Il Kosovo riesplode. Per capire quanto sta avvenendo e potrebbe avvenire è necessario ricostruire la memoria per ricordare ciò che l’Occidente ha dimenticato a proposito della sua “operazione speciale” con la quale il Kosovo
venne creato. Facendolo, si capirà meglio anche quanto sta avvenendo in Ucraina, perché e con quali scopi.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 apre la strada alla crisi di tutti i paesi dell’Est Europa, già parte dell’area di influenza sovietica. È tutto l’assetto dell’Europa ad essere rimesso in discussione. La Germania viene riunificata e nel 1992 giunge a maturazione la crisi dell’ex Jugoslavia, Stato federale che riuniva le diverse entità della penisola balcanica in un’unica struttura istituzionale e politica e che aveva avuto il merito di gestire senza conflitti un’area del continente caratterizzata da forti tensioni tra le popolazioni che la abitano, tanto che proprio a Sarajevo era stata innescata la Prima guerra mondiale.
La dissoluzione del paese è tenuta a battesimo dalla Germania riunificata e potenza emergente che, guidando il processo di aggregazione dell’Unione Europea, individua l’area balcanica come quella di tradizionale espansione politica ed economica dell’Unione, come lo fu, un tempo, della Germania. Del resto, la sopravvivenza di uno Stato federativo nei Balcani rappresentava per l’Unione Europea una pericolosa alternativa al suo sviluppo, poiché avrebbe potuto fungere da polo di attrazione per i paesi ex comunisti dell’Est Europa, o almeno per quelli di essi contigui all’area balcanica, come la Romania e la Bulgaria, alla ricerca di una nuova collocazione economica, politica e strategica. È bene ricordare, per comprendere le potenzialità jugoslave che la Jugoslavia era uno dei leader del gruppo dei “paesi non allineati” e rappresentava quindi uno dei possibili punti di riferimento di un quadro strategico in corso di ridefinizione. La sua dissoluzione pose definitivamente fine a questa possibilità, creando le condizioni per una crescita dell’U.E..
Le fasi della dissoluzione della Jugoslavia
Con la scomparsa dei due blocchi la presenza della Jugoslavia non era più necessaria agli equilibri geostrategici e perciò le istituzioni internazionali come il Fondo Monetario non rinnovarono i finanziamenti al paese e contemporaneamente venne a mancare il sostegno economico dei due blocchi. In una situazione di forte indebitamento della Jugoslavia venne imposta al paese dagli Stati e dalle autorità monetarie una politica economica di austerità che accentuò le differenze tra le aree più ricche e quelle più povere. Lo scioglimento nel 1990 della Lega dei Comunisti di Jugoslavia consentì la prevalenza in tutte le Repubbliche federate dei partiti nazionalisti. Vennero organizzate elezioni multipartitiche in tutte le Repubbliche e la maggior parte dei governi eletti adottò piattaforme politiche nazionaliste, promettendo di proteggere separatamente gli interessi delle popolazioni. Con la dichiarazione di indipendenza della Croazia 25 giugno 1991 inizia la dissoluzione della Federazione Jugoslava e la guerra civile che sarà caratterizzata da eccidi, pulizia etnica e inenarrabili violenze che riportano la guerra in Europa per la prima volta dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, anticipando la guerra ucraina.
I nuovi Stati nati dalla dissoluzione jugoslava, e in particolare la Croazia, sostenuta oltre che dalla Germania, della quale adotta il marco come moneta di scambio, viene subito riconosciuta dalla diplomazia vaticana come Stato indipendente, su indicazione del gaudente e lazzarone papà regnante, grande nemico del comunismo (il pseudosanto Carol Wojtyła). La sua secessione è vista con particolare favore dalla Santa Sede, in quanto consente di spostare ad Est l’area di controllo del cattolicesimo in Europa, diminuendo ruolo e peso politico dell’ortodossia e della Chiesa Ortodossa Serba.
