Perdere salute e assistenza, perdere principi

Il sistema sanitario italiano istituito con la 833 del 1978, entrata in vigore nel gennaio 1979, pur con svariate e consistenti modifiche operate negli anni anche attraverso i processi di regionalizzazione, aveva mantenuto, almeno in Toscana, fino a qualche anno fa caratteristiche di buon livello nel rapporto costo/prestazioni, rispettando nell’essenza la norma costituzionale della “…salute come interesse della repubblica…,” declinata nell’istituzione di un sistema sanitario ad impronta universalistica riassumibile, in termini tendenziali, nell’assunto di “la migliore assistenza sanitaria possibile a chiunque ne avesse bisogno, sul territorio italiano”.

La progressiva crescita del livello di prestazioni sanitarie, dal momento dell’istituzione, pur pagando il prezzo di una minore attenzione alle funzioni di prevenzione e di riabilitazione, attestava gli indicatori di efficienza del nostro servizio sanitario nazionale ai primi livelli nel ranking mondiale (appena sotto la Francia) con livelli di spesa complessiva che ci posizionavano invece a livello dei paesi latino-americani (5-6% del PIL).

Questa poco italica efficienza deriva da alcune specifiche condizioni: i servizi sanitari hanno intrinsecamente un tasso di incidenza del lavoro per unità di prodotto assai più alto di altri settori produttivi e gran parte dell’efficienza risultante era quindi direttamente legata ad un costo relativamente basso della manodopera altamente qualificata operante nel sistema; a questo si associa nello specifico ambito sanitario il fatto che la funzione committente, cioè chi formula la “domanda sanitaria” , è ristretta ai medici del SSN dipendenti o convenzionati che siano. Il sistema quindi disaccoppiava i fruitori ultimi del servizio – i pazienti – dalla formazione della domanda, ciò limitava di fatto la possibilità di instaurare un regime promozionale di concorrenza, capace di stimolare al rialzo i “consumi sanitari”.

Questo “particolare” non sfuggiva all’osservazione del WTO che si lamentava con il governo italiano del fatto che l’Italia sostanzialmente sottraeva al “libero mercato “ dei beni e servizi sanitari, un 5-7 % del PIL, che era poi il gai che separava, e tuttora separa, la nostra spesa sanitaria nazionale da quella degli altri paesi industrializzati.

A caratterizzare ulteriormente in nostro apparato sanitario, vi è un’altra condizione particolare, costituita dalla distribuzione dei costi sanitari nell’ambito della popolazione. Le differenti modalità di contribuzione per assistenza sanitaria, in epoca pre-riforma in capo agli enti mutualistici, sostenute principalmente dal prelievo in busta paga dei lavoratori dipendenti, con l’entrata in vigore della 833/78, venivano convogliate nella fiscalità generale, uscendo poi dalle casse del Tesoro nella misura di quota capitaria assegnata alle singole regioni, sganciando di fatto i “pagatori “ dai “ beneficiari”.

Questo passaggio fondamentale nell’istituzione del SSN si fondava sul concetto di sanità universalista e trovava la sua giustificazione nel principio che il bene salute esulava dal rapporto economico e, rappresentando uno dei diritti fondamentali della persona, doveva essere garantito indipendentemente dal capacità contributiva. Diversamente, lo scaricare tale peso solo sulle spalle dei lavoratori dipendenti non avrebbe trovato alcuna giustificazione.

Questa impostazione, molto anni Settanta, non era economicamente soddisfacente da diversi punti di vista:

  • la spesa aumentava con i livelli di inflazione (l’aumento intrinseco dei costi dei nuovi prodotti), ma gli introiti aumentavano solo se aumentava la base contributiva,

  • la quota maggiore della spesa era rappresentata dalle spese di manodopera e la quota rappresentata dai consumi di sistema (leggi farmaci e servizi) costituiva una voce prevalentemente negativa della bilancia dei pagamenti. La maggior parte dei farmaci proveniva da ricerca e commercializzazione estera e fu infatti inventato per un periodo il sistema del co-marketing obbligatorio per le nuove molecole immesse sul mercato, fino a che il processo di aggregazione sovranazionale dell’industria chimica non ha letteralmente “inghiottito” quel poco di industria farmaceutica nazionale rimasta.

