L’opinione pubblica dell’occidente, che si nutre della società dello spettacolo alimentata da costanti novità, in questi giorni si è ripulita la coscienza, conferendo sia il Nobel per la pace che il Premio Sakharov, assegnato dal Parlamento europeo, a due donne iraniane, Narges Mohammadi e Jina Mahsa Amini, la prima un’attivista che difende i diritti civili, la seconda una giovane diciannovenne uccisa dalla polizia immorale del regime, ricordandosi della lotta per la libertà delle donne di quel paese, ma gli Stati europei non fanno nulla a sostegno della loro lotta, anzi molti di essi non hanno alcuna remora nel fare affari con la Repubblica islamica nell’Iran.
Imponendo alle donne di coprirsi i capelli con l’hijab, le si obbliga a rispettare quello che, secondo i Mullah, sarebbe un loro dovere morale, quello di mantenere sotto controllo i loro “istinti peccaminosi” e quelli degli uomini. È noto a tutti che le donne iraniane hanno scelto come simbolo per affermare la loro libertà e il loro diritto all’autogestione della propria vita, di non essere obbligate ad indossare l’hijab. Esse non accettano che il loro corpo venga considerato oggetto di peccato e di doverlo nascondere per mettersi al servizio degli uomini che a loro volta non sarebbero capaci di reprimere i loro aggressivi istinti sessuali. Molti uomini iraniani hanno compreso e condividono il contenuto offensivo di questa concezione dei rapporti uomo-donna
ed affiancano le donne iraniane nella loro lotta.
Ciò che l’Occidente dovrebbe e potrebbe fare non è quello di vietare per legge l’uso dell’ hijab, ma creare con più forza le condizioni di parità per le donne, sostenendole insieme a tutte le altre, attraverso l’accesso dei loro figli agli asili, organizzazione di corsi di alfabetizzazione e acculturazione, soccorrendole come dovrebbe avvenire per tutte le altre donne nei casi di violenze domestiche, mettendo a disposizione e consentendo l’utilizzo delle strutture d’accoglienza, promuovendone l’accesso al lavoro, la disponibilità di alloggi a prezzi accessibili: tutto questo perché la libertà si costruisce di concerto con l’uguaglianza e la liberazione dei bisogni materiali.
Se così si facesse ci accorgeremmo di quanto la rivoluzione iraniana sia parte integrante di una rivoluzione sociale che non è solo rivendicazione di libertà per le donne, ma è richiesta di mutare i rapporti sociali e produttivi di un’intera società, parte integrante dell’eterna lotta di classe tra capitale e lavoro, ed è questo il vero motivo del mancato convinto sostegno alla rivoluzione delle donne e degli uomini dell’Iran.
Agire solo e prevalentemente sul piano della libertà religiosa, semplicemente vietando nei paesi europei l’uso dell’hijab nello spazio pubblico, consente alle componenti musulmane religiose e culturali di potersi atteggiare sotto il profilo del costume e della libertà religiosa come oppresse, il che ha l’effetto di alimentare il vittimismo connesso ai limiti posti all’esercizio della libertà religiosa, che ne viene così rafforzata. La libertà
religiosa va invece garantita, lasciando che le comunità possano far emergere dal loro interno le loro guide di preghiera, a prescindere dall’indicazione di qualsiasi autorità statale fatta dai paesi di provenienza.
Nel momento nel quale riteniamo collettivamente che sia giusta la tutela dei minori, e che in nome di questa sia consentito impedire che essi vengano indotti al matrimonio precoce da parte dei loro genitori, o infibulate in nome di tradizioni tribali, riteniamo doverosa l’istruzione obbligatoria di bambini e bambine e il loro diritto di accedere ai più alti gradi dell’istruzione, la tutela della loro integrità fisica e psichica, e in tutto ciò non vediamo quale violazione della libertà individuale vi sia.
Ne guadagnerebbero in efficacia e concretezza le politiche di integrazione adottate nei diversi paesi con il fine di indurre tutti al rispetto della libertà religiosa di ognuno, come del diritto di non professare culto alcuno, obiettivo ben più complesso che è possibile perseguire e che si può raggiungere solo offrendo gli strumenti per il confronto, la riflessione, l’educazione al dialogo e all’autonomia della persona.
A ben vedere si tratta di percorrere un cammino comune per affrontare costruttivamente la liberazione dalle scorie del paternalismo che permea la visione occidentale di larga parte dei rapporti uomo donna. Da qui la necessità di mettere a punto un percorso comune di riflessione che prescinde e non ha bisogno della nomina di una triade di “esperte” che lo guidin in nome e per conto di un imbelle e pusillanime Ministro dell’Istruzione e del Merito.
Ciò che occorre è l’impegro di tutte e tutti!