Per portare a termine lo smantellamento della Federazione l’Occidente mette in campo ogni iniziativa possibile e sfrutta lo scontro economico tra le diverse entità jugoslave, mascherato dietro un conflitto etnico-linguistico e culturale, mentre le diverse componenti delle popolazioni balcaniche sono indotte al massacro. Dopo una guerra iniziale che vede contrapposti serbi e croati, e mentre Slovenia e Macedonia si sfilano dal conflitto, assume particolare drammaticità la situazione bosniaca, a causa della natura multietnica e multireligiosa della popolazione della regione. Gli eserciti della Croazia e della Serbia si contendono il territorio della Bosnia e ambedue massacrano le popolazioni di etnia musulmana: Sarajevo viene assediata e distrutta. La NATO dà il via a una prima “operazione speciale” che prende il nome di “operazione Deliberate Force”, ricorrendo all’utilizzo della forza. I combattimenti tra gli eserciti etnici devastano la penisola balcanica e danno il destro alla NATO, che ritiene compromessa la sicurezza dei paesi che ne fanno parte, di intervenire sul campo con un corpo di spedizione con il compito di fungere da forza di interposizione. All’operazione oltre ai paesi che fanno parte di questa organizzazione partecipa anche la Russia, occupando l’aeroporto di Pristina. A soccombere, ad opera di ambedue i contenenti, è la componente musulmana della popolazione che viene massacrata con particolare ferocia: le truppe NATO assistono senza intervenire a massacri come quelli di Srebrenica che tali truppe, a giustificazione del loro intervento, avevano dichiarato di voler evitare. Bisognerà attendere il 1995 perché vengano firmati gli Accordi di Dayton sulla Bosnia Erzegovina che pongono fine alla guerra.
Intanto cresce la questione kosovara, regione autonoma che si era vista abolire la propria autonomia dalla Serbia; i nazionalisti kosovari insorgono, rilanciando il progetto storico di costruzione di una grande Albania, forti della consistenza della popolazione albanofona nella regione, contrapponendosi alla creazione di una “grande Serbia”. Lo scontro è inevitabile e la Serbia cercherà di mantenere il controllo sulle entità di popolazione di lingua serba in Kosovo come ha già fatto nelle crajne là dove sono presenti popolazioni di lingua e tradizioni serbe storicamente legate, anche dal punto di vista religioso, al Patriarcato ortodosso belgradese. Lo scontro tra le parti si arricchisce così del conflitto interreligioso e la Chiesa Ortodossa Serba scende in campo accanto allo Stato.
Viene perciò messa a punto dalla NATO una seconda “operazione speciale”, denominata Allied Force; si distingue l’Italia che interviene partecipando al bombardamento di Belgrado, prendendo di mira anche ospedali. A colpire sono “bombe
intelligenti”, dette umanitarie, È questo ciò che racconta la propaganda bellicista, sostenendo che si tratta di un intervento umanitario, come se queste bombe, una volta sganciate, deviassero traiettoria quando stanno per colpire obiettivi civili.
L’intervento italiano in quanto “umanitario”, viene finanziato con i fondi dell’otto per mille destinati allo Stato per scopi umanitari, auspice dell’operazione l’allora presidente del Consiglio D’Alema che rispolvera la storica politica italiana a sostegno della creazione della Grande Albania in funzione di contrasto alle popolazioni slave [1]. Per l’intervento sul terreno viene costituita una forza di interposizione, denominata KOFOR, i cui comando viene affidato all’Italia.
Come si evince dalla ricostruzione degli eventi gli Stati Uniti come l’URSS prima, e la Russia poi, hanno ritenuto di avere mani libere non solo rispetto ai propri alleati, ma anche in relazione ai cosiddetti “paesi cuscinetto”, ovvero a quella fascia di paesi che interponendosi tra i due blocchi, costituivano terra di nessuno.