  • le aree del paese prive di una rete sanitaria non riuscivano a farla decollare originando il fenomeno del “pellegrinaggio sanitario” e lasciando terreno ad un “privato” localistico e in gran parte “ selvaggio”.

  • gli investimenti pesavano direttamente a bilancio degli enti locali, immobilizzati dai costi di gestione degli immobili (per la gran parte ereditati dal sistema mutualistico e dagli enti religiosi) che assorbivano le risorse destinabili a investimenti strutturali.

L’atteggiamento della politica verso il sistema comincia quindi a cambiare e vengono introdotti numerosi meccanismi, in prevalenza di carattere burocratico, che mirano a contenere la domanda: nasce la teoria del falsi bisogni; si dissocia la spesa assistenziale da quella sanitaria vera e propria; si centralizzano i sistemi di approvvigionamento nelle ESTAV; si aumenta il peso della medicina di base in funzione di controllo della domanda (nascono i distretti sulla mitica centralità della medicina di base).

Quello che tuttavia rimaneva il nodo centrale era ed è l’enorme quantità di denaro che muove complessivamente la sanità e che non sembra capace di generare nuovi profitti, dato che il prodotto “migliore salute della popolazione” non corrisponde a nessuna voce di bilancio definita. E’ pur vero che ogni malattia o perdita di salute, può essere convertita in un costo economico per la società, ma se tale costo pesa solo sulle tasche di chi subisce la malattia alla fine non esiste.

Segue quindi un periodo di rielaborazione nel quale si matura la convinzione che è proprio il principio universalista il peccato originale e prende corpo la necessità di “smontare” il servizio sanitario così come lo si è percepito fino a questo momento, del resto la Thatcher lo aveva già abbondantemente fatto in Inghilterra. Si inizia con una campagna sistematica di denigrazione del sistema sanitario, con la tecnica dello “sbatti il mostro in prima pagina”, amplificando con opportune casse di risonanza gli errori medici o di sistema che si verificano, creando un clima di apprensione fra gli operatori e rivendicativo nei pazienti. Insieme vengono introdotti i concetti di azienda sanitaria e di cliente del servizio sanitario, con i seguenti corollari: primo il cliente ha sempre ragione e secondo l’azienda deve esse in attivo. Questo legame viene sancito con una nuova attenzione al sistema dei DRG (sistema di pagamento delle prestazioni sanitarie per diagnosi, indipendente dai costi sostenuti per raggiungere la diagnosi stessa, inventato dalle assicurazioni americane per rimborsare/remunerare gli erogatori privati di servizi sanitari) che quantifica in termini economici le diagnosi classificandole nei fatti come “convenienti” o “non convenienti” in rapporto al prezzo spuntato.

L’effetto più eclatante del clima sfiduciato e rivendicativo che si viene a creare è la nascita della “medicina difensiva” che porta ad un aumento quasi esponenziale della medicina strumentale e specialistica, le quali sono più “protette” rispetto alle rivendicazioni. Contemporaneamente si va verso una deresponsabilizzazione della medicina di base nella presa in carico della persona malata nel suo insieme, delegittimando nei fatti il concetto di salute come espresso nella carta dei diritti dell’uomo e smentendo i precedenti assiomi sulla centralità del medico di base. L’indebolimento così generato del ruolo medico, porta all’apertura di nuovi spazi di potere burocratico che si esprimeranno nel proliferare di normative, regolamenti, procedure e simili che non apportano ad alcun beneficio reale in termini di “care”, ma aumentano invece le barriere nel rapporto fra medico e paziente, inquinando l’essenziale natura umana dello stesso, riducendone sempre più la componente “relazionale” a vantaggio della “concessione di benefit”.

