L’Europa nell’economia di guerra

I paesi d’Europa sono accomunati dall’adozione di un’economia di guerra, resa necessaria in conseguenza della pandemia prima e dalla guerra d’Ucraina poi. La pandemia ha indotto gli Stati a ridurre le attività produttive per dare corso ai lockdown resi necessari per limitare il contagio; sono mutate le modalità di vita e gestione del tempo causando un rallentamento complessivo dell’economia, aggravato dalle spese necessarie a sostenere i sistemi sanitari: si è diffuso il telelavoro e il lavoro a distanza producendo mutamenti nel mercato del lavoro e nelle dinamiche sindacali.
Quanto è avvenuto ha introdotto nelle attività produttive comportamenti da economia di guerra, restringendo il mercato e gli scambi, determinando il ritorno di attività produttive divenute strategiche nei territori degli Stati nazionali, producendo enormi guadagni per ciò che attiene alcuni settori produttivi con la realizzazione di profitti che hanno di fatto accentuato le diseguaglianze.
Se la pandemia ha colpito tutto il mondo contribuendo a mettere in crisi la globalizzazione già sottoposta a un forte stress a causa della crescita esponenziale dei costi della logistica la guerra in Ucraina sta mettendo in ginocchio il modello produttivo europeo che deve produrre con costi dell’energia stratosferici, perché sembra definitivamente finita la sinergia con la Russia che fornendo energia e petrolio, nonché materie prime a prezzi competitivi conferiva alle produzioni europee una competitività sul mercato in grado di reggere la competitività del modello di produzione asiatico
e certamente deprimeva le potenzialità produttive e di mercato statunitensi.
Dopo 9 mesi di guerra – della quale non si vede una fine a breve termine ed anche una tregua sembra lontana – gli equilibri economici internazionali sono enormemente mutati. Gli Usa hanno riguadagnato una posizione dominante rispetto all’Europa, mentre l’economia dell’area euro è in forte difficoltà a causa dell’aumento del costo dell’energia e delle materie prime, mentre cresce anche il prezzo dei prodotti agricoli e si riduce il valore delle attività di trasformazione delle merci, mettendo in crisi l’economia europea che è soprattutto dedita alla trasformazione e confezionamento dei
prodotti, con la conseguenza della crescita dell’inflazione a causa dell’aumento dei costi di produzione, ma anche per effetto della speculazione per cui l’inflazione è destinata a restare a due cifre e la conseguente crisi salariale non potrà che produrre l’inevitabile crescita del conflitto sociale. Il mercato dell’energia a basso costo si orienta verso forniture all’economia cinese e indiana aumentandone la competitività globale.

