L’orrore che scaturisce dall’attacco di Hamas a Israele ci dice che le due parti hanno abolito la distinzione tra popolazione civile e militari e che l’organizzazione islamista si è fatta Stato, realizzando un salto nelle sue capacità offensive. Con questo dato di fatto bisognerà da ora in poi fare i conti: non sarà facile estirpare Hamas da Gaza, come dice di voler fare Netanyahu. D’altra parte, Hamas è un’organizzazione fondamentalista islamica che lo Stato ebraico ha favorito e alimentato pur di delegittimare, ridimensionare e distruggere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, (OLP), di orientamento laico e progressista. Da quando nel 2005 Hamas ha preso il potere a Gaza fino al raid criminale del 7 ottobre 2023 gli israeliani hanno ucciso sul fronte di Gaza circa 7000 palestinesi e sono stati uccisi circa 400 soldati e cittadini di Israele.
Non solo, ma Israele ha condotto una politica di costante repressione, occupazione e colonizzazione forzata della West Bank, ovvero la Cisgiordania, territorio abitato da palestinesi, “occupato da Israele”, a seguito della guerra dei sei giorni del 1976. Il territorio è stato sottoposto alla sovranità israeliana, sostenendo la progressiva espansione di insediamenti ebraici sul suo territorio, supportati da una presenza militare sempre più capillare che ha portato ad arresti, espropriazioni, demolizione di case di palestinesi, istituzione di tribunali militari, anche per i ragazzi dai 14 ai 16 anni.
Secondo i dati forniti da Israele il 96 % di chi è comparso davanti a questi tribunali è stato condannato. Questa situazione ha screditato l’OLP, delegittimandola, e ha reso palesemente impossibile la realizzazione degli accordi di Camp David, firmati dal presidente egiziano Anwar al Sadat e dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin il 17 settembre 1978, che prevedevano la realizzazione entro cinque anni dalla firma, di due Stati, quello Israeliano e quello Palestinese.
Da allora sono passati trent’anni e la situazione dei palestinesi è divenuta sempre più grave. La repressione è costantemente cresciuta e a nulla sono valse le tante intifade indette dai palestinesi in risposta alla stretta repressiva israeliana. La destra israeliana ha avuto modo di sconfessare nei fatti quell’accordo con una politica di occupazione e di espansione sempre maggiore condotta dai coloni ebrei integralisti armati nei territori arabi (più di 800.000 coloni distribuiti in più di 300 insediamenti fortificati), in modo da interrompere la continuità territoriale ed impedire così la formazione di un’entità statale autonoma palestinese.
A far data dal 18 giugno 1996, data di insediamento del primo governo Netanyahu, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania sono costantemente cresciuti, disposti da leggi di esproprio e acquisizione di territorio sempre più vaste con l’obiettivo di radicare la presenza ebraica sul territorio espellendo in ogni modo possibile quella palestinese e araba con una pressione costante. Se, in qualche modo, l’OLP è sopravvissuta nella Cisgiordania occupata, perdendo progressivamente di rappresentatività, più facile è stato per i movimenti islamisti prendere piede nella Striscia di Gaza occupata, dove vivono in una prigione a cielo aperto più di 2.500.000 palestinesi in situazioni di miseria assoluta, di sovraffollamento, di totale dipendenza da Israele, in quanto a fornitura di acqua, energia elettrica, di carburante, di generi alimentari. Con il ritiro da Gaza nel 2006 lo Stato ebraico ha lasciato che la situazione si incancrenisse, facendo finta che
il problema fosse ormai risolto da un muro che conteneva una massa di disperati che nessuno vuole, compresi i paesi arabi che circondano Israele forse illudendosi che malattie, povertà e disperazione avrebbero provveduto nel tempo una massa di persone che continuava a crescere, scavando tunnel e riproducendosi: un campo di concentramento dal quale Israele attingeva manodopera a buon mercato, selezionandola e filtrandola. Tutto ciò ha alimentato l’odio e a creato condivisione rispetto a quanto contenuto nello statuto di Hamas: la distruzione di Israele.
