Il Paese con il cappio al collo

In contemporanea, mentre il Senato approva in prima lettura la riforma del premierato, la Camera in seduta notturna approva l’introduzione dell’autonomia differenziata, producendo come primo effetto una prima risposta unitaria dell’opposizione in piazza, terzo pollo escluso. Si tratta del tentativo da parte della Presidente del consiglio dall’occhio suino, di mettere al centro del dibattito politico la rifondazione delle istituzioni e della Repubblica, per cancellarne le fondamenta della Repubblica nata dalla Resistenza e che una nuova Repubblica è nata, gestita da un Presidente del consiglio che governa senza bilanciamento di poteri, una democratura all’italiana, unica al mondo. Il cammino della prima riforma è ancora lungo perché saranno necessarie la doppia lettura e la doppia approvazione in un testo conforme, nonché l’approvazione di una legge elettorale maggioritaria di là da venire che assegni un premio di maggioranza al partito del premier, in modo da assicurargli comunque il controllo di un Parlamento depotenziato e deprivato di ogni potere. Succederà così che con un numero sempre minore di voti sarà possibile controllare l’esecutivo e detenere il potere senza alcun controllo e bilanciamento dell’attività di governo. Al tempo stesso la riforma cancella molti poteri del Presidente della Repubblica e produce a cascata l’impoverimento di quelli della Corte costituzionale e di tutti gli altri organi di riequilibrio e di contrappeso, immaginate dal Costituente nel 1947 per assicurare la democraticità dell’ordinamento. Inoltre, trattandosi di una riforma costituzionale, la legge dovrà essere obbligatoriamente sottoposta al referendum confermativo e pertanto sembrano esserci tutte le premesse per scongiurare il pericolo condiviso da ben 190 costituzionalisti che hanno sottoscritto il discorso di Liliana Segre di critica al provvedimento, pronunciato in Senato all’inizio del dibattito. Ma sarà necessario
che le opposizioni unite riescano a mobilitare il paese, la società civile, contro questa svolta autoritaria dirigistica, aprendo un dibattito che coinvolga tutti nella consapevolezza che sono rimessi in discussione i cardini della convivenza.

Lo scambio politico

Mentre il primo step del dibattito sulle riforme istituzionali si consumava davanti al Senato la camera, dopo aver approvato la proposta di riforma della giustizia che tuttavia necessita di ulteriori tappe ha provveduto all’approvazione della legge sull’autonomia differenziata aumenta gli squilibri territoriali, distrugge la solidarietà, mette a rischio l’unità nazionale, accentua gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie. Inoltre la legge con cui vengono fissate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata mina le basi della solidarietà tra le diverse Regioni, l’unità della Repubblica sul territorio. A farne le spese, saranno le persone in difficoltà; si assisterà ad
un l’ulteriore indebolimento del Sistema sanitario nazionale nel suo complesso, si accentueranno le disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute. Questo perché le risorse necessarie a sostenerlo derivano dalla disponibilità finanziaria di ogni Regione e ciò non potrà che incidere sulla qualità del servizio e i tempi e modalità di erogazione. A causa del ridursi delle risorse disponibili diminuiranno le possibilità di sopportare il costo del cosiddetto turismo della salute, le cui dimensioni peraltro cresceranno per il fatto che le Regioni che dispongono di maggiori risorse vedranno migliorare in qualità le prestazioni specialistiche fornite a discapito di quelle regioni che non disporranno delle risorse necessarie a supportare gli investimenti in strutture e assunzioni del personale non solo medico, ma paramedico, con una ricaduta complessiva sulla qualità e quantità dei servizi forniti.
Il sistema delle autonomie, combinato con il principio di sussidiarietà, non a caso inesistente nella Costituzione italiana fino alla famigerata riforma del titolo quinto del 2001, dell’art. 118 Cost. voluta dalla sinistra con un numero risicatissimo di voti, apre spazi ulteriori al mercato nelle prestazioni sociali ed essenziali che fanno parte inalienabile dei
diritti della persona e all’intervento dei privati nell’erogazione di tali servizi, diminuendo e mortificando il ruolo primario ed essenziale che andrebbe assegnato alle strutture pubbliche. A queste evidenti storture del sistema si dichiara di voler porre rimedio attraverso l’introduzione del dei LEP, ovvero di livelli essenziali di prestazione che dovrebbero tener conto «dell’effettiva definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali» che vanno «garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale» in quanto «non c’è sviluppo senza solidarietà, attenzione agli ultimi, valorizzazione delle differenze e corresponsabilità nella promozione del bene comune».

