TU CHIAMALE SE VUOI… ELEZIONI

Giani è il nuovo Presidente della Regione Toscana. Era ovvio e non c’è stata neppure tanta esaltazione. A questo giro sono mancati completamente gli allarmi farlocchi dell”arrivano i fascisti” messi in piedi nella scorsa tornata elettorale contro una candidata, Susanna Ceccardi, che definire imbarazzante è dir poco (anche se si becca stipendi a 5 zeri, forse i cretini siamo noi).
La campagna elettorale è stata inesistente, a parte la boutade della Meloni relativa alla “sinistra (quale?) come Hamas”, per il resto l’encefalogramma è stato piatto.
Dal canto suo la destra ha candidato il solito “outsider” destinato alla sconfitta, sacrificato sull’altare di una apparente alterità.
In verità, in Toscana, alla destra non interessa governare. La regione “ex-rossa” ha da oltre 50 anni una solida base di interessi ramificati dentro ogni ganglio della società, eredità della macchina del PCI. Il PCI non esiste più ma questo groviglio non solo è ancora ben presente ma è diventato completamente endemico.
Mi preme chiarire che non c’è alcuna critica moralistica in questa considerazione (anche se, forse, ce ne sarebbe bisogno) e bisogna dare atto alla Toscana di aver mantenuto alcune (seppur traballanti) importanti questioni e posizioni: l’antifascismo (che però, a forza di grattar via l’aspetto dello scontro di classe, rischia di trasformare il fascismo in una specie di bullismo ante-litteram), una qualche considerazione per il sociale, qualche rimasuglio di vecchie attitudini comuniste.
Tuttavia, il nocciolo duro che permette alla Regione Toscana di non essere preda di alternanze è proprio l’identificazione tra il governo e la struttura socio-economica. Cooperative che danno lavoro a migliaia di persone, sistema sindacale strettamente collegato (non c’è più la cinghia di trasmissione. Diciamo che oggi c’è il wi-fi), una base
ancora ampia di persone che, come cantava Gaber “si commuovono alla feste popolari”.
Non è cosa da poco, intendiamoci, l’egemonia si fa in tanti modi e del resto Gramsci è morto nel 1937.
Questa specie di conformismo strutturale (scambiato dai protagonisti per una qualche forma di “alterità”) mi fa anche riflettere su un aspetto che forse, chi legge, considererà scandaloso. Il fascismo toscano fu il più violento ma anche il più pregnante dal punto di vista del “consenso” (con tutte le cautele del caso nell’utilizzo di questa parola). Non voglio certo dire che ci sia stato un passaggio dalla camicia nera a quella rossa (e oggi rosé) anche perché la Toscana è stata davvero culla della resistenza e Firenze si liberò da sola l’11 agosto del 1944.
Voglio proprio dire l’esatto opposto: ovvero che le classi dirigenti e dominanti attuali (seppur memori nelle celebrazioni di quando erano “rosse”) dimostrano una pervasività assai “collosa” assieme ad una visione compiutamente liberista che potremmo affiancare senz’altro al conformismo delle stesse classi durante il ventennio. Certo, per carità, non ci sono violenze, manganelli e olio di ricino e queste classi nulla hanno a che vedere con il fascismo (il quale del resto sarebbe una opzione politicamente improponibile oggi, soprattutto in Toscana, e con le modalità che conosciamo). Ma c’è
un aspetto che potrebbe unire le due sponde così lontane: la rassicurazione verso la classe dominante. Una rassicurazione che passa per, citando un famoso libro, “una certa reciprocità di favori”.[1]
Attenzione la Toscana non è la Sicilia, e questa reciprocità non può transitare (anche se la vicenda del KEU forse non fa apparire più tanto più valida questa considerazione) dal sistema mafioso, ma deve attraversare tutta la complessa, articolata, interlocutoria, galassia dell’associazionismo (da intendersi nel suo significato più ampio).
Si potrebbe obiettare che questa è la forma che, in un panorama capitalistico che appare ormai senza alcuna alternativa, può assumere un rapporto corretto fra la società e il governo. Diciamo, una specie di Giolittismo “popolare”.
Sono d’accordo con questa obiezione, a patto di mettere l’accento sugli scopi “benefici” non avevano certo quello dell’emancipazione delle classi subalterne e il superamento (vade retro!) del sistema socio-economico.
La socialdemocrazia toscana (parola che il PCI rifuggiva come la peste) ha assunto, quindi, peculiari caratteristiche, unendo una qualche forma residuale del vecchio “buongoverno” che fu del PCI, assieme al paternalismo, e una adesione senza remore al sistema del capitale, che pare metterla al riparo da qualunque assalto: da destra (perché le politiche economiche che porta avanti sono tutte dentro il capitale), da sinistra (perché l’antifascismo, è la base politica dell’ideologia, assieme alle battaglie per i diritti civili, a patto che non si mescolino con quelli sociali) dal centro (perché
non si mette in discussione nessun assetto strutturale).
Una formula perfetta che potrebbe essere scalfita solo se le classi dominanti trovassero un altro referente con cui riallacciare nuovi e proficui rapporti. Ma sarebbe conveniente? A che pro rischiare uno scontro sociale per rimettere in discussione un sistema che fino ad oggi pare aver funzionato egregiamente.
Anche qui si potrebbe obiettare, e con ragione, che la partecipazione alle urne di meno della metà egli aventi diritto (in una parte d’Italia che vedeva percentuali ben oltre il 90%) potrebbe essere un segno del disarmo e di una possibile crisi del “modello toscano”.
Questa considerazione non tiene conto di molte variabili:

