Il Dragone ed il fanciullo

Mentre divampano le polemiche politiche in quella che fu la più ampia maggioranza parlamentare della storia della Repubblica e l’attenzione mediatica è catalizzata su casette montecarlesi e minorenni marocchine, l’economia percorre inesorabile il proprio sentiero. Si era detto che saremmo usciti più in avanti degli altri paesi dalla crisi; si era detto che il sistema finanziario italiano aveva gli anticorpi per reggere l’urto in modo più
solido di quanto non potessero quelli di paesi più esposti ai veleni statunitensi; si era detto che l’apparato produttivo, fatto in larga parte di medie e piccole imprese, possedeva le doti di flessibilità e di creatività che gli avrebbero consentito di sopravvivere alla temperie con danni molto contenuti; si era detto…
Dopo due anni di farneticazioni il risveglio è quanto mai disastroso e Confindustria lancia nel deserto i propri allarmi. L’Italia sta peggio, molto peggio degli altri e la crisi è lungi dall’essere al suo termine. In realtà non è solo la politica paralizzata, ma anche le strategie economiche sono inesistenti e non solo per l’assenza pentamestrale di un Ministro per lo sviluppo. Nessuno può pensare al proporsi di un’economia anticapitalistica, la sola in grado di sanare una crisi capitalistica, ma pur senza fuoriuscire dall’iniquo sistema che premia i più furbi, molte vie si aprono a chi dovrebbe governare le sorti del sistema economico. Il fatto è che due linee si confrontano, si scontrano, si intralciano a vicenda: quella del Governatore della Banca d’Italia e quella del superministro dell’Economia dalla voce prepuberale.
Partiamo da Tremonti. Il grande economista che sostiene di aver predetto con largo anticipo quello che sarebbe successo, in verità ne ha azzeccate poche. Quando la finanza internazionale impazziva dietro le novità bancarie dei derivati e puntava sui paesi che più conseguentemente seguivano le ricette neoliberiste (privatizzazioni, precarizzazioni, flessibilità, produzione tecnologica immateriale), il nostro eroe forse
contrastava la marea montante? Macché, teorizzava la “finanza creativa”! Invece di prevedere i periodi di vacche magre, allargava il debito pubblico fino ad incorrere in una sanzione della UE per eccesso di deficit. Poi è venuta la crisi ed ha palesato tutti i guasti del neoliberismo, la sua incapacità di essere dottrina di riferimento per la gestione dell’economia internazionale, nonché quella inadeguatezza del dio mercato di risolvere magicamente ogni problema congiunturale. Tutti i paesi hanno riscoperto la mano pubblica nella gestione economica, anche se i risultati sono scarsi, perché manca una vera teoria economica in grado di permettere la fuoriuscita dalla bassa congiuntura.
E lui? “Lui “ si è scoperto il più tenace cerbero dei conti pubblici e continua fare tagli, che non possono che deprimere il mercato interno; per di più si è accanito con la scuola e la ricerca, unici investimenti reali sul futuro sviluppo. In altri termini in una fase in cui il monetarismo declina quale prospettiva di governo del sistema economico, il nostro è divenuto monetarista allo stato puro. L’ultima sua funambolica invenzione è la distinzione tra finanza pubblica e finanza privata: cioè, sostiene, è vero che l’Italia ha uno dei debiti pubblici più ingenti del globo industrializzato, ma anche, come si è sempre saputo, una rilevante propensione al risparmio.
Così, con aria saputa, asserisce che la crisi ha avuto origine negli Stati Uniti dal dissesto delle risorse dei privati. Ovviamente in ciò c’è del vero. Il crollo del mercato immobiliare negli USA è derivato dall’alto tasso di indebitamento dei compratori e dal sistema dei mutui facili e senza garanzia, così come l’Argentina crollò per il sistema degli acquisti a rate. Ma come non ricordare che la deindustrializzazione degli anno ottanta e novanta, la costante negatività della bilancia commerciale statunitense negli ultimi trent’anni, la dipendenza dalle importazione che ne conseguiva, il continuo scivolare del numero dei posti di lavoro stabili a favore di quelli precari nei servizi, hanno creato una vasta area di popolazione in continuo depauperamento e quindi
determinato le condizioni dell’insolvenza. E poi è chiaro anche a chi è sempre vissuto nelle nebbie padane che, comprimendo i salari, riducendo i posti di lavoro, impoverendo la classe media, anche la famosa propensione al risparmio degli italiani si avvia ad un triste esaurimento.