La politica dei due Stati
Bisogna dunque avere l’onestà di ammettere che a non volere la realizzazione dei due Stati sono state ambedue le parti: i palestinesi illudendosi di riuscire a cancellare la presenza israeliana, gli israeliani rinchiudendo i palestinesi nella Striscia di Gaza, facendo di questo territorio, una prigione a cielo aperto, e allo stesso tempo infiltrando e sventrando la Cisgiordania – territorio occupato – con insediamenti strategici di coloni posizionati in modo tale da rendere su quei territori impossibile la formazione di uno Stato omogeneo. Trent’anni di questa politica hanno progressivamente modificato lo stato dei luoghi e l’equilibrio delle forze sul campo e Israele ha puntato sul fattore tempo per volgere la situazione a suo vantaggio. Si può anzi dire, senza poter essere smentiti, che proprio le politiche messe in atto per realizzare questo secondo obiettivo hanno indotto/costretto il Governo israeliano, di fatto dominato dai partiti religiosi, a spostare l’esercito a presidio di questa regione, a svolgervi compiti di repressione e polizia, applicando la legge marziale, ma lasciando sguarnito il confine di Gaza e rendendo quindi possibile l’attacco messo a punto da Hamas. D’altra parte, è proprio questo che i riservisti e gli ambienti militari di Israele rimproverano oggi al governo Netanyahu, ritenendolo responsabile nella prima vera sconfitta storica di Israele dalla sua nascita: basta leggere il commento nel giornale del 7 ottobre dopo i fatti del quotidiano Ha’aretz.
Un’occasione mancata
La politica della creazione dei due Stati non ha oggi alternativa, anche se diviene sempre più irrealistica, perché resa impraticabile. Bisognerebbe infatti che Israele provvedesse a sgomberare dalla Cisgiordania 800.000 coloni rischiando la guerra civile e questo è impensabile ed era questo che i fondamentalisti religiosi volevano ottenere e hanno ottenuto con la compiacente copertura del Governo.
Una soluzione diversa avrebbe potuto essere trovata solo a condizione che nel primo ventennio del secolo, quando inizio la colonizzazione della Palestina ad opera del movimento sionista e si dette vita alla costituzione dei kibbutz i coloni, invece di consentire che solo gli ebrei potessero far parte dell’esperienza del kibbutzim, avessero
ammesso anche le popolazioni arabe a prendere parte dell’esperimento, realizzando una struttura che, proprio per la sua configurazione solidaristica aveva un’altra capacità di integrazione e di educazione alla convivenza.
Il kibbutz è infatti una struttura basata sulla solidarietà nella quale ogni singolo individuo si impegna a lavorare per tutti gli altri, ricevendo in cambio, al posto del denaro, solo i frutti del lavoro comune, evitando così alla collettività di cadere nelle mani di una società consumistica e mercantile. Non è secondario che questa struttura venisse costituita in un’area in cui l’agricoltura era a puri livelli di sussistenza e che, grazie alle tecnologie e ai saperi adottati ed introdotti dai promotori dell’iniziativa, producesse una struttura aziendale caratterizzata da alta produttività, ottenendo un buon risultato economico. L’influenza ideologica nella costruzione di questo modello di organizzazione sociale e produttiva è evidente ed ha le proprie radici nelle realizzazioni comuniste e anarchiche di comuni libertarie che erano sorte negli anni precedenti un po’ ovunque nel mondo, ma soprattutto in America Latina, in territori considerati ai margini del controllo capitalistico, come tentativi di costruzione di un tessuto produttivo e sociale alternativo a quello capitalistico. Queste esperienze erano state ripetutamente, ampiamente riportate e pubblicizzate nei giornali e negli opuscoli di propaganda in
lingua yiddish, prodotti dalla sinistra sociale, al punto da divenire patrimonio comune di intere popolazioni. Nei kibbuz veniva applicata la pedagogia libertaria e i bambini crescevano e crescono ancora insieme perché hanno una maternità e paternità condivisa, sono educati alla solidarietà, si integrano, rappresentano il futuro di una comunità coesa.