La Gran Bretagna in recessione tecnica

Se ne avvertono le prime avvisaglie in Francia e soprattutto in Gran Bretagna che benché si sia sfilata dall’UE è precipitata in una crisi ancora maggiore dovuta all’effetto combinato di alcuni fattori: i profondi rapporti economici che la legano ancora all’economia Ue, malgrado la Brexit; l’inconsistenza del circuito economico alternativo ipotizzato puntando al rafforzamento dei legami con il Commonwealth,; le spese di guerra sopportate per il sostegno all’Ucraina; i danni economici prodotti dalla pandemia; la dissennata politica economica dei governi conservatori di riduzione delle tasse ai ricchi e di depressione dei salari. Prova ne sia che da giugno gli scioperi sono cresciuti e continuano a crescere e il paese ha visto il Governo della Liz Truss crollare rovinosamente dopo appena 45 giorni sostituito dal Governo di Rishi Sunak che ha imposto l’aumento delle tasse. La Gran Bretagna è entrata ufficialmente in recessione e deve affrontare la “tempesta”, come ha confermato il ministro delle Finanze britannico, Jeremy Hunt, presentando la legge di bilancio d’autunno che prevede un piano da 55
miliardi di sterline, tra aumenti delle imposte e tagli alla spesa per coprire il buco nei conti pubblici.
Il 45% riguarda aumenti fiscali e il 55% tagli di spese spalmati nei prossimi anni: il governo congelerà le detrazioni fiscali fino al 2028 e ridurrà la soglia per l’applicazione dell’aliquota massima del 45% da 150.000 a 125.140 sterline. Sarà anche ridotto l’importo che gli azionisti possono guadagnare in dividendi senza pagare le tasse, dal livello attuale di 2.000 sterline (2.366 dollari) a 1.000 sterline l’anno prossimo e a 500 sterline dal 2024. Poiché le auto elettriche sono sempre più diffuse, non saranno più esenti dalle tasse automobilistiche a partire dall’aprile 2025.
L’imposta sui profitti delle società energetiche aumenterà al 35% dal gennaio del prossimo anno fino al marzo 2028. Verrà introdotta una nuova tassa temporanea del 45% sui generatori di elettricità, pensata per colpire i profitti realizzati dai generatori a bassa emissione di carbonio. Insieme, queste misure garantiranno un gettito di 14 miliardi di sterline. Verrà congelata la soglia per il pagamento dei contributi previdenziali da parte dei datori di lavoro fino all’aprile 2028. Hunt ha detto che ridurrà l’imposta sulle aliquote per le aziende, ma che inizierà una rivalutazione delle proprietà aziendali a partire da aprile per assicurarsi che l’imposta rifletta il valore delle proprietà.
Analisti indipendenti sostengono che vi sarà una crescita del 4,2% nel 2022 (superiore al 3,8% atteso a marzo), ma una contrazione nel 2023 dell’1,4% per poi salire dell’1,3%, 2,6% e 2,7% nel triennio successivo. Il tasso di inflazione si attesterà intorno al 10 – 11 % quest’anno e scenderà forse al 9% l’anno prossimo. Queste stime, ha spiegato Hunt
illustrando la legge di bilancio in Parlamento, “confermano che le nostre azioni odierne contribuiranno a far calare l’inflazione solo a partire dalla metà del prossimo anno”. L’incidenza del debito pubblico sul Pil del Regno Unito raggiungerà il 97,6% sull’anno fiscale 2025-2026, ben oltre l’80,9% della precedente previsione, che risaliva a marzo, e resterà quasi invariato al 97,3% sul 2027. La spesa pubblica crescerà, ma più lentamente dell’economia. Gli attuali aumenti previsti per i bilanci dei dipartimenti saranno protetti in termini di cassa fino al 2024/25, il che significa un grosso taglio in termini reali con un’inflazione così alta. La spesa complessiva per i servizi pubblici continuerà a crescere in termini reali per i prossimi cinque anni.
Con l’obiettivo di contenere il disagio sociale dal prossimo aprile le pensioni e dei benefit sociali saranno riportati in linea con l’inflazione e incrementato il salario minimo del 9,7%, portandolo a 10,42 sterline l’ora, introdotti interventi mirati al welfare, come un tetto agli affitti agevolati che non potranno salire oltre il 7% nel 2023-24.