Così gli Stati Uniti, per il tramite della NATO della quale sono il maggior azionista, hanno ritenuto, con il crollo del blocco sovietico, di poter estendere la propria giurisdizione, iniziando con l’ergersi a gendarmi dell’area balcanica e hanno banchettato sui popoli balcanici, incentivandoli a costituire delle entità statali autonome e avviandoli ad intraprendere un processo di progressiva integrazione nella U. E, che si è proposta come polo di attrazione per traghettare le nuove entità nell’Unione, a condizione che queste uniformassero i propri ordinamenti e le rispettive economie a quelle comunitarie (condivisione dell’aequis comunitario). Si assiste così ad un processo, ancora in corso, che vede i popoli balcanici da una parte combattere gli strascichi di una guerra civile terribile, fratricida e disastrosa e dall’altro demolire
quei confini per ergere i quali hanno combattuto per entrare a far parte di un’entità politica comune, l’U. E. che tali confini abolisce e, aderendo alla NATO, una struttura securitaria formalmente difensiva, ma in realtà strumento di sostegno dell’egemonia USA e dei paesi dell’Occidente.
Nuovo ordine e superamento degli Stati-nazione
Si potrebbe pensare che con l’occasione, individuando e delimitando i nuovi confini degli Stati, sarebbero state rispettate le appartenenze etniche, linguistiche e religiose e ridisegnando le nuove entità in modo da rimuovere le ragioni di conflitto, ma non è stato così, perché le nuove compagini statali non sono altro che entità che ricalcano i confini
amministrativi precedenti,stabiliti all’interno dello Stato federativo jugoslavo, e in alcuni casi prendono atto delle aree occupate dagli eserciti sul campo, con il risultato che il processo di rifondazione degli Stati è accompagnato da operazioni di pulizia etnica, spostamenti di popolazioni, che danno continuità a una configurazione etnicamente frammentata della dislocazione delle popolazioni sul territorio. Particolarmente drammatica è la situazione in Bosnia Erzegovina dove si è proceduto, con grande
fatica a una cantonalizzazione che lascia in vita, come una entità di fatto separata, la Repubblica Srpska, costituita dall’etnia serba presente su quei territori e crea di fatto un regime speciale per Sarajevo.
Ridimensionate le ambizioni serbe e stabilizzata l’area dei Balcani meridionali con la separazione consensuale tra Serbia e Montenegro, vediamo oggi riesplodere il conflitto tra serbi e kosovari, mai realmente sopito, in una parte del paese dove sono maggioranza popolazioni serbe alle quali il governo albanofono vuole imporre il proprio controllo politico. Né la situazione kosovara è destinata, a nostro avviso, a risolversi, prova ne sia che permane in questa “entità autonoma” la presenza necessaria della KOFOR tanto che il territorio, benché autoamministrato, è sotto la tutela NATO e delle Nazioni Unite e perché il Kosovo è un no-Stato in quanto costituisce oggi un’entità politica non riconosciuta nemmeno da tutti i paesi dell’ U. E., prima fra tutti la Spagna, la quale vede nel suo riconoscimento un pericoloso precedente di un ipotetico diritto alla secessione di un territorio facente parte di uno Stato, problema certamente vivo in quel paese a causa delle richieste di autonomia, quanto non di secessione, delle entità basche e catalane. Come si vede il rispetto delle diverse appartenenze identitarie non è risolto e crea numerosi problemi persistenti anche in Occidente, producendo violazioni dell’indipendenza, dell’autonomia e dell’autogoverno dei popoli.
La situazione Ucraina
Alla luce di quanto abbiamo ricordato a proposito dei Balcani la situazione Ucraina assume una dimensione del tutto diversa, che la pone al di fuori dello schema semplicistico, costituito da uno scontro tra tra aggrediti ed aggressori, con il quale
si intende leggere quanto sta avvenendo. Per una corretta lettura degli avvenimenti occorre ricordare, che da una parte, gli USA e la Nato ritengono di avere una propria area sulla quale proiettare la loro influenza – ne è prova il progressivo allargamento
della NATO – e che specularmente la stessa convinzione è propria dei dirigenti del Cremlino, che fino a prima della guerra ucraina hanno ritenuto che Bielorussia, Ucraina e Moldavia costituissero aree ricadenti nella sfera di sicurezza della Russia e quindi sottratte ad ogni influenza occidentale e quindi sottoposte a una proiezione della politica securitaria della Russia.
