Anche questa volta la Calabria ha confermato una delle sue tristi costanti: la disaffezione politica. Solo quattro calabresi su dieci si sono recati alle urne, un dato che fotografa meglio di ogni sondaggio la distanza tra il popolo e le istituzioni. La rassegnazione sembra ormai un tratto identitario: molti calabresi si sono convinti che il voto non serva più a nulla, e così lasciano campo libero ai soliti noti, ai professionisti della promessa facile e dell’autoreferenzialità. Ma ciò che sorprende di più è che questa minoranza, sempre più ristretta e manipolabile, ha rinnovato la fiducia a Roberto Occhiuto, governatore uscente che si era dimesso dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per corruzione, per poi ricandidarsi senza il minimo imbarazzo e, anzi, con una sicurezza quasi spavalda.
Il voto che ha premiato Occhiuto non è frutto di convinzione ma di clientelismo strutturale, di promesse e favori che rappresentano la vera linfa di un sistema malato. E poi c’è l’eterna illusione del ponte sullo Stretto, agitata come bandiera di progresso e modernità. Ma di quale progresso parliamo, se i collegamenti interni della Calabria sono ancora da terzo mondo? Se i treni regionali arrancano, le strade franano e intere aree restano isolate? Il ponte è diventato il grande alibi politico per non affrontare i problemi reali: un’opera faraonica utile solo a chi dovrà costruirla, non a chi deve ogni giorno spostarsi per lavorare o studiare. Il Ponte, invece, rischia di essere solo l’ennesima promessa utile a tenere in piedi reti di interessi e clientele. Ma fa comodo a molti perché nell’immediato consente di soddisfare l’esigenza di sopravvivenza immediate e al tempo stesso rinforza le clientele nel reclutare posti di lavoro da distribuire ai propri
affiliati.
Il dato più drammatico resta quello della mancata partecipazione, che rappresentano ormai la maggioranza assoluta della popolazione. Un popolo rassegnato, convinto che “sono tutti uguali”, che nulla possa cambiare e che la Calabria sia condannata a essere governata dal malaffare e dall’incapacità.
Va detto, tuttavia, che l’astensionismo non è più un fenomeno esclusivamente calabrese, ma un problema nazionale: da Nord a Sud, sempre più cittadini scelgono di non votare, segno di una crisi profonda di fiducia verso la politica e le istituzioni. In Calabria, però, questa disaffezione assume contorni ancora più gravi, perché si intreccia con un sistema di potere radicato, che prospera proprio sull’apatia e sulla rassegnazione dei cittadini. È una sconfitta culturale prima ancora che politica: l’idea che partecipare anche se delegando non serve a nulla e questo senza assumere alcuna iniziativa in prima persona.
Sul fronte opposto, il centrosinistra non ha saputo incarnare una vera alternativa. La candidatura di Pasquale Tridico, pur autorevole e potenzialmente innovativa, non è riuscita a trasmettere quella scossa necessaria. Le dimissioni dall’Europarlamento sarebbero state un segnale forte di credibilità e impegno totale, ma non sono arrivate. Il
centrosinistra è rimasto disorientato perché prigioniero delle sue contraddizioni: da un lato il desiderio di distinguersi, dall’altro la paura di rompere equilibri interni e perdere consenso. Nel Partito Democratico, l’assenza di una direzione politica forte ha finito per trasformare la cautela in paralisi. Inoltre, la scelta di circondarsi di volti già noti consiglieri regionali che nella passata legislatura si sono distinti per assenza e silenzio ha trasmesso l’immagine di un partito che non sa rinnovarsi. Ancora una volta, ha preferito la continuità all’innovazione, i nomi ai progetti, il compromesso al coraggio.
Il risultato finale parla da sé: Occhiuto è stato rieletto con il 57% dei voti del 40% degli aventi diritto, una percentuale che in termini assoluti rappresenta meno di un quarto della popolazione calabrese attualmente residente.
Eppure, questo basta per governare e continuare a gestire un sistema che da anni produce solo emigrazione, precarietà e sfiducia.