La Francia resiliente

La Francia nel 2020, a causa della pandemia di COVID-19, ha subito una delle contrazioni economiche più marcate tra i paesi dell’UE (-8%), tuttavia l’economia aveva iniziato a riprendersi nel 2021. Secondo le stime del FMI, la crescita del PIL è stata del 6,3% nel 2021, trainata dal sostegno pubblico e da solidi investimenti guidati dal settore
privato. La crescita era prevista del 3,9% nel 2022 e all’1,8% nel 2023, ma lo scoppio della guerra in Ucraina ha lasciato irrisolte le difficoltà della catena di  approvvigionamento dell’energia e delle materie prime. Il disavanzo di bilancio è
aumentato a -7,5% del PIL nel 2021 e si prevede che, seppur diminuendo, rimarrà a un livello elevato nel 2022 (-4,6% del PIL) e nel 2023 (-3,9% del PIL – FMI). Il debito pubblico, che era già uno dei più alti dell’Eurozona, è salito al 115,8% del PIL nel 2021 e si rimarrà molto alto nel 2022 (113,5% del PIL) e nel 2023 (114,6% del PIL). A causa dell’impennata dei prezzi dell’energia e ai problemi di approvvigionamento, secondo la stima preliminare diffusa dall’Istituto Statistico Nazionale Francese (INSEE), i prezzi al consumo sono in crescita, su base annua, del 6,2% dal 5,6% del mese precedente e dal +5,7% e si stima un’inflazione tendenziale a base annua dell’8%.
Benché l’attuazione del “Plan de Relance” progettato per sostenere le imprese francesi, ridurre al minimo l’aumento della disoccupazione e facilitare le transizioni verde e digitale e il piano “France 2030” mirino a promuovere l’innovazione e gli investimenti la Francia si trova a dover affrontare varie sfide strutturali: scarsa competitività, elevata
disoccupazione strutturale, oneri elevati del debito pubblico e privato, alti tassi di disoccupazione, soprattutto tra i giovani, che destano una preoccupazione crescente. Il tasso di disoccupazione, che era in calo prima della pandemia, ha raggiunto l’8,1% nel 2021 e potrebbe aumentare all’8,3% nel 2022 a causa delle crescenti difficoltà sui mercati dei prodotti francesi per effetto delle sanzioni alla Russia.
L’introduzione del regime di riduzione dell’orario di lavoro ha limitato ulteriori perdite di posti di lavoro su larga scala. La mobilità sociale rimane bassa e i tassi di occupazione di molti gruppi svantaggiati sono particolarmente elevati.
La paventata, e per molti versi inevitabile, riforma delle pensioni che mira ad elevare l’età pensionabile, se pur gradualmente a 70 anni manterrà molti lavoratori nel mercato del lavoro facendo aumentare la disoccupazione.
Il Governo ha annunciato di aver varato un piano di resilienza economica e sociale, volto a proteggere famiglie e imprese dalle conseguenze immediate dello shock generato dalla crisi ucraina. Si tratta in gran parte di misure aventi portata limitata nel tempo e costi relativamente contenuti; tuttavia, il governo si è dichiarato pronto ad estenderle e adattarle in caso di necessità. Il piano contiene anche provvedimenti con orizzonte temporale più ampio, volti ad accelerare la transizione energetica e la sovranità economica del Paese, integrati in una strategia comune concordata con i partner europei.
Il piano persegue obiettivi mirati, a differenza dei programmi di sostegno generalizzato attuati per fronteggiare la crisi pandemica nel biennio 2020-2021: mentre questa aveva provocato uno shock da domanda, il conflitto ucraino sta avendo effetti principalmente sulle imprese, attraverso una fiammata dei prezzi delle materie prime (soprattutto
energetiche), la recrudescenza dei problemi di approvvigionamento e la perdita o il ridimensionamento di alcuni mercati di sbocco (Russia, Ucraina e Bielorussia). Di conseguenza gli strumenti per farvi fronte sono orientati principalmente al sostegno dell’offerta, allo scopo di ridimensionare le tensioni inflazionistiche già manifeste.
La Francia è il più grande produttore agricolo dell’Unione europea, con un quarto della produzione agricola totale dell’UE. Tuttavia, il settore agricolo rappresenta solo una piccolissima parte del PIL del Paese (1,6%) e impiega il 3% della popolazione. Le attività agricole francesi ricevono sovvenzioni significative, in particolare dall’Unione Europea.
Grano, mais, carne e vino sono i suoi principali prodotti agricoli. L’industria manifatturiera francese è molto diversificata; tuttavia, il Paese sta attualmente attraversando un processo di deindustrializzazione, che ha portato all’esternalizzazione di molte attività. L’industria rappresenta il 16,4% del PIL e impiega un quinto della forza lavoro attiva I settori industriali chiave sono le telecomunicazioni, l’elettronica, l’automobile, l’aerospaziale e le armi. Il settore terziario rappresenta il 71,2% del PIL francese e impiega il 77% della forza lavoro attiva. La Francia è la principale destinazione turistica al mondo, con un record di 91 milioni di visitatori stranieri nel 2019. (dati della Banca Mondiale).

