L’isola(mento)

Il 31 gennaio il divorzio è diventato effettivo. Certo ci sono ancora da regolare le condizioni economiche e giuridiche della fine dell’Unione, i diritti doganali e di commercio, da stabilire lo status giuridico dei cittadini europei in Gran Bretagna e di quelli inglesi nell’Unione, ma soprattutto c’è da capire se esisterà ancora il Regno Unito. Certo la Brexit si porta con se il ritorno in auge dei “coloniali” e la Gran Bretagna si sente attratta nell’abbraccio della comunità anglofona e diventa di fatto una provincia
di Stati Uniti, Canada, Australia Nuova Zelanda e Sud Africa. Il problema è se tutto il Paese è disponibile ad andare in questa direzione.

Interessi economici e identità culturale

Recidere i legami giuridici ed economici con l’Unione Europea non sarà facile per la Gran Bretagna e questo non solo per l’interdipendenza tra gli ordinamenti in un mondo ormai globalizzato ma anche a causa dei rapporti strutturali economici che legano la Gran Bretagna al mercato continentale. Per quanto riguarda i diversi settori ci sono infatti rapporti di interdipendenza e di divisione del lavoro che vanno tutti rivisitati, Altrettanto complessi i rapporti finanziari con la piazza di Londra anche se da tempo molte attività si sono spostate verso Francoforte e Milano. Ma la frattura più
gravida di conseguenze rischia di avvenire su un terreno che gli inglesi non hanno calcolato e che forse non avrà effetti immediati, ma certamente inciderà in prospettiva: il piano della cultura e della lingua.
Al declino imperiale inglese è sopravvissuta durante i due secoli precedenti l’uso della lingua come strumento veicolare delle comunicazioni diplomatiche a livello planetario. Ora nessuno tra i paesi dell’Europa dei 27 ha come propria lingua ufficiale l’inglese e se questa lingua rimane lo strumento di comunicazione per eccellenza non si può
pensare che ancora per lungo tempo le lingue continentali non si impongano almeno a livello istituzionale e negli atti ufficiali. Così quella che rimane una delle aree più economicamente sviluppate del pianeta esce dalla comunicazione ufficiale anglofona per approdare verso alte lingue come soprattutto lo spagnolo che si impone per diffusione internazionale e già rivaleggiava con l’inglese, senza contare i nazionalismi. Inoltre il mondo della cultura e della formazione si separa da quello inglese e un grande futuro aspetta le culture nazionali del resto d’Europa nella comunicazione culturale.
La società si ripiega su se stessa e non è difficile che divengano realistici scenari che ora ci sembrano non percorribili e irrealistici. Il rinchiudersi della cultura anglosassone nel recinto dell’anglofonia certamente e comunque ne restringe le dimensioni e la potata internazionale, anche a causa del legame tra economia lingua e cultura. D’altra parte la stessa Gran Bretagna è destinata a ridimensionarsi nell’alveo stessa dell’anglofonia dove assurgono in posizione dominante ”i coloniali” e se l’Ulster, come è probabile dovesse chiedere un referendum per la separazione non è improbabile che questa volta anche i protestanti del Nord Irlanda per ragioni meramente economiche sceglierebbero di abbandonare l’unione con la corona, la quale peraltro, appare indebolita nel suo prestigio, mentre la sua sovrana si avvia a un inevitabile abbandono dopo ben 68 anni di regno.

Il Regno Disunito; l’Uster

Le avvisaglie di questo processo cominciano ad essere leggibili già oggi guardando al risultato delle elezioni irlandesi, paese saldamente appartenente alla U. E. la cui lingua ufficiale è bene ricordarlo è il gaelico. Per la prima volta a vincere in posizione pressoché equidistante) sono tre partiti: il Finn Fein, ex organo politico dell’Irish Republican Army (Ira) durante i Troubles e tra i principali promotori della riunificazione con l’Ulsterhe ha il 24,5% dei voti, il miglior risultato della sua storia che gli garantirebbe 29 seggi. Segue al secondo posto con il 22,2% dei consensi il partito di centrodestra Fine Gael del premier uscente Leo Varadkar ed il partito di opposizione Fianna Fail. Così ai due partiti di destra sostenitori dell’unificazione del paese con l’Irlanda del Nord si aggiunge il Sin Fein, molto forte nell’Ulster britannico, che ha fatto incetta di voti soprattutto tra i giovani, sensibili a istanze sociali come il problema delle abitazioni,
la distribuzione della ricchezza e nella sostanza adottando un programma alla Corbyn.
Anche se probabilmente il governo verrà formato dai due partiti conservatori e fortemente europeisti, certo il peso delle forze che in Irlanda, come nell’Ulster, chiedono l’unificazione dell’isola cresce notevolmente, non più tenuto a freno dalla comune adesione alla U. E. delle due aree del paese. A spingere in questa direzione l’irrisolto problema delle dogane e la convenienza economica e politica a spostare i confini della U.E. sulle coste dell’Isola, tagliando fuori finalmente l’Ulster dal Regno Unito.