Ma così non fu perché all’interno del movimento dei kibbutzim prevalse l’ala liberal/capitalistica e confessionale che impose la discriminante dell’appartenenza etnica-confessionale, ritenuta il cemento necessario di omogeneità e coesione capace di consentire il successo dell’esperimento. Si ritenne che le esperienze comunitarie prima tentate erano fallite proprio a causa dell’eterogeneità e delle diverse ascendenze culturali delle persone che avevano scelto di farne parte. Così dalla struttura i non ebrei vennero esclusi e gli arabi e i cristiani divennero lavoratori salariati, minando in tal
modo le stesse radici ideali della struttura egualitaria, snaturandola. A nostro avviso quello fu il momento nel quale venne realmente meno la possibilità di fare degli abitanti dei territori palestinesi un unico popolo, quale effettivamente esso è.
Da allora le due comunità si allontanarono sempre più e si contrapposero anche perché le loro condizioni economiche e di vita non erano egualitarie.
Il deperimento del sogno di una nuova società
La natura sionista dello Stato nuovo fu il prezzo pagato al movimento sionista internazionale che finanziò l’esperimento. L’apertura all’emigrazione in Israele degli ebrei sopravvissuti all’olocausto costituì il modo per tacitare la cattiva coscienza dei persecutori del popolo ebraico, che per farsi perdonare le colpe della Schoah e l’antisemitismo comune a molti popoli, ne scaricandone il peso sulle popolazioni autoctone di Palestina.
Ripercorreremo in un’altra occasione le tappe della graduale trasformazione di Israele in Stato-nazione, le sue scelte di porsi come avamposto della cultura occidentale in un contesto islamizzato pur di sopravvivere ed imporre la propria presenza, ma è chiaro che proprio la sua diversità spiega il continuo tentativo di distruggerlo, con il risultato che ogni crisi, ogni assalto omologava Israele agli altri Stati e imponeva una politica di potenza.
La progressiva torsione delle istituzioni democratiche e partecipate del paese, imposta da Netanyahu con come ultimo atto la recente riforma della giustizia, che ha scatenato la protesta dei riservisti e della popolazione storica di Israele è solo l’ultimo atto di una progressiva trasformazione dello Stato di Israele. Nel tempo la continua tendenza ad
acquisire territorio senza disporre di un adeguato incremento demografico ha spinto Israele ad inglobare nella propria popolazione gli ebrei della diaspora provenienti dai paesi del nord Africa e d’oriente, accentuando così la componente a base religiosa della sua popolazione, con una cultura politica e delle istituzioni molto lontana da quella della popolazione originaria, introducendo in tal modo elementi forti di divisione nella società israeliana,il che ha finito per minare le basi costitutive della nazione, segnando una definitiva distanza dalle ragioni ideali che avevano l’indotto una parte rilevante
della società israeliana a farsi Stato.
L’intenzione di Netanyahu di fare di Israele un paese medio-orientale “normale”, capace di convivere con l’oceano di popolazioni arabe che lo circondano, grazie alla forza delle relazioni commerciali ed economiche, culminate nella stipula dei patti di Abramo ha fatto precipitare la crisi. Questi accordi sono stati costruiti a prescindere dall’esistenza dei palestinesi che sono stati rimossi dall’esistente e ciò ha indotto Hamas a intraprendere una operazione criminale terroristica. di indicibile ferocia, che avrebbe dovuto, come infatti sta avvenendo, scavare un solco di sangue tra Israele e i palestinesi, rendendo impraticabile per i governi arabi disposti alla collaborazione proseguire nella strategia degli accordi e annullando la forza di coesione degli interessi e del denaro, sostituiti da un’oceano di dolore capace di sommergere tutti.