La Germania in recessione

La Bundesbank ha dichiarato ufficialmente che il paese è in recessione a causa dell’eccessiva dipendenza dal gas russo, della pericolosa esposizione economica con la Cina e ad una serie di decisioni sul fronte energetico – a iniziare dalla fine del nucleare – che rendono più che mai fragile il tessuto industriale del Paese, posto che tuttora l’industria pesa per quasi il 30% dell’economia nazionale. Uno dei grandi istituti economici tedeschi, l’Institut für Weltwirtschaft di Kiel, ha dimezzato la sua stima di crescita per il 2022, dall’1,4 allo 0,7%, mentre per il 2023 l’attività economica tedesca
potrebbe contrarsi sempre dello 0,7%.
Le crisi economiche periodiche non sono una novità in Germania: la libera concorrenza e l’economia sociale di mercato, sono state sostenute dallo Stato già nel 2008 quando il governo federale fu costretto a salvare le banche dal tracollo finanziario. Oggi deve mettere in salvo le aziende del gas: Uniper, VNG, Securing Energy for Europe. Ciò induce a chiedersi quanto reale sia la forza dell’economia tedesca.
Per far fronte alla crisi energetica il governo ha varato un pacchetto di misure di sostegno pubblico all’economia pari a 200 miliardi di euro. La scelta ha provocato le critiche di molti partner, che hanno accusato Berlino di concorrenza sleale.
Il ministro delle Finanze Christian Lindner ha sottolineato che il pacchetto è “proporzionale” alla taglia dell’economia tedesca, che ha una durata di due anni, fino al 2024, e che non necessariamente verrà usato pienamente. La manovra economica è giunta mentre Berlino si dimostrava riluttante a definire una soluzione europea alla crisi energetica.
Malgrado queste difficoltà il tasso di disoccupazione è bassissimo (la media nazionale è al 6%). Le disuguaglianze sociali sono aumentate, come in altri Paesi europei, ma meno violentemente che altrove. In parte almeno l’invecchiamento della popolazione che caratterizzava il Paese fino a qualche anno fa è compensato dall’arrivo massiccio di profughi dall’Iraq e dalla Siria, che la Germania ha provveduto a selezionare all’arrivo attentamente per competenze professionali per soddisfare le sue necessità sul mercato del lavoro.
La Germania non ha l’ambizione nazionale della Francia. Mentre a Parigi si pensa in grande, a Berlino ci si concentra soprattutto nel perfezionare l’esistente. La Repubblica Federale può essere lenta nell’adattarsi alle nuove situazioni, ma una volta percepita l’urgenza di cambiare direzione, la tendenza all’irregimentazione fa miracoli. Lo si
toccò con mano all’inizio del secolo quando le riforme dell’Agenda 2010 sono state fatte proprie dall’intero Paese, e hanno consentito alla Germania di lasciarsi alle spalle la stagnazione provocata dall’unificazione.
Perciò le grandi imprese chimiche stanno spostando la produzione negli Stati Uniti, approfittando in questo modo di minori costi dell’energia. Nel frattempo, il risparmio energetico fa straordinari passi avanti Più in generale, la Germania sta abbandonando velocemente la sua dipendenza dal gas russo, che risale agli anni 70, acquistando idrocarburi dalla Norvegia e dagli Stati Uniti.
Forse si stanno creando le premesse per lo sviluppo di un nuovo modello di crescita più attento all’ambiente, più concentrato sull’Europa, meno dipendente dalla Russia e dalla Cina, più rivolto alla domanda interna e questo mentre i socialdemocratici rimettono in discussione la strategia commerciale di questi ultimi due decenni, i verdi rivalutano il
nucleare e i liberali riconsiderano i loro principi di ortodossia di bilancio. A fare da volano al rilancio economico il riarmo con una spesa sia pure diluita nel tempo di mille miliardi di euro che farà del paese una potenza militare oltre che stimolare l’economia.

E l’Italia?

Il governo neofascista italiano si caratterizza per l’autarchia e, nella migliore tradizione fascista e nazionalista, per far fronte al conflitto in Ucraina e ai rincari dell’energia punta ad aumentare la produzione nazionale di gas, trascurando il fatto che si tratta di una quantità risibile, ma sufficiente ad aumentare il bradisismo, in zone critiche del territorio. Inoltre risolve d’autorità i conflitti nel piazzare i de-gassificatori, e si propone di sbloccare i progetti per le rinnovabili. Dedica gran parte delle risorse al caro energia, rafforzando le misure nazionali a supporto di famiglie e imprese, sia sul versante
delle bollette sia su quello del carburante. Per il resto dichiara che “si procederà a piccoli passi, già dalla prossima legge di bilancio,” che dovrà essere inviata a Bruxelles a stretto giro.
Criticando il rialzo dei tassi deciso dalla Bce, “che rischia di ripercuotersi sul credito bancario a famiglie e imprese”, la presidente del Consiglio ha affermato che la strada per ridurre il debito “non è la cieca austerità imposta negli anni passati e non sono neppure gli avventurismi finanziari più o meno creativi. La strada maestra è la crescita
economica, duratura e strutturale”, perciò bisogna favorire gli investimenti esteri, contrastando le logiche predatorie, ma con un atteggiamento aperto “ad accogliere quelle imprese straniere che sceglieranno di investire in Italia, portando sviluppo, occupazione e know-how in una logica di benefici reciproci”, dimenticando che nulla impedisce a queste imprese, ottenuti aiuti statali, a chiudere l’asttività e lasciare il paese. Le crisi aziendali non hanno evidentemente insegnato nulla. Ci si ripropone infine di accompagnare imprese e cittadini verso la transizione verde senza consegnarli a nuove dipendenze strategiche e “rispettando il principio di neutralità tecnologica” (formulazione oscura e ambigua).
Scoprendo l’esistenza dell’acqua calda la Meloni ci informa che il risparmio privato delle famiglie, pari a 5mila miliardi di euro potrebbe sostenere gli investimenti nell’economia reale, omettendo di dirci come si fa a convincerli a investire queste risorse, in cosa e come.
Il governo è impegnato a spendere “senza ritardi e senza sprechi” i 191,5 miliardi assegnati all’Italia nell’ambito del Pnrr, una petizione di principio più che un impegno reale. L’obiettivo sarà raggiunto anche “concordando con la Commissione europea gli aggiustamenti necessari per ottimizzare la spesa, alla luce del rincaro dei prezzi delle materie prime e della crisi energetica”. Il Pnrr “non si deve intendere soltanto come un grande piano di spesa pubblica, ma come l’opportunità di compiere una vera svolta culturale”.

