Tra i circa 60 conflitti attualmente in corso nel mondo due di essi catturano l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e soprattutto di quella occidentale: quello ucraino è quello mediorientale. Tuttavia l’atteggiamento dell’opinione pubblica a riguardo è ben diverso: mentre sul primo c’è attenzione mediatica, ma scarsa partecipazione e solidarietà delle opinioni pubbliche a proposito del secondo l’atteggiamento è rovesciato e soprattutto i giovani manifestano la loro protesta per quanto sta avvenendo.
Analisti politici e pennivendoli spiegano questo fenomeno, affermando che a protestare è una minoranza faziosa e antisemita mentre bisognerebbe parlare di antisionismo=nazionalismo ebraico, che è la cattiva coscienza dell’occidente che spinge i giovani, educati alla democrazia e ai suoi valori di libertà e giustizia sociale, a condannare quegli eventi che sono frutto delle malefatte dell’occidente, piuttosto che a vedere il male prodotto dalle forze che le sono avverse: così come forte sarebbe il peso del passato coloniale e della “cattiva coscienza” nel produrre la solidarietà. Tuttavia queste motivazioni non bastano a giustificare e spiegare quanto sta avvenendo.
Una guerra impopolare
La vulgata racconta che la guerra d’Ucraina nasce dall’aggressione da parte della Russia di uno Stato sovrano eppure, malgrado questo, la resistenza dell’Ucraina all’invasore, la causa ucraina non suscita grandi simpatie. È come se l’opinione pubblica avvertisse il marcio in questa narrazione: per cercare di capirne le ragioni occorre soffermare l’attenzione sulle cause e sugli effetti di quanto sta avvenendo.
E allora la memoria storica e le conoscenze dell’opinione pubblica europea, ci ricordano che il conflitto in Ucraina data dal 2014, quando iniziò la guerra civile; si ricordano che la Crimea è storicamente appartenuta alla Russia ed è stata amministrata dall’Ucraina solo dal 1956 al 2014; constatano il danno immediato prodotto dalla guerra sulle loro
condizioni economiche e rilevando il maggior costo di gas e petrolio, si chiedono a quali interessi tutto ciò risponde.
Leggono della corruzione diffusa in Ucraina, della negazione delle libertà civili e religiose e si chiedono quali siano i valori occidentali condivisi, se si omette l’aver cambiato la data di celebrazione del natale ed aspirare a condividere un buon tenore di vita al pari di quello occidentale.
Sotto la spinta dei propri governi i cittadini dell’Ue, accolgono gli ucraini in fuga dal loro paese e dalla guerra, creando per loro un percorso privilegiato rispetto ai tanti altri migranti, (in fondo sono di carnagione chiara e quindi da preferire ai migranti di colore!). Ma poi, riflettendo sui costi del riarmo per permettere all’Ucraina di combattere la guerra
per procura contro la Russia, intravedono i pericoli di un possibile conflitto nucleare. Allora la solidarietà verso l’Ucraina scema, fino a quasi scomparire e rimane appannaggio delle classi dirigenti dei paesi occidentali, impegnati in una politica
di espansione dell’Unione europea, come effetto delle scelte degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, senza vedere i pericoli insiti in questa strategia di allargamento dell’Unione per la coesione stessa dell’Unione, per la sua economia agricola, per
le violazione dei suoi principi costitutivi relativi al rispetto dello Stato di diritto.
La guerra in Palestina
Anche la guerra in Medioriente è, a suo modo, il frutto della cattiva coscienza dell’occidente che, dopo aver voluto e gestito l’olocausto del popolo ebraico, ha deciso di consentire la creazione di uno Stato a spese delle popolazioni palestinesi autoctone coprendo gli obiettivi nazionalisti del sionismo con la vergogna dell’antisemitismo. Nell’ottobre dello scorso anno, da un’aggressione, messa in atto con ferocia da un’organizzazione terroristica che non ha risparmiato.
Né vecchi, né donne, né bambini, è scaturita la risposta di Stato a questa azione che ha prodotto distruzioni immani e ben 37.000 morti, migliaia di mutilati e feriti, la gran parte dei quali bambini, donne e anziani e sta causando oggi fame e miseria indicibili, sofferenze immani, per quasi due milioni di abitanti della Striscia, ridotti alla fame, denutriti, ammalati, assetati, mentre una crudele e feroce repressione viene attuata nei confronti dei palestinesi che vivono in Cisgiordania.