Una riforma fuori dal tempo

L’autonomia differenziata, inizialmente concepita come ipotesi secessionista nell’ambito della trasformazione dell’Italia in Repubblica federale, nasce fuori tempo rispetto al 1991, epoca nella quale fu concepita da Bossi e Miglio.
Allora come oggi il punto di riferimento per le regioni del nord del paese era costituito dall’area economica che gravita intorno alla Baviera e che allora faceva da traino nella gestione dell’economia tedesca in stretta alleanza con il capitalismo renano. Oggi l’egemonia bavarese sulla politica tedesca è in crisi, come è in crisi la Germania, e per
riprendere fiato costruisce in alcune sue componenti un’alleanza con la Sassonia luterana, ipotizzando una futura alleanza tra CSU e AfD (Unione Cristiano-Sociale in Baviera e Allianz fur Deutscheland). È questa la ragione non ultima che spinge la Lega salviniana a collocarsi sull’estrema destra dello schieramento politico in Europa e ad individuare a livello europeo un’interlocuzione con AfD. Di tutto questo il quadro politico intermedio della Lega, i vari Fontana, Zaia, Federica, sembrano non rendersi conto e marciano spediti verso il baratro, lasciando che il leader della loro formazione politica cerchi di raggranellare consensi e profitti procurando lucrosi appalti alle imprese che investiranno nella faraonica
è improbabile realizzazione del ponte sullo stretto di Messina, coltivando rapporti con la mafia del territorio, Più furbescamente il fondatore della Lega sembra avere intuito questo scenario e dalla Lega e dall’autonomia differenziata ha preso le distanze.

Che fare

Che fare ora che l’autonomia differenziata è legge dello Stato: a detta di molti costituzionalisti un referendum abrogativo sarebbe probabilmente inammissibile. Ma anche se così non fosse, probabilmente non si voterebbe prima del 2026. Il negoziato per le intese di autonomia differenziata con singole Regioni può invece partire subito – come già Zaia chiede, – almeno per le materie e/o funzioni non condizionate alla preventiva determinazione di livelli essenziali delle prestazioni (LEP) impossibile da farsi a causa dell’assoluta carenza di risorse.
A questo proposito è il caso di aprire una parentesi: ora che occorrerà applicare il patto di stabilità che il governo si è impegnato a rispettare con l’Unione europea occorrerà reperire per il bilancio del prossimo anno ben 25 miliardi, quindi incide ai quali destinare al rinnovo della riduzione del cuneo fiscale e 10 miliardi di risparmi sul bilancio da reperire rivedendo la distribuzione delle risorse. Con questi chiari di luna e nell’impossibilità di far quadrare i conti ipotizzare l’individuazione di risorse per l’attuazione dell’autonomia differenziata è decisamente impossibile.
Tuttavia vi sono nelle materie in principio devolvibili circa 200 funzioni statali su un totale di 500, che non richiedono finanziamenti e che prescindono dai LEP in quanto non riguardano direttamente livelli di prestazione. Su questi la trattativa sarà nelle mani dei presidenti di regione e del governo. Sarà questa la fase di maggiore rischio per la Repubblica una e indivisibile. Se anche solo una o due regioni riuscissero a mettere le mani sulla scuola, obiettivo molto ambito dal ceto politico regionale si potrebbe produrre un effetto domino che indurrebbe altri governatori a formulare richieste analoghe, a quel punto difficili da rifiutare.