Contestualmente anche sotto l’impulso della crisi economica, ma non solo, inizia una campagna di tagli lineari sempre più rilevanti, che nella sanità ospedaliera sono fondamentalmente rappresentati dal blocco del turnover, dall’esternalizzazione dei servizi accessori, dalla compressione dei posti letto ospedalieri. La parziale contrazione del “consumo sanitario” tuttavia raggiunge ben presto un plateau al di sotto del quale sembra difficile scendere senza assumere decisioni drastiche politicamente insostenibili. Malgrado le ESTAV e la centralizzazione dei meccanismi appaltanti, rimane quindi insoluto il problema primigenio quello della “valorizzazione” del fondo sanitario, cioè far girare la massa di soldi impiegati in modo da generare profitti. Viene quindi in soccorso il sistema paramafioso di berlusconiana memoria del project-financing, in Toscana ad esempio, si progettano così quattro nuovi ospedali regionali dove come pozzi di S. Patrizio saranno convogliati una parte consistente di soldi del fondo sanitario per i prossimi 20 anni; i concessionari infatti dopo aver contribuito con una parte di capitale (qualche volta neanche troppo consistente) alla costruzione, ottengono un diritto ventennale alla fornitura di tutti i servizi accessori (pulizie, lavanderia, pasti, etc.) al prezzo stabilito dal gestore stesso.

Questo sistema se dal punto di vista della mera valorizzazione appare efficiente, tuttavia non copre l’esigenza espansiva del mercato sanitario, che in questo modo rimane nella “asfittica” prospettiva di una committenza essenzialmente medica pubblica. In questo scenario lo sviluppo dirompente del mercato dei parafarmaci e delle terapie “alternative “ o para-qualcosa, dimostra l’esistenza di una domanda potenziale, diversa da quella “ufficiale” generata dal comparto strettamente medico, finanziariamente assai più interessante e indica quindi la “necessità” di “liberare ” la domanda sanitaria da “eccessivo tecnicismo”. Si giustifica così la rinascita di un’area sanitaria di “libero accesso” da parte dell’utilizzatore finale che cresce intorno, rendendole nuova vita, alla medicina privata convenzionata e libero professionale (l’intra-moenia sempre più tutelata e promossa dalle aziende sanitarie, che vi individuano un’ottimale sinergia fra introiti di denaro fresco ed espansione di tale “libera” domanda). In questa dinamica si inseriscono direttamente gli operatori finanziari che con il meccanismo delle assicurazioni integrative drenano anticipatamente una parte della domanda potenziale, spostando sempre più la bilancia verso “ciò che è preferibile, in base alle mie disponibilità”, rispetto a “ciò che è necessario per la mia condizione di salute”.

Il cosiddetto terzo settore (dal volontariato sociale alle pseudo-cooperative sociali) si inserisce a pieno titolo in questa dinamica ed assume un doppio ruolo, reinvestendo sia il frutto della “solidarietà sociale “costituito da volontariato e donazioni, che l’ampio finanziamento pubblico. Da una parte entra nell’offerta di prestazioni specialistiche a più basso costo in regime parzialmente calmierato, dall’altra offre servizi essenziali incomprimibili al posto del SSN, su cui realizza il “profit” del “no profit”, proprio per l’utilizzo di manodopera volontaria. Questo ruolo cuscinetto smorza le asperità di un sistema che tende sempre più a respingere la domanda piuttosto che soddisfarla, rinforzando al contempo il principio gerarchico nella qualità delle prestazioni, se puoi di più paghi il meglio, altrimenti paghi meno e ti accontenti.

Nel progredire della crisi, con la maggiore impellenza di recuperare denaro immediatamente disponibile, il programma di smantellamento del SSN subisce un ulteriore accelerazione, i presidenti delle regioni che vedono il pericolo di perdere una quota importante dell’autonomia economica, fanno inizialmente resistenza, vinta rapidamente nel meccanismo di scambi operato anche con il contributo dei trasferimenti delle competenze provinciali. Le operazioni proseguono quindi spedite a livello nazionale, vedi recente decreto Lorenzin, che pur non modificando sostanzialmente niente in materia di erogabilità, diviene la scusa per paventare sanzioni che giustificheranno futuri rifiuti di prestazioni con lo scopo ed il risultato di dequalificare l’offerta di servizi, indicando sempre più agli utenti “la via maestra” del privato.

Marco Paganini