Certo anche in questo caso vi sono evidenti contraddizioni: Hamas, che ha scatenato il massacro del 7 ottobre, è indubbiamente un’organizzazione terroristica; i palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania si battono per dar vita ad un proprio Stato ispirato ai valori dell’islam, che non sono certo rispettosi dei diritti delle donne, della libertà di genere, e di altri valori che l’occidente condivide; e tuttavia la simpatia e la solidarietà nei loro confronti è forte, perché l’orrore per il genocidio messo in atto è grande e comunque ingiustificabile, come è inaccettabile l’apartheid, nella quale
si vuole far vivere gli abitanti autoctoni della Palestina.
Il movimento di protesta è nato ancora una volta nei campus, è un movimento pacifico, che ha come richiesta principale l’interruzione dei rapporti delle università nelle quali essi studiano con quelle israeliane, consapevoli come sono che la prosperità e la stessa sicurezza di Israele dipendono dai rapporti tecnologici e di ricerca che queste
intrattengono con tutto il mondo. Gli studenti e le studentesse sentono le università dove vivono come la propria casa, sanno bene che esse dipendono in larga parte dalle loro altissime quote di iscrizione, almeno in misura altrettanto rilevante rispetto ai finanziamenti dell’industria o dei “benefattori” e, come azionisti di fatto dell’azienda, chiedono di esercitare il loro diritto nell’indirizzarne le attività.
La politica e le autorità accademiche hanno risposto a questa richiesta più che legittima con una repressione massiccia e violenta, di gran lunga maggiore se paragonata a quella utilizzata verso gli assalitori di Capito Hill, manganellando, arrestando, sparando proiettili di gomma con il risultato che Biden rischia di perdere alle prossime elezioni il sostegno del voto dei giovani che nelle elezioni precedenti aveva fatto la differenza assegnandogli la vittoria in molti Stati in bilico tra i due partiti. È l’effetto perverso del sistema elettorale degli Stati uniti dove non ha importanza il totale dei voti assoluti a livello nazionale ma il numero di grandi elettori che Stato per Stato ogni candidato riesce a conquistare.
Con quello che sta avvenendo Biden rischia di perdere il voto della componente ebraica per l’eccessivo o insufficiente aiuto a Israele e comunque quello dell’elettorato di origine-arabo islamica. Ambedue questi segmenti di elettori potrebbero decidere di astenersi con effetti imprevedibili sul risultato finale. È comunque un dato di fatto che più dura il massacro di Gaza più la consapevolezza del movimento cresce e si diffonde.
Nasce un movimento per un mondo nuovo
Nel 1968, il movimento di contestazione crebbe rifiutando la guerra in Vietnam, alla quale i giovani venivano inviati ricorrendo alla coscrizione obbligatoria; poi man mano che la consapevolezza dei tanti problemi cresceva, altre rivendicazioni, altre parole d’ordine, si aggiunsero alle prime richieste e nacquero i movimenti sociali che volevano
cambiare la società, restituendo alle classi meno abbienti potere e controllo sulla propria vita.
Oggi, che si profila una nuova chiamata alle armi generalizzata, nella prospettiva di una guerra possibile, che può sfociare in un conflitto nucleare, partendo dai campus universitari, nasce e si irrobustisce la protesta. Ed è questo che il potere teme perché quando si comincia a fare a sé stessi e gli altri le domande su quello che avviene intorno a noi, si esce dall’individualismo e dall’egoismo e si finisce per chiedere conto di tutto quello che lascia perplessi, che non va. Ci si interroga sul clima e il degrado dell’ambiente che è evidente e sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto sulla crescente
diseguaglianza sociale, su una società dove l’accesso alle cose belle della vita è riservato ad una cerchia sempre più ristretta di persone che vivono e prosperano sullo sfruttamento degli altri, che fanno profitti e banchettano sulla morte dei poveri e degli esclusi, grazie ad ideologie compiacenti e valori compiacenti come la patria, la nazione, la difesa dell’etnia, delle diversità fra uomini e donne dal colore della pelle diversa, tra le persone appartenenti ai differenti ceti sociali. Ci si interroga sulla partecipazione di tutti al governo della cosa pubblica, sull’efficacia dei sistemi elettorali e di rappresentanza, per scoprire che un’oligarchia sembra più ristretta governa le società e il mondo e svolge una funzione di accaparramento di poterli e di beni che semina lutti e rovine, dolore e disperazione.
Quando ciò succede si crea impellente e urgente il bisogno di cambiamenti radicali, di giustizia sociale, di uguaglianza, di libertà dal bisogno e tutto ciò è pericoloso per il potere, e occorre a tutti i costi evitarlo.
È questo il motivo per cui oggi la parola d’ordine dell’establishment, di chi ci governa, di tutti gli Stati è reprimere, reprimere, reprimere.
G. L.