L’opposizione del PD alla prova

Sarebbe però possibile il ricorso in via principale di una o più regioni in Corte costituzionale. Occorre ricordare al Consiglio regionale dell’Emilia Romagna, ancora presieduto da Bonaccini, vicepresidente Schlein è stata presentata una legge di iniziativa popolare, sottoscritta da 6000 cittadini che chiedevano che il Consiglio regionale votasse per il ritiro dell’adesione all’accordo del 2018 sottoscritto dall’Emilia Romagna, accodandosi alle richieste di Lombardia Veneto, formulate dopo un referendum falsa autonomamente indetto, a sostegno dell’iniziativa dei rispettivi Consigli regionali di
chiedere l’apertura della devoluzione su un insieme di materie. Sembra a riguardo che Bonaccini abbia dato la propria disponibilità. Sarebbe, una volta tanto, una manifestazione di lealtà politica, di buon senso ed intelligenza.
D’altra parte in questa direzione spinge la Cgil con l’iniziativa la via maestra che riguardo ha formulato una richiesta in tal senso a tutti i presidenti di regione, invitandoli a presentare quesito di legittimità costituzionale relativo alla legge sull’autonomia differenziata appena approvata. Questa iniziativa non è isolata e si sviluppa insieme alla campagna per i quattro quesiti referendari contro la precarietà sul lavoro, formulati dalla CGIL che dovrebbe portare di fatto all’abrogazione del job Act o almeno di quelle parti di esso che incrementano la precarietà e riducono le tutele relative alla difesa del posto di lavoro e che hanno smantellato il processo del lavoro per come previsto dallo Statuto dei lavoratori,
cancellando ruolo e funzione della legislazione e della magistratura del lavoro.
Occorre che l’opposizione si doti nel suo complesso di un insieme di strumenti in parte legali, in parte istituzionali, ma anche di mobilitazione nelle piazze e sui luoghi di lavoro, in modo da dettare l’agenda della politica ed imporre a Parlamento e governo le proprie soluzioni sulle tematiche che riguardano l’uguaglianza e le tutele, la sanità e i bisogni sociali, i diritti e il welfare, no che siano di sostegno alla povertà e all’emarginazione, che combattano la precarietà del lavoro, il lavoro sottopagato e povero, per conferire ai salari valori reali e al lavoro la necessaria dignità.
Occorre che la sinistra ritrovi la propria unità di fronte alla messa in pericolo dei valori fondanti della convivenza e che proprio a questo fine sciolga in modo chiaro il dilemma relativo alla propria posizione sulla guerra, facendo chiarezza sul radicale rifiuto del conflitto come soluzione delle controversie internazionali. A tal proposito non basta
l’opposizione sacrosanta al conflitto arabo – israeliano attraverso il sostegno di una soluzione che preveda la formazione di due Stati che accettino di convivere, ma occorre una seria presa di distanza da cause ed effetti del conflitto in Ucraina, rispetto al quale va presa coscienza delle ragioni e della natura strumentale di questa guerra, per addivenire ad un gessato il fuoco e a trattative sul futuro assetto di quel territorio che non possono scaturire dalla continua alimentazione della guerra attraverso la fornitura di armi, lasciando che una guerra per procura abbia luogo, con il massacro del popolo ucraino e del popolo russo a tutto beneficio degli interessi economici e commerciali delle potenze extraeuropee.
La crescente povertà dei popoli d’Europa ha bisogno delle risorse ora bruciate dalla guerra perché vengano utilizzate per finanziare il maggior benessere delle popolazioni del continente e azione di solidarietà verso quella parte del mondo più svantaggiata che ha bisogno di sostegno, di aiuto, di benessere.

G.L.