A sostegno di questa tesi la Russia ricorda che gli attuali confini degli Stati dell’Est Europa non sono quelli di sempre e nemmeno quelli storici. La Seconda guerra mondiale ha infatti operato una loro ristrutturazione, spostando il confine russo ad
Occidente di circa 200 km: La contestuale presenza di popolazioni diverse per lingua, tradizioni, religione, cultura e stata accentuata dalla politica stalinista di governo dei territori dell’URSS, attuando massicci spostamenti di popolazione; altrettanto è avvenuto per gli altri Stati dell’Est Europa. Si sono così prodotti spostamenti forzosi di popolazione, accentuati da motivi securitari ma anche per rendere disomogenei i territori al fine di rafforzare il controllo del potere centrale e prevenire eventuali secessioni indipendentiste, pensando che fosse possibile amalgamare i diversi popoli. Quest’insieme di motivi ha consentito il passaggio sotto la giurisdizione di altri Stati di interi territori e popolazioni caratterizzati da lingue, tradizioni comuni, legami familiari e parentali, nonché da appartenenze religiose storicamente definite, frantumandone la coesione nazionale.
Applicando questi criteri di analisi all’intero territorio dell’Ucraina rileviamo che oggi essa è costituita ad Occidente da una larga parte di territorio che di fatto è di tradizione e cultura polacca, nel quale tale lingua è maggioritaria, diffusa e parlata, (Leopoli e territori contigui). Nella parte nordoccidentale del paese, lungo il confine con l’Ungheria, troviamo quel territorio che fu dei ruteni, con una popolazione che ha una propria Chiesa. Cattolica di rito greco ed è di tradizioni e cultura ungherese, lingua parlata dalla maggioranza dei cittadini, prova ne sia la speciale politica del governo ungherese a riguardo di tale popolazione alla quale concede la doppia cittadinanza e ciò fa pensare che non sono da escludere tensioni e rivendicazioni future. Nell’insieme quanto detto spiega oggi una forte presenza su quei territori della Chiesa greco-cattolica di Ucraina.
Per molti versi analoga la situazione, guardando ai territori a sud, ai confini occidentali del paese, con la Transnistria e via via lungo i confini con la Romania e la Moldavia, dove l’idioma parlato è quello rumeno e altrettanti dicasi per gli altri fattori identitari. Solo spostandosi verso Kiev e attestandosi lungo un confine idealmente costituito dal
al fiume di Dnepr incontriamo territori nei quali si parla con maggiore frequenza la lingua ucraina e si trova il nucleo originario e identitario del paese. Nelle grandi pianure fino a Odessa e a partire dal Dnepr, andando ad est fino al confine con la Russia, la maggioranza della lingua parlata dalla popolazione è quella russa e così dicasi per tradizioni e costumi.
La Crimea, infine, ha una storia particolare perché è stata nei secoli un territorio afferente alla Russia fin dal 1784, trasferita solamente nel 1954 sotto la giurisdizione amministrativa dell’Ucraina per puri motivi di convenienza funzionale, vista la contiguità topografica, sotto la giurisdizione ucraina per il fatto che al tempo l’Ucraina era parte
indistinguibile di un’unica entità statale: l’URSS. È in questo contesto che nasce e si sviluppa ”l’operazione speciale” voluta da Putin.
Come si vede il problema è più complesso e dannatamente simile all’assetto che abbiamo visto caratterizzare i Balcani e quest’insieme di motivi e questi similitudini hanno fatto pensare a Putin che fosse possibile in Ucraine creare una situazione simile a quella balcanica con la quale giustificare e motivare la propria “operazione speciale”.
Ma l’idea di nazione non è – come nel pensiero della premier italiana – un fatto di sangue e tanto meno una questione genetica, ne di appartenenza linguistica; supera i legami culturali e familiari, pur mettendoli a dura prova: è piuttosto il frutto della costituzione di un’entità politica che nasce da scelte economiche, politiche e sociali e che si consolida con la comune sofferenza causata da una guerra assurda, violenta, dai massacri e dalle tragedie comuni, dall’odio che matura col crescere dei morti.
