È questo il numero che misura il grado di civiltà dell’Italia. Non è un codice identificativo né il risultato di un calcolo matematico: sono 1.090 persone che nel 2024 sono morte lavorando. Uccise non dal destino, ma da cadute dall’alto, schiacciamenti, folgorazioni, spesso aggravate dalla mancata applicazione delle misure di sicurezza, dall’eccessiva stanchezza o dall’inadeguatezza degli ambienti di lavoro. Un numero che segna l’aumento del 4,7% rispetto all’anno precedente e tutto questo in un Paese che si definisce moderno, europeo, democratico. Il 2025, prossimo alla conclusione, non offre nulla di diverso: da gennaio a settembre si contano 784 vittime, contro i 776 decessi registrati nello stesso periodo del 2024. E anche nei mesi successivi sino ai primi giorni di novembre, altri nomi si sono aggiunti a quell’elenco infinito che chiamiamo ipocritamente morti bianche per evitare di chiamarli omicidi sul lavoro.
A guidare la classifica del dolore è sempre il settore delle costruzioni, seguito dalle attività manifatturiere, dai trasporti, magazzinaggio e commercio, insieme rappresentano oltre il 50% del totale dei decessi. Numeri che parlano di vite spezzate, di famiglie colpite, che nell’immediatezza dell’accadimento toccano il sentimento collettivo popolare e diventano strumenti di discussione pubblica, suscitando emozioni intense e accendono il dibattito politico.
Raccontano di un ragazzo precipitato da un silos di dieci metri in provincia di Rovigo. Rivelano la tragica sorte di un operaio morto a Roma dopo essere rimasto intrappolato per quasi un intero giorno sotto le macerie del crollo della Torre dei Conti ai Fori Imperiali. Descrivono tre uomini, che in un’afosa giornata di luglio a Napoli, muoiono precipitando dal montacarichi di un’impalcatura mobile mentre lavoravano alla manutenzione del tetto di un palazzo di 7 piani. Descrivono la tragica fine di due lavoratori, che il 23 giugno, rimangono schiacciati da una lastra in Lombardia. E di tante altre storie simili a queste, che durano il tempo di un titolo di giornale.
Ogni volta, la sceneggiatura è la stessa. Cordoglio, fiori, tweet di indignazione, frasi fatte: ‘’Morire sul lavoro è un oltraggio alla civiltà’’, ‘’Non si può perdere la vita lavorando’’. Poi cala il silenzio. Fino alla prossima tragedia. Un rituale della falsità nazionale, che si ripete identico da decenni. Le istituzioni si commuovono, promettono sicurezza, convocano tavoli, ma dimenticano l’essenziale: nei cantieri italiani l’età media è 47 anni. Trascurano che la mortalità più alta colpisce gli ultrasessantacinquenni, seguiti dai lavoratori tra i 55 e i 64 anni. Fingono di non vedere che uomini di quell’età dovrebbero essere in pensione, non aggrappati a un’impalcatura a venti metri d’altezza, con il corpo stanco e le mani tremanti. Sono uomini che hanno cominciato a lavorare a quindici, sedici anni. Hanno passato una vita intera tra ponteggi, ferri, cemento e vento. Hanno costruito case, strade, scuole, ponti. Eppure, a sessant’anni, sono ancora lì,
arrampicati sui tubi innocenti, con il freddo che taglia la pelle d’inverno e il caldo che brucia d’estate.
Per loro, l’età pensionabile resta 67 anni, come per chi lavora in ufficio, seduto davanti a un computer. Solo la ridottissima fascia di lavoratori costantemente impegnati in attività sottoterra, in spazi confinati o in condizioni climatiche estreme – i cosiddetti ‘’lavori usuranti’’ – può accedere alla pensione anticipata. Né possono beneficiare di altre forme di prepensionamento, come APE Sociale, perché difficilmente riescono a dimostrare di avere almeno sei anni continuativi di contributi nell’arco degli ultimi sette. Una trafila burocratica che spesso nega il diritto proprio a chi ne avrebbe più bisogno. E non basta.
A fronte di lavori logoranti, pericolosi, che richiedono forza fisica, attenzione millimetrica e lucidità estrema, i salari restano tra i più bassi d’Europa. Un operaio edile guadagna meno di un impiegato amministrativo, ma ogni giorno mette in gioco la propria vita. La fatica cronica, la stanchezza accumulata, i turni estenuanti aumentano il rischio di errore, e dunque di morte. Chi lavora con la testa ha più diritti di chi lavora con le mani.
Ma è proprio sulle mani di questi uomini che poggia il paese intero. Case, scuole, ponti, fabbriche: tutto ciò che ci circonda è costruito dalla loro fatica. E allora la domanda non è più se l’Italia sia civile, ma quale idea di dignità abbia deciso di accettare. Forse la vera usura non è quella dei corpi nei cantieri, ma quella morale di una nazione che considera il lavoro un rischio personale e non un diritto collettivo. E finché la morte di un operaio resterà una notizia e non uno scandalo, nessuna riforma, nessuna promessa e nessun fiore potrà chiamarsi giustizia.
Sabrina Barresi