Filo… chi?

L’Ucraina è oggi squassata dal conflitto fra filoccidentali e filorussi. Lasciamo da parte la “stranezza” del messaggio che la stampa fa filtrare chiamando i secondi “ribelli”, mentre le masse spesso prezzolate di Piazza Maidan, che si opponevano ad un governo eletto regolarmente venivano classificate come cittadini indignati: il moto di piazza, fomentato dalla destra nazionalista e fascista, è stato presentato come una legittima protesta e
chissà i clamori di protesta che avrebbe suscitato un intervento dell’esercito; quest’ultimo viene invece sostenuto e difeso quando un governo illegittimo interviene a negare ogni forma di autodeterminazione. Ma già, si tratta dello stesso “democratico” occidente, che approvò il cannoneggiamento del parlamento russo (la Duma) da parte di Eltsin; lo stesso occidente che fomentò, in nome dell’autodeterminazione dei popoli lo
smembramento dell’ex-Jugoslavia. Ma il tornaconto è pur sempre il tornaconto!
Queste considerazioni, come detto, attengono comunque ad un’altra sfera di ragionamento. L’attenzione è il caso di appuntarla, da un punto di vista più propriamente comunista anarchico, su di un altro aspetto. I conflitti che interessano le varie parti del globo negli ultimi venti anni non sono più legati esplicitamente alla
difesa di interessi nazionali come è stato fino alla seconda guerra mondiale, in cui alcuni Stati tentavano di allargare la propria sfera di influenza ed altri vi si opponevano. E non sono nemmeno più, come è stato fino al termine del mondo bipolare, determinati da aspirazioni alla liberazione di popoli sottomessi ai domini coloniali.
In entrambi i casi o i confini nazionali tendevano ad allargarsi oppure fungevano da collante per scacciare gli invasori. Da allora (dalla caduta del muro di Berlino) i conflitti hanno un carattere divisivo, tendono cioè a smembrare le unità territoriali vecchie, o su basi etniche, o su basi linguistiche o, per lo più, su basi religiose; è stato così in Ruanda, in Congo, in Sri Lanka, nei Balcani; sempre così, se si esclude il conflitto in Palestina che ha ragioni e scaturigini storiche molto più complesse.
È ben evidente che i popoli protagonisti di questi conflitti hanno introiettato le ragioni della propria identità storica, linguistica, culturale, confessionale come giustificazione sufficiente per la rivendicazione della propria autonomia. È altrettanto evidente, però, che alle distinzioni è difficile porre un limite. Fra pochi giorni si terrà in Scozia un referendum volto a sancirne la separazione dall’Inghilterra; esiste, d’altra parte, anche un movimento che rivendica la separazione dalla Scozia delle isole Orcadi; e perché allora non il Galles o i Bretoni dalla Francia o della Padania dall’Italia o di Pisa dalla Toscana o della Valdinievole da Pistoia e così via. Ma sono queste identità le cause vere dei movimenti separatisti?
Ritorniamo per un attimo all’Ucraina. È uno scontro tra etnie diverse, tra appartenenze linguistiche diverse, tra tradizioni sociali diverse? Difficile sostenerlo. Sono tutte popolazioni slave (si distinguono gli ucraini o piccoli russi dai russi veri e propri), con abitudini di vita uguali, con lingue assimilabili (l’ucraino differisce dal russo non più di quanto il sardo differisca dall’italiano). La verità risiede altrove. Le province occidentali, pur essendo state ucrainizzate ed epurate dai precedenti abitanti polacchi dopo il secondo conflitto mondiale, hanno mantenuto forti legami economici con le limitrofe Polonia ed Ungheria. Finché tutte facevano parte del Patto di Varsavia il problema non si è posto. Ma con la frantumazione dell’impero sovietico e con l’ingresso dei paesi limitrofi nell’orbita dell’Unione Europea le condizioni sono mutate e tre interessi sono
andati a convergere. Prima di tutto l’espansionismo economico europeo, attirato dalle riserve minerarie del paese. Poi quello degli Stati Uniti d’America volto a rendere sempre più ristretta e vulnerabile la cerniera degli Stati cuscinetto al confine occidentale della Federazione Russa, come le recenti decisione della NATO confermano. Infine gli interessi della borghesia di quelle province a ripristinare i propri contatti economici con
le nazioni confinanti e a sfruttare le opportunità offerte dagli aiuti europei; complici di queste decisioni l’illusione, fatta balenare dagli “esperti” statunitensi, di una eventuale sufficienza energetica grazie alla notevole presenza nel paese di giacimenti di scisti bituminosi.
A queste aspirazione ha fatto da massa di supporto una popolazione attratta dal propagandato benessere ottenibile dall’entrata nell’UE, supportata dai gruppi politici nazionalisti o apertamente nazisti presenti nella zona.
Sull’altro fronte interessi contrapposti a quelli suddetti si sono coalizzati. Prima di tutto quello russo attivo su più fronti; il mantenimento del controllo su l’area confinante al proprio territorio, primo perché quella più ricca dal punto vista minerario e poi per la massiccia industrializzazione della zona, frutto degli investimenti del periodo sovietico e sui suoi prodotti importanti per l’economia russa; poi perché la regione ha una enorme
valenza dal punto di vista militare per tre motivi: l’eventuale ingresso dell’Ucraina nella NATO porterebbe quest’ultima al confine russo; l’apparato industriale del Donbas e per larga parte dedicato alle forniture militari per l’armamento russo; infine in Crimea esiste la base navale della marina militare russa nel Mar Nero. Agli interessi russi sono legate la classi agiate dell’area che del commercio con la Federazione russa vivono e che
non potrebbero sviluppare gli stessi interessi con l’UE. Massa di manovra di questi interessi sono le popolazione russofone che temono la perdita della propria identità linguistica ed i lavoratori industriali che sanno che la perdita della partnership con i russi potrebbe significare la non convertibilità delle produzioni delle proprie fabbriche ai fabbisogni del mercato europeo, con conseguente loro chiusura e perdita del posto di lavoro.
Ne possiamo dedurre che gli interessi delle popolazioni coinvolte sono manipolati a favore di interessi che le sovrastano e che quindi esse si trovano a ingaggiare una battaglia che le vedrà comunque perdenti, oltre che costare loro molte vite. Sempre quando si sviluppano lotte nazionalistiche, da queste traggono vantaggio le borghesie nazionali, mentre il conto viene pagato dalle classi subalterne.
Gli uomini dovrebbero imparare a capire che non è necessario combattere il diverso per preservare la propria identità, ma che quest’ultima si può mantenere meglio, più proficuamente e meno dolorosamente in accordo con chi sta loro accanto e che ha eguale diritto a conservare la propria lingua, le propria cultura, le proprie abitudini, le proprie tradizioni, purché esse siano rispettose dell’umana dignità. Occorre bandire gli
scontri fratricidi, che avvantaggiano coloro che li fomentano e non vi partecipano; occorre cercare accordi dal basso che siano rispettosi dei diritti di ognuno. Alle divisioni si deve contrapporre la costruzione di una federazione sempre più ampia di popolazioni, ognuna con il proprio stile di vita, basata sul reciproco rispetto e sulla mutua solidarietà. La pace non si può basare sugli accordi di vertice, stipulati quando serve, disattesi appena possibile, ma solo sulla costruzione di una società libera ed egualitaria in cui l’altro non sia visto come un nemico che ci minaccia, ma come un fratello da cui forse possiamo sempre imparare qualcosa.

Centro Studi dell’UCAdI