Quindi la rottura delle frontiere costituisce la violazione di una convenzione, di un confine che si è stabilito tale, sulla base di un accordo politico. Paradossalmente e solo ora, con la guerra che accomuna nella sofferenza le popolazioni abitanti il territorio ucraino, i bombardamenti e le violenze russe hanno finito per creare un’unità di intenti, una opinione favorevole alla difesa comune, mettendo da parte le appartenenze linguistiche, i legami culturali e familiari e ha portato al costituirsi per molta parte della popolazione di un’identità nazionale che degenera inevitabilmente in nazionalismo e fa
perdere di vista i valori di solidarietà di classe e di internazionalismo. Ciò avviene perché il concetto di nazione è quello proprio – come dicevamo – di una entità politica e perciò l’intervento armato russo, certamente aggressivo, ha violato confini stabiliti come frutto di vicende storiche, accordi politici, in ossequio a rapporti di forza che prescindono dalla situazione identitaria sul territorio ed è vissuto come un’aggressione alla nazione.
La rivendicazione di territori da parte sia dell’Ucraina che della Russia è dunque, soprattutto un problema di carattere economico e pertanto il fine della guerra è quello che entrambe le parti vogliono per se uno spazio economico e strategico, un territorio, nel quale insistono interessi economici e politici che fanno capo ai grandi oligarchi, sia russi che ucraini, che operano con il consenso e la partecipazione di investitori internazionali, per gestire un territorio nel quale occorre operare per fare profitti, cercando di dividersi le spoglie di un paese, con la scusa di difenderne l’integrità.
Per vedere affermata e rispettata l’identità e l’indipendenza probabilmente il paese, che è un mosaico di popoli, avrebbe bisogno di adottare una struttura federale nella quale le comunità territoriali dovrebbero poter avere la possibilità di esprimersi e liberamente aggregarsi per dar vita, se lo desiderano, a una gestione sociale condivisa del territorio. Ma questo sarebbe puro un buon senso che gli accordi di Minsk avevano cercato di prefigurare. Ipotizzando, in particolare, per i territori del Donbass una struttura federale caratterizzata da larghe autonomie, accordi disattesi dalle parti.
Il fatto è che la questione Ucraina è complicata da interessi economico strategici che fanno capo agli Stati Uniti e all’Inghilterra come alla Russia, e che riguardano il controllo delle fonti energetiche, lo sfruttamento delle sue risorse minerarie, l’utilizzazione delle sue potenzialità di produzione agricola e industriale, nonché i rapporti di forza tra le
diverse potenze, l’assetto geopolitico del mondo, gli equilibri strategici e di potenza tra gli Stati e condizionano fortemente il futuro della U. E.
Ciò detto la questione kosovara che oggi si ripropone all’Occidente appare dannatamente simile a quella che riguarda l’Ucraina e per questo motivo ciò che va messo in discussione è la narrazione che sia i russi che gli ucraini fanno del problema, così come quella che gli occidentali fanno del loro intervento nei Balcani, mentre una sola cosa è sicura che le vittime della situazione sono il popolo ucraino e il popolo russo, indotti a odiarsi e a massacrarsi, a morire in nome degli interessi dei rispettivi oligarchi, senza che se ne veda la fine.
[1] La costituzione della “grande Albania” è un progetto politico coltivato principalmente dal colonialismo italiano che agli inizi del Novecento ambiva ad espandere la propria influenza nell’area balcanica, con l’intento di contrapporre le popolazioni di origine illirica a quelle slave, annettendo all’Albania il Kosovo, parte dell’attuale Macedonia del Nord e la Ciamuria, conosciuta in greco come Thesprotia. Questi intenti portarono nel 1939 al Protettorato dell’Italia, alla sia annessione e successivamente all’intervento militare italiano durante la Seconda guerra mondiale. Vedi: G. Cimbalo, Pluralismo confessionale e libertà religiosa in Albania, BUP, Bologna 2012.
Giovanni Cimbalo