  1. in primis il fenomeno dell’abbandono delle urne è tipico dei paesi a capitalismo più che maturo. Come se i “cittadini” avessero ormai abdicato a qualunque ruolo di partecipazione politica delegando, di fatto, al governo, ormai totalmente considerato (a torto) come semplice amministrazione, anche di scegliere al proprio posto. Considerare il “non voto” come una qualche specie di “protesta” vorrebbe dire assegnare a questa non scelta un valore politico che a me pare improbabile e assai poco “misurabile” (altro valore in questo senso potrebbero essere le schede nulle) e non credo che la Regione Toscana conti oltre il 50° di anarchici dediti alla sconfessione del voto come arma borghese.
  2. per i partiti oggi esistenti (ovvero una realtà completamente diversa rispetto a pochi decenni or sono) che vada a votare il 70, il 50 o il 10 per cento non fa alcuna differenza. Il tema non solo non viene toccato (basti pensare se la cosa fosse accaduta negli anni ‘70 del secolo scorso) ma l’erosione della partecipazione elettorale è ormai decennale e assolutamente calmierata dalle leggi elettorali che più nulla hanno a che vedere con la democrazia rappresentativa. Anzi potremmo dire che meno gente va a votare e meglio è.
  3. la questione della legge elettorale merita un punto a sé. Se c’è un aspetto che, in questi 30 anni di contro-rivoluzione, ha capovolto il significato stesso della Costituzione Italiana, è certamente quello legato alla seriale modifica delle leggi elettorali nazionali, comunali e poi, con la demolizione dello stesso impianto unitario “picconato” dalla modifica eversiva del Titolo V, di quelle regionali. L’impianto di queste norme ha cancellato il principio partecipativo alla base della Costituzione italiana, privilegiando l’aspetto operativo e quello di governo rispetto alla rappresentanza (che sarebbe poi il senso stesso della nascita dei sistemi costituzionali). Questo è avvenuto dopo la revanche padronale degli anni ‘80 del secolo scorso e il continuo battere sul ferro dell’ “instabilità” come responsabile di tutti i mali del paese. In realtà le cosiddette riforme (anche qui: si è capovolto il senso stesso della parola riformismo) non sono servite per diminuire l’instabilità (ammesso che questa fosse un reale problema) ma per allontanare i cittadini dalla partecipazione e per “rassicurare i mercati” (il vero mantra del trentennio di melma), come auspicato dalla commissione trilaterale fino dagli anni ‘70 [2].
  4. tra le leggi elettorali che si sono distinte per antidemocraticità spicca quella Toscana, dove il sistema di voto è volutamente farraginoso, lo sbarramento volutamente punitivo, e l’assegnazione dei seggi appare segnato da un profondo disprezzo verso la partecipazione. Dove un candidato che prende 70.000 preferenze non ottiene neppure un posto in Consiglio, privando migliaia di cittadini di una pur minima rappresentanza. Certo, con le elezioni non si sono mai fatte le rivoluzioni, ma qui siamo veramente su un altro piano.

Quindi, la mancata partecipazione non è un problema, se non per pochi sopravvissuti, ma può essere persino un’opportunità e chi vince non si dà certo la pena di considerarsi non rappresentativo. Perché lo scopo è vincere, governare, rassicurare le classi dominanti.
Mi accorgo di aver rappresentato un panorama cupo. Non la metterei su questo piano. Ci sono stati periodi anche peggiori e, del resto, i nostri sono obiettivi politici di lunghissimo periodo.
Bisogna però essere consapevoli che l’ipotesi della “post-democrazia”, termine con cui titolava il proprio lavoro Colin Crouch oltre 20 anni orsono,[3] appare oggi quasi compiuta.                                                                                                                        Del resto, le imponenti manifestazioni degli ultimi mesi contro il genocidio di Gaza paiono riportare l’attenzione sulla partecipazione di base (per quanto, come sempre, se a monte di queste non vi sta un progetto politico, la loro durata è strettamente legata a quella dell’evento contro cui si manifesta).
Si dirà: nelle altre regioni è anche peggio, molto peggio, e, alla fine la Toscana si configura comunque come una specie di isola felice in una Italia sempre più a destra, governata e circondata da forze prettamente reazionarie.
Può essere un punto sensato del ragionamento: accontentarsi e aspettare di passare la nottata. Forse quel 52% e passa che non è andato a votare lo ha anche espressamente detto: pensateci voi e svegliatemi quando avete fatto.
Ammesso che si sappia cosa.

Andrea Bellucci

[1] P. Pezzino, Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia postunitaria, Franco Angeli, 1990.                                                                        [2] https://it.wikipedia.org/wiki/La_crisi_della_democrazia._Rapporto_sulla_governabili t,C3%A0_delle_democrazie_alla_Commissione_trilaterale
[3] C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, 2023.