Il Governatore Draghi. Tecnocrate di formazione tipicamente monetarista è comunque colto economista e per questo il fiscalista Giulio lo vede come il fumo negli occhi e gli muove una guerra costante ed ottusa.
Cresciuto nei templi della finanza internazionale, comincia a capire che non c’è fuoriuscita in avanti ricorrendo al rigore monetario, fino a proporre il 5 novembre di stabilizzare i precari: il mercato interno va sostenuto se un nuovo ciclo espansivo deve ripartire. Sì perché il bel paese è vissuto finora su di un mercato interno asfittico ed
una grande propensione esportativa, ma costituita di prodotti a medio-basso contenuto tecnologico innovativo, ma la crisi coinvolge il mondo cosiddetto “occidentale”, mentre paesi quali il Brasile e soprattutto la Cina crescono senza limiti: una concorrenza sui settori tradizionali, visti i rispettivi costi della manodopera non è pensabile e così un mercato interno debole ed in declino ed un mercato estero in cui non si regge la concorrenza non forniscono prospettive. Il Governatore pertanto propone come modello la Germania, il paese che più cresce in Europa, che ha giocato la propria ripresa sulla qualità innovativa dei prodotti. E Giulio non capisce e taglia le spese nella ricerca, come non capisce che l’immenso patrimonio artistico e paesaggistico presente nel paese è
un grande e solida risorsa economica e taglia le spese nei beni culturali e le risorse per la tutela ambientale.
Con la grazia di una libellula irrompe in questa disputa un terzo elemento: Marchionne. Il tagliatore di teste, protervo fino al ricatto più esplicito, è portatore di un modello primitivo e privo di respiro strategico, sia sotto il profilo industriale che sotto quello economico. Si vanta di aver risanato la Fiat; in realtà ancora una volta per superare un momento difficile l’azienda torinese ha usufruito di aiuti statali: gli incentivi alla rottamazione, favorito dai vari standard euro0, euro1, etc. Fatto cassa ha avuto una buona intuizione: produrre utilitarie direttamente negli Stati Uniti, rilevando la Chrysler, ormai decotta. Ha avuto incentivi governativi nel momento in cui l’Amministrazione Obama cercava di far fronte alla crisi immettendo sul mercato vetture che consumassero meno. Non ha fatto il ragionamento inverso: il settore delle utilitarie, mercato aperto negli Stati Uniti per un azienda locale, è sottoposto ad una concorrenza spietata nella vecchia Europa ed una riproposizione stanca di modelli stantii ha prodotto un calo delle vendite che è di gran lunga superiore a quello delle altre aziende automobilistiche.
La cosa più drammatica del suo operare è però sul piano delle prospettive economiche. Ricondurre le condizioni di lavoro delle maestranze a livello di quello esistente nell’epoca presindacale, degno di un padrone delle ferriere ottocentesco è quanto meno miope. Ford si rivolterebbe nella tomba a considerare le intenzioni del suo maldestro epigono. Prima di tutto, nonostante la mano libera che insistentemente chiede nella gestione dei rapporti di lavoro, solo chi ha ”lavorato in fabbrica”, come ha asserito di aver fatto senza nemmeno ridere, può pensare di comprimere il costo del lavoro a livelli di quello esistente nei suoi paesi di riferimento (Serbia, Polonia, etc.). Ma poi, se crolla il mercato italiano per la delocalizzazione selvaggia, chi più comprerà le
autovetture prodotte? Non gli italiani che non avranno più i soldi per farlo; né gli operai dei paesi ex-URSS troppo mal pagati per potersi permettere una Fiat, anche di quelle più economiche.
È ben vero che non esiste un capitalismo “buono” ed un capitalismo “cattivo”! Esistono, però, organizzazioni sociali e rapporti di produzione più o meno favorevoli allo sviluppo della lotta di classe e più o meno vivibili per le classi subalterne. Come diceva Luigi Fabbri doppiamo strappare ora e subito quegli spiccioli di benessere possibili, senza illudersi che questi ci possano portare gradualmente e agevolmente al comunismo.

Saverio Craparo