Molta parte della popolazione attualmente residente in regione è composta da migranti: molti di questi, rumeni e moldavi che hanno iniziato la loro presenza con l’attività di badante per sopperire ai bisogni degli anziani dei calabresi emigrati e si sono fatti poi raggiungere dalle famiglie in molti piccoli paesi della Calabria desertificati dall’emigrazione dei giovani.
Eppure la Calabria avrebbe tutte le risorse per cambiare passo. La sanità, ad esempio, resta il simbolo più evidente del fallimento della gestione Occhiuto di cui lo stesso governatore è stato commissario straordinario: ospedali chiusi, pronto soccorso al collasso, liste d’attesa interminabili e una migrazione sanitaria che svuota la regione di milioni di euro ogni anno. I governi regionali e nazionali parlano di “piani di rientro” e “razionalizzazione delle spese”, ma la realtà è che si continua a tagliare dove servirebbe investire, a nominare commissari che rispondono più ai partiti che ai cittadini. La salute, in Calabria, è ormai un privilegio per chi può permettersi di curarsi altrove.
A questo si aggiunge la fuga dei giovani: neolaureati costretti a lasciare la propria terra per trovare un lavoro dignitoso, professionisti che costruiscono altrove il futuro che qui è loro negato.
Eppure, in Calabria esistono eccellenze che dimostrano che un’altra via è possibile: l’Università della Calabria (UNICAL), ad esempio, è un centro d’eccellenza dove ricerca e innovazione funzionano, dove si sperimentano idee e tecnologie di livello europeo. Ma questa ricchezza non viene valorizzata, non diventa sistema, non genera sviluppo. Un ateneo che funziona, dove la ricerca e l’innovazione avanzano nonostante tutto, con giovani ricercatori che portano idee, brevetti e collaborazioni internazionali.
L’UNICAL potrebbe essere il motore di un nuovo sviluppo regionale, un laboratorio di politiche pubbliche e di sperimentazione sociale. Ma la politica, cieca e miope, continua a ignorarla, preferendo l’assistenzialismo al merito, la propaganda all’innovazione. Bisognerebbe invece costruire ponti veri, non di cemento ma di conoscenza, tra l’università, le imprese e il territorio, per trattenere i talenti e trasformare il sapere in opportunità. Proprio da questi luoghi della conoscenza e della creatività, potrebbe nascere la vera rinascita della Calabria.
Perché nonostante tutto, in questa terra ferita ma viva, esiste un capitale umano straordinario: giovani che studiano, innovano, si impegnano nel volontariato, e che troppo spesso sono costretti a partire per cercare altrove ciò che qui viene loro negato. Bisognerebbe avere il coraggio di ascoltarli, di lasciarli fare, di dare fiducia a una generazione che non ha debiti con nessuno se non con la propria coscienza.
La Calabria cambierà solo quando smetterà di delegare la propria speranza a chi la sfrutta. Quando la dignità tornerà a essere più forte del bisogno, quando si scoprirà il valore della cooperazione e si stimoleranno le risorse locali.
Servono scuole e università che formino cittadini liberi, non sudditi; amministratori che sentano il peso della responsabilità pubblica, non il piacere e i guadagni dell’esercizio del potere.
Servono coraggio politico, partecipazione civica e responsabilità collettiva. Servono partiti che tornino a parlare di programmi e non di nomi, di legalità e non di alleanze. Servono cittadini che smettano di delegare e tornino a pretendere.
Solo allora la Calabria potrà smettere di essere un laboratorio di rassegnazione e tornare a essere una terra di dignità e riscatto.
Non sarà un cambiamento immediato, ma ogni cammino inizia da un gesto semplice: dire “basta” all’indifferenza e alla rassegnazione, credere nella possibilità di un destino diverso.
La Calabria ha bisogno di una rivoluzione civile, silenziosa ma inarrestabile, che parta dalle coscienze. Perché solo quando smetteremo di accettare il peggio come inevitabile, il futuro potrà finalmente arrivare anche qui.
Rocco Petrone