La deriva scozzese

A costituire il Regno Unito sono, come è noto, quattro nazioni (Inghilterra, Irlanda del Nord, Scozia e Galles).
Altrettanto, se non più estranea, al Regno unito è la Scozia, la quale ha votato in massa per il remain nel 2016 e a favore dello Scottish National Party nelle elezioni di dicembre per rendere la Scozia finalmente indipendente da Londra e riportarla in Europa. Le elezioni vinte da Boris Johnson sono state per lui un disastro in Scozia e a riprova di ciò il 31 gennaio 2020 è stato celebrato ad Edimburgo da migliaia di scozzesi che si sono riuniti in piazza avvolti in bandiere europee per una veglia che aveva più il sapore di un lutto, con tanto di occhi lucidi e lacrime. Mentre i politici locali invitano tutti a mantenere la calma, consapevoli che gli scozzesi pagano le conseguenze di scelte non loro cercano di trovare una via d’uscita per ripetere il referendum del 2014 che ha visto la vittoria del “No” con il 55,30%.
Ma mentre allora l’appartenenza del Regno Unito all’U. E. giocò contro gli indipendentisti per l’evidente ragione delle grandi difficoltà di mantenere la Scozia all’interno della U. E. come stato indipendente ora l’effetto sarebbe esattamente il contrario.: Vi sono ragioni economiche e soprattutto la rivendicazione scozzese dell’esclusivo sfruttamento del petrolio del Mare del Nord a sostenere la richiesta di indipendenza. Ne è ben consapevole Boris Johnson, che il 31 gennaio in occasione della Brexit ha voluto ricordare che “adesso è il momento di riunire il paese e portarlo verso una nuova alba”. Per poterlo fare confida di introdurre la Scozia nel circuito virtuoso dell’anglofonia intesa come area economica privilegiata.
La debolezza di tutto l’impianto Johmsoniano si scontra con la struttura stessa dell’economia scozzese che dopo la dismissione dell’industria pesante e estrattiva e il ridimensionamento dei cantieri navali dal 1980 è stata caratterizzata dalla grande espansione della cosiddetta Silicon Glen, tra Glasgow e Edimburgo, dove si insediarono molte grosse aziende operanti nell’informatica e nei settori tecnologici in genere. Oggi Edimburgo (414.192 abitanti) è il principale centro finanziario scozzese e il sesto in Europa e vi operano gruppi finanziari come la Royal Bank of Scotland (la seconda banca europea), la HBOS (proprietaria della Bank of Scotland) e la Standard Life, mentre Glasgow (616.123 abitanti) è il principale porto scozzese e il quarto centro industriale del Regno Unito, dal quale provengono oltre il 60% dei prodotti industriali esportati dalla Scozia. I cantieri navali, anche se con dimensioni decisamente ridotte rispetto ai massimi toccati all’inizio del XX secolo, formano ancora la base produttiva dell’industria cittadina. Glasgow inoltre è anche il principale centro scozzese per il commercio al dettaglio, oltre che uno dei primi venti centri finanziari europei e sede di molte importanti società.
Tuttavia il centro più importante è la città di Aberdeen (216.662 abitanti, la capitale europea del petrolio, che è il centro dell’industria petrolifera basata sui giacimenti trovati sotto il fondo del mare del Nord. Non vanno dimenticate l’industria tessile, la chimica, la distillazione di whisky, la produzione di birra, la pesca e il turismo.
Drammatica invece la distribuzione della proprietà della terra concentrata in poche mani (circa 350 persone sono proprietarie di circa metà del territorio). Dal 2003 il Parlamento scozzese per porvi rimedio ha approvato un Land Reform Act che consente ai coltivatori diretti e alle comunità locali di comprare la terra, anche contro la volontà del proprietario.
Da segnalare infine che le tre banche scozzesi (Bank of Scotland, Royal Bank of Scotland e Clydesdale Bank) hanno il potere di emettere banconote che non hanno corso legale in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, ma sono liberamente scambiabili con quelle emesse dalla Banca d’Inghilterra.

Verso nuovi equilibri

La scelta inglese di puntare a una integrazione economica all’interno dell’area più tipicamente anglosassone restringe i margini operativi dell’economia del paese. La piazza finanziaria di Londra, in particolare non può più costituire una base operativa per l’Europa e perciò il Regno – probabilmente ridotto all’Inghilterra e al Galles 8chr in futuro potrebbe farsi tentare di legarsi agli altri paesi di cultura e tradizione gaelica) – finirà per essere una propaggine di Stati Uniti e Canada, una provincia marginalizzata alla periferia dell’impero americano.
Sembra averlo ben capito il ramo cadetto della famiglia reale che ha trasferito la propria residenza in Canada, ben consapevole dello spostamento dell’asse centrale dell’economia e dello sviluppo del paese.
Gianni Cimbalo