Premetto che, nel momento attuale, le vicende regionali mi appaiono davvero a distanza siderale. Tuttavia, considerando che si tratta sempre di questioni che hanno un certo peso nella vita di ognuno di noi (ovviamente al netto del preponderante vincolo esterno che è ormai diventato una religione e quindi non discutibile) proviamo a fare un minimo ragionamento su quello che ci aspetta nei prossimi giorni.
Mi sovviene anche una piccola, ma interessante parentesi, che riguarda la Toscana. Dopo una lunga, e si suppone non innocua, schermaglia, pressato dal livello nazionale, Eugenio Giani ha assegnato le deleghe ai nuovi assessori.
Questo non solo non ha placato l’ira di una parte del PD Toscano (nella fattispecie quello dell’empolese valdelsa, dove governa probabilmente la parte più ottusa del PD, ammesso che quello sia ancora un partito e non un assemblamento di RAS ognuno in guerra contro l’altro) ma ha riacceso una polemica durissima nei confronti delle scelte di Giani che, a dire dei campionissimi della Valdipesa e Valdelsa (prima Bersaniani, poi Renziani col turbo, poi assolutamente Bonacciniani) non avrebbe rappresentato i mitici
“territori”.
Qualche decina di anni orsono, si usava ancora andare a votare in massa. Votare era semplice, si tracciava un segno sul partito ed, eventualmente, si davano le preferenze. Il sistema proporzionale garantiva che la realtà esterna fosse almeno rappresentata all’interno delle sale della “cosa pubblica” (la vecchia, obsoleta, democrazia rappresentativa). Per votare non era necessaria la laurea in matematica e se qualcuno avesse parlato di “voto disgiunto” sarebbe stato considerato quantomeno uno svitato.
Poi, qualcuno si convinse che le aule di una pubblica amministrazione – a qualunque livello- dovesse essere più simile ad un’azienda che a un luogo dove si esercitavano le “virtù civiche”. Quindi, via il proporzionale, via ai premi di maggioranza, ai “capi” nominano quelli che assomigliavano ormai a CDA più che a consessi pubblici.
Due aspetti caratterizzavano questo cambiamento (che tutto era fuorché disinteressato):
- Il fanatismo tipico dei neofiti, che annusato l’odore dei soldi del libero mercato pensavano che funzionasse davvero come nei libri che avevano letto;
- garantirsi un salto sociale ed economico.
Il battage della stampa a fatto il resto. Sembrava che si fosse vissuti fino a lì sotto Kim Il-sung.
Elezioni dirette, “sindaci d’Italia”, riduzione dei parlamentari, voti di secondo livello, in questi anni abbiamo visto di tutto pur di allontanare gli elettori dalla partecipazione (missione quasi compiuta su cui ormai non si finge neppure un fasullo rincrescimento).
Detto tutto questo, si fa fatica a capire per quale motivo chi ha preso tante preferenze dovrebbe arrabbiarsi se non viene nominato nel CDA. Se si è deciso che le nomine spettano al “capo”, se si è deciso che chi è nel CDA deve dimettersi dall’assemblea, non si capisce cosa c’entri quel ruolo con il numero dei voti presi.
La rappresentanza “territoriale” così declinata pare, più che un rispondere al mandato dagli elettori, un’azione di sostegno e di pressione nel nome delle varie lobby affinché si portino nelle Regioni (e nella parte che conta, quella operativa) le loro istanze di profitto.
Quella rappresentanza sta nelle assemblee e potrebbe stare anche nel governo se la religione dell’efficienza aziendalista non avesse separato i due aspetti, nel nome di una “democrazia” post-democratica che riduce il ruolo dei consigli ad una specie di ufficio controllo qualità”. Come se le scelte politiche potessero essere camuffate sotto una polvere (bianca?) di inesistente oggettività.
Quindi di che si lamentano gli ex-compagni della periferia fiorentina?
Torniamo alle Regioni con un’altra pezza di carattere generale
Appare evidente che l’istituto regionale, nato “con le migliori intenzioni” abbia dato, per usare un eufemismo, pessimi risultati. Più che un elemento di decentramento o, addirittura di “federalismo”, la regione è diventata un decentramento del centralismo, sommando in sé i peggior aspetti di entrambi. Dal punto di vista degli appetiti finanziari, essendo più vicina agli interessi della classe dominante, dal punto di vista democratico, attraverso leggi che hanno di fatto trasformato le Regioni (come i comuni) in una riedizione aggiornata dei regimi podestarili. La riforma sfascia-Stato, che riscrisse l’art. 5 le ha poi trasformate in feudi che gestiscono enormi risorse legate ad aspetti fondamentali della vita dei cittadini. Tutto questo condito da un personalismo che è davvero la pietra tombale sul reale significato della partecipazione in una democrazia rappresentativa.
Probabilmente più che chiudere le provincie (per via amministrativa, come è stato fatto, ovvero una specie di “golpe bianco”) sarebbe stato necessario eliminare le Regioni.
Se puntiamo di nuovo lo sguardo sulle elezioni in corso nelle varie Regioni, a me pare che salti all’occhio innanzitutto un duplice aspetto (che probabilmente è legato anche a quanto scritto fin qui) ovvero il totale disinteresse dei cittadini e un profilo bassissimo non solo da parte dei media, ma anche dei politici.
Dove si vince si rivendicano alleanze forse buone anche per il livello nazionale, dove si perde non se ne parla nemmeno. A dimostrazione che queste più che elezioni sono ormai vere e proprie spartizioni dei territori dove meno gente va a votare e meglio è. L’ideologia è una sola. Il resto sono cazzate come l’assessorato alle felicità e se in qualche area del paese le cose funzionano meglio di altre è merito di eredità positive impropriamente rivendicate.
A sinistra, una sinistra ormai totalmente incapace di fare una minima opposizione a livello nazionale, si cerca ancora di muoversi dentro un campo largo privo di qualunque aspetto appetibile. Ma come si fa ad imbarcare ancora personaggi come Renzi e Calenda? (che hanno risultati elettorali ridicoli, ma sono sovradimensionati nei media a causa degli interessi che rappresentano). Alleanze tattiche che dovrebbero essere strategiche ma senza disegno alcuno. Tutti contro tutti e con un PD dove la farsa dei “lunghi coltelli” è rappresentata tutti i giorni.
L’Italia di oggi pare tornata nell’800, con una divisione fra nord e sud che si ripresenta con caratteristiche che si pensavano superate ma che l’enorme dose di iperliberismo ha completamente resuscitato. Il federalismo regionale terminerà il lavoro.
Intanto in Veneto, Campania e Puglia Nessun diluvio o “cambiamenti epocali”.
Nelle puntate precedenti, l’unica novità di rilevo era stata la candidatura di Tridico in Calabria, l’ultimo e unico presidente dell’INPS che aveva cercato perlomeno di impostare un ragionamento anticiclico. Impossibile per lui vincere, fosse il campo largo o stretto.
In Campania il recalcitrante De Luca che, avrebbe voluto il 3° mandato ha approntato una lista pro modo suo figlio. In Veneto, abbiamo il feudo leghista ,ma soprattutto feudo di Zaia, la partita è stata più o meno confermata.
Insomma, rispetto alle questioni nazionali e internazionali cogentissime, queste tornate elettorali fanno emergere soprattutto una stagnazione deprimente ed un allentamento sempre più marcato dei cittadini nei confronti del voto.
Come avrebbe detto il Renzi “fatevene una ragione” o meglio una Regione.
Andrea Bellucci