlio di un magnate del petrolio, già Presidente degli Usa poco brillante, ma comunque ben più vispo di lui, ed è tutto dire; poi ad un improbabile palazzinaro, furbo ma incolto, noto gaffeur.
Se nel primo caso surrogava all’incompetenza manifesta del Presidente uno staff di tutto rispetto, nel secondo neppure questo è vero, perché Trump si è circondato di umili servi annuenti, liquidando chiunque al minimo dissenso. La salita alla ribalta della politica di autentiche nullità e un dato ormai dilagante. Non è lo spettacolo che è entrato nella politica, ma è la politica che si è fatta spettacolo puro, tanto da portare alla ribalta
veri e propri attori, nel senso letterale del termine. Del resto il fenomeno era stato previsto e spiegato con notevole prevegenza (nel 1967) da Guy Devord, scrittore e filosofo francese, nel suo La società dello Spettacolo descriveva la società delle immagini come una mistificazione volta a giustificare i rapporti sociali di produzione vigenti.

Un panorama

In Germania la vecchia Merkel (orba in un mondo di ciechi) stenta a trovare un successore. I francesi hanno preso una cotta improvvisa e tumultuosa per un signor nessuno, sconosciuto ai più solo sei mesi prima della sua elezione, e che dopo meno di un anno è sceso ai minimi storici di gradimento, senza contare il caos in cui ha gettato ben presto il paese. In Gran Bretagna, dopo monsignora tentennona May, gli elettori si sono gettati nelle braccia di uno spavaldo giovanotto che ostenta la sicurezza di poche idee, ma confuse, ignari delle conseguenze delle proprie scelte, ma quel che è più grave è che dette conseguenze sono ignorate anche dalla loro guida; senza contare che l’ardimentoso leader è un soggetto che per primo, nella storia del paese dopo il
1215, ha osato tentare la chiusura del Parlamento in un periodo di discussioni cruciali per il paese, per altro fallendo; le notizie più recenti (Il Sole 24 ore del 14 febbraio 2020) confermano le spiccate tendenze autoritarie del soggetto.
Che dire poi del Brasile che, per sfuggire alla corruzione dilagante, si è affidato ad un Presidente che crede che la nascita di una femmina trovi la sua ragione nella scarsa potenza del genitore?
Poche sono le eccezioni di leader politici ancora in grado di ragionare sul merito dei problemi. Ciò che accomuna tutti questi successi di parvenu della politica è la loro capacità affabulatoria, non legata al sogno che essi possono suscitare negli ascoltatori, allo stimolo verso una visione del futuro che possa ammaliare, ma solo alla loro basic lingua, quella quotidiana, alla loro forzata semplificazione di problemi complessi, alla promessa improbabile di risolvere le questioni del momento con un semplice rimedio, con un toccasana da guitti.

E in Italia?

Inutile dire che l’Italia non sfugge alla tendenza generale, anzi in un certo senso, ne è la riprova più lampante. Nelle elezioni di due anni fa il successo inatteso per le proporzioni ha arriso ad un movimento che ha fatto dell’ignoranza politica la propria bandiera, guidato da un comico, bravo in quanto tale, ma che spara una sequela di sentenze insensate, e da un giovanotto senza arte né parte. Ora sulla cresta dell’onda (ma forse
leggermente in declino al momento) sta un soggetto che sa solo fiutare gli umori prevalenti e ad essi adegua i propri messaggi, incurante della coerenza e della logicità, che fa politica da oltre trenta anni senza aver mai provveduto ad una formazione; è circondato da un nutrito staff di attenti osservatori della rete che lo consiglino
su ogni mossa, anche se talvolta questi “esperti” errano. Il dramma che oltre questi personaggi c’è il deserto. Un deserto che fa il paio con la desertificazione della politica.
È più facile seguire la propaganda che porsi dei problemi. Il frutto avvelenato della devastazione seguita alla sconfitta del ciclo di lotte degli anni settanta, il susseguente rifluire nel privato, dell’addormentarsi nella melma televisiva che propone modelli comportamentali buoni per consumatori acefali. A distanza di quaranta anni Berlusconi ha vinto la sua battaglia, creando con le sue televisioni e dominando sostanziamente quelle pubbliche riuscendo a costruire un “popolo” a sua immagine e somiglianza; politicamente è morto, ma socialmente sta trionfando, complice una cosiddetta sinistra che non ha saputo contrastare la deriva culturale da lui imposta, anzi scimmiottandone renzianamente le modalità comunicative, senza comprendere che quelle modalità erano il vero messaggio r cioè che non è importante cosa viene detto, ma come, cioè semplificando, banalizzando, deturpando, stuprando i contenuti e invitando le menti alla pigrizia, all’assuefazione, al conformismo, al lassismo culturale. In fin dei conti la cultura è pane per i “professoroni”, che studino pure ma nei loro inutili recessi e non pretendano di prospettare la complessità del reale, fattore di turbamento dei cervelli
intorpiditi. Il lavoro di recupero di un retroterra critico delle masse degli ultimi e dei penultimi (“popolo” è una dizione ambigua) è immenso, ma occorre ricominciate!

Saverio Capraro