Le compensazioni elettorali

Il rapporto tra Fisco e contribuenti si avvarrà anche di una tregua fiscale che dovrebbe consentire ai cittadini di regolarizzare la propria posizione con il fisco, ma attraverso condoni e rinvii ad essere penalizzati saranno i contribuenti a reddito fisso che evasori non sono. Già con la legge di bilancio inizierà la riforma dell’Irpef con progressiva introduzione del quoziente familiare e l’estensione della tassa piatta per le partite Iva dagli attuali 65 mila euro a 100 mila euro di fatturato e con l’introduzione della tassa piatta sull’incremento di reddito rispetto al massimo raggiunto nel triennio precedente, a tutto vantaggio di coloro che guadagnano di più.
Per quanto riguarda le pensioni il governo intende facilitare la flessibilità in uscita dal lavoro “con meccanismi compatibili con la tenuta del sistema previdenziale, partendo, nel poco tempo a disposizione per la prossima legge di bilancio, dal rinnovo delle misure in scadenza a fine anno”. Un riferimento in particolare e stato fatto all’Ape sociale e a Opzione donna, cui potrebbe sommarsi una possibile Opzione Uomo, soluzione che permetterebbe il pensionamento anticipato a 58 anni, con 35 anni di contributi. Si punta per il futuro a un sistema pensionistico che garantisca anche le
giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo.
Si va verso una profonda revisione del reddito di cittadinanza. “Per chi è in grado di lavorare, la soluzione non è il reddito di cittadinanza ma il lavoro, la formazione e l’accompagnamento al lavoro” ha dichiarato la premier che si prefigge un risparmio da 1 miliardo. Non è però detto che si intervenga subito, consapevoli che ciò non farà che
aumentare il disaggio sociale.
Il governo intende introdurre una clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, anche sotto l’aspetto economico, per le concessioni di infrastrutture pubbliche, come autostrade e aeroporti. Il passaggio dell’intervento della premier è stato letto come un attacco ai fondi di investimento anche perché a dichiarato con piglio demagogico: “Il
modello degli oligarchi seduti su dei pozzi di petrolio ad accumulare miliardi senza neanche assicurare investimenti non è un modello di libero mercato degno di una democrazia occidentale”. Sulle infrastrutture strategiche nazionali si vuole assicurare la proprietà pubblica delle reti. Sulle concessioni a degli stabilimenti balneari e sulle licenze dei taxi nulla di chiaro e definitivo viene detto.
Nel programma di governo c’è poi il taglio graduale di almeno cinque punti del cuneo fiscale a favore di imprese e lavoratori, per alleggerire il carico fiscale delle prime e aumentare le buste paga dei secondi, mentre per incentivare le aziende ad assumere, si un meccanismo fiscale che premi le attività ad alta densità di lavoro, all’insegna dello slogan “Più assumi, meno paghi” e del “Non disturbare chi vuole fare,”
Infine il solito rituale impegno a ridurre la burocrazia adottando una strutturale semplificazione e deregolamentazione dei procedimenti amministrativi per dare stimolo all’economia, alla crescita e agli investimenti.
Confrontando programmi e strategie dei paesi presi in esame alcune considerazioni si impongono: per quanto possano essere discutibili le strategie adottate dagli altri Stati non mancano di concretezza e di una visione strategica, aspetti del tutto assenti negli intendi dichiarati dal Governo italiano che persegue una politica di navigazione di
piccolo cabotaggio, punteggiata e caratterizzata da micro-interventi settoriali, clientelari, elettoralistici, hanno l’effetto certo dell’assenza di una visione strategica sia di medio che di lungo respiro.
Decisamente un Governo della miseria e dei mediocri che medita di fare strame dei diritti civili e di libertà e ridurre il paese a una grigia democratura, populista, sovranista e fascistoide.

La Redazione