Certo Hamas non ha fatto tutto da solo ed è stato supportato dall’Iran, anche attraverso rapporti con gli Hezbollah ma anche con il sostegno non nascosto della Turchia e dello stesso Egitto, prova ne sia che il deserto del Sinai è stato il luogo nel quale si sono addestrati i commandos di Hamas. Come i servizi segreti israeliani abbiano potuto ignorare questa preparazione è da chiarire e, secondo numerosi analisti la caisa è rinvenibile nell’eccessiva fiducia nei sistemi di spionaggio elettronico e nella sterilizzazione delle fonti di informazione tra i palestinesi. Due anni di preparazione
meticolosa e silenziosa sono stati necessari all’organizzazione politico/militare islamica per preparare il proprio assalto facendo tesoro delle esperienze sedimentate dalle tante organizzazioni terroristiche di derivazione Wahabita che, sperimentando l’efficacia del terrore veicolato anche attraverso gli strumenti di comunicazione di massa, hanno mostrato quanto può essere efficace seminare l’odio e il terrore e fare della violenza più bestiale uno strumento politico estremo da utilizzare senza risparmio e con sicuro effetto. La presa di ostaggi e parte di questa strategia.
Se si tiene conto del fato che la guerra e solo uno dei modi con i quali si fa politica bisogna dire che ambedue le parti in campo non hanno avuto remore nell’annullare le differenze tra civili e militari, Israele mecessariamente militarizzando tutta la popolazione e la parte palestinese facendo altrettanto hanno prodotto il genocidio in atto che minaccia di proseguire senza fine.
L’annunciata invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano, l’assenza di qualsiasi idea su un sua futura gestione di Gaza, rischia soltanto di aggravare la situazione con una guerriglia permanente, in un’area nella quale la popolazione è ostaggio dei combattenti, ora costretti a vivere in uno spazio ancora più ristretto con un densità sul
territorio spaventosa, in mancanza di acqua energia e cibo, mentre l’inverno si avvicina e i bombardamenti sono continui.
In tutta questa tragedia colpisce lo sciacallaggio di un politico dal volto bovino, senza scrupoli, che pur di raccattare qualche voto, riscopre le farneticazioni di una psicopatica ormai seppellita dall’oblio, indicendo in suo nome una manifestazione di istigazione all’odio.
Sui possibili sviluppi della crisi
Nel momento nel quale scriviamo la crisi è in continua evoluzione e il conflitto rischia di allargarsi e gli sbocchi di quanto sta avvenendo sono assolutamente imprevedibili. Tuttavia, alcune cose sono già avvenute:
- quanto avvenuto in Medio Oriente ha aperto un altro fronte di crisi che distoglie risorse e attenzione da quella ucraina dell’opinione pubblica ma spinge gli USA a stanziare 1.000 miliardi di dollari in armamenti;
- la crisi attuale segna la scesa in campo della Cina come attore di primaria importanza nella mediazione dei conflitti e il ritorno in campo della Russia come uno degli attori principali: è il modo di manifestarsi del mondo multipolare,
rompendo il suo relativo isolamento; - costringe gli Stati Uniti a tornare militarmente in Medio Oriente, aumentando il loro impegno nelle aree di conflitto;
- segna l’emergere di una conflittualità intra NATO tra Israele e la Turchia, sostenitrice e sponsor di Hamas;
- insegna, ancora una volta, che i conflitti etnici e religiosi generano terrorismo e destabilizzazione;
- aumenta le cause di deterioramento della situazione economica e di crescita dell’inflazione a causa della aumento del prezzo dell’energia e delle materie prime;
- vede aumentare le difficoltà economiche e politiche dell’Unione Europea;
- riceve conferma la “guerra a pezzetti” in corso.
In questa situazione gli USA consigliano Israele di contenere la propria risposta anche se il suo governo, debolissimo e screditato, intende riproporre la figura di “Israele cane rabbioso”, teorizzata da Mosche Dayan, riducendo di circa la metà il territorio di Gaza, nella convinzione di limitarne così il ruolo di base delle operazioni di Hamas, impossibile da eradicare. La creazione di una forza araba di interposizione guidata dall’Egitto e/o da altri paesi arabi appare improbabile, anche perché il risultato certo sarebbe quello di far crescere rabbia e disperazione, tanto più che Israele considera irreversibile l’occupazione progressiva della Cisgiordania.
Gianni Cimbalo