Il diritto di esistere

Bisogna riconoscere allo Stato di Israele la grande capacità di essere lui l’aggressore e far apparire gli altri come i veri aggressori; riesce a far questo sfruttando il senso di colpa dei paesi occidentali e l’aira di martirio che lo circonda. Ciò fin dall’inizio. Tant’è che le recenti manifestazioni filoisraeliane, difronte all’ennesimo conflitto con i palestinesi, erano improntate alla parola d’ordine del diritto alla sopravvivenza di
quello Stato. E gli altri hanno o non hanno lo stesso diritto? L’equivoco risiede nelle origini.

Le origini

Il discorso con cui David Ben Gurion il 18 maggio 1948 annunciò la nascita dello Stato di Israele (riconosciuto già in anticipo dagli USA) è un misto di equivoci ed ipocrisie. Vi si diceva di volere la pace, ma già da sei mesi era stato predisposto il piano per occupare i punti strategici da punto di vista del nascente Stato.
Vi si diceva di operare in conformità con le risoluzioni dell’Onu, ma già si operava per non far nascere lo Sato dei palestinesi, espressamente previsto in quelle risoluzioni, che già ne designavano i confini. Vi si diceva di uno Stato con pari diritto per i cittadini non ebrei, ma contemporaneamente si parlava esplicitamente di uno Stato confessionale ebraico. Per di più era già operativo un esercito predisposto fin dagli anni venti, tanto ben armato da far ben presto fronte agli eserciti coalizzati dei paesi arabi vicini; si aggiunga che erano attive bande armate terroristiche (Irgun e Gruppo Stern) che teorizzavano la “Grande Israele” e l’espulsione totale dei palestinesi: del primo fu leader Menachem Begin (futuro Primo Ministro) e del secondo Yitzak Shamir (futuro
Primo Ministro e propiziatore dei massacri da Sabra e Shatila). Begin fu protagonista di un attentato all’Hotel King David (91 morti), sede della delegazione britannica a Gerusalemme, perché gli inglesi erano contrari alla nascita di un solo Stato, e del massacro di Deir Yassim (109 morti) un villaggio palestinesi. Per questi morivi l’esodo dei palestinesi aveva già avuto inizio prima del 1948 e prese proporzioni ingenti dopo che Israele ebbe vinto la guerra del 1949 contro gli stati arabi, che erano intervenuti per ottenere uno Stato riconosciuto anche per i palestinesi; a questa sconfitta si deve la prima occupazione di altri territori a popolazione araba.

Settanta anni di sopraffazioni

Da quegli inizi mai l’esistenza dello Stato di Israele è stata in discussione. Il mancato riconoscimento di esso da parte di molti Stati arabi (tutti sino a poco tempo fa) non è che il risultato della scelta univoca di crearsi uno Stato non riconoscendo agli altri lo stesso diritto; due popoli, due stati è stata da sempre la direzione scelta dalle agenzie internazionali, principio non accettabile da chi si era recato in Palestina con lo slogan “una terra senza popolo, per un popolo senza terra”; peccato che in quella terra un popolo ci fosse già, anche se i governi di Israele continuino a far finta che detto popolo non esista. Quella infatti, per loro, è la terra promessa da Geova al suo popolo tremila anni fa ed il fatto che loro non vi abbiano abitato per due millenni circa e che altre
genti (anch’essi semiti) le abbiano colonizzate nel frattempo è per la maggioranza degli ebrei immigrati del tutto irrilevante. Gli israeliani hanno avuto un leader pacifista e fautore del dialogo con i palestinesi (Rabin), ma lo hanno ucciso. Due popoli e due stati è il male minore per la pacificazione della zona, ma a questa soluzione Israele si è sempre opposta. Anche dopo gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto definire o confini stabili tra territori palestinesi e Stati di Israele, i coloni ebrei hanno continuato, anzi accelerato ad allargare in quei territori i propri insediamenti. Sarebbe auspicabile che ci fosse una sola comunità che convivesse in pace con regole condivise, ma fin tanto che i leader di Israele continueranno a giocare sull’insicurezza dei propri cittadini, spingendoli a trovare il proprio rifugio sotto la tutela di uno degli eserciti meglio armati del mondo e foraggiato e aggiornato continuamente dalle rimesse e dagli aiuti delle comunità ebraiche di tutto il mondo. Il potere dei governi israeliani si basa sulla paura che istillano alla propria popolazione.

L’ennesimo conflitto

Al di là della propaganda le origini dei recenti eventi bellici in medio oriente sono piuttosto chiare. Un leader conservatore ed aggressivo al potere da oltre un decennio, corre il rischio di dover cedere il posto di Primo Ministro ad altri e con questo quello ancor più grande di finire in galera per corruzione. Cosa importa se ci saranno vittime da entrambe le parti (più di duecento palestinesi contro una decina di ebrei)? Cosa importa se oltre un quinto di queste vittime saranno bambini e bambine? Occorre eccitare gli animi, far scattare la reazione di Hamas, che così rafforza il proprio insediamento crescente nella politica palestinese, sollevare il massimo polverone possibile per oscurare all’attenzione pubblica l’avvicinarsi del redde rationem processuale per restare ancora un po’ in sella e sperare che un’ennesima tornata elettorale possa restituire la maggioranza perduta e con essa l’impunità. Così Benjamin Netanyahu ha sfruttato degli ipotetici diritti di proprietà per far sfrattare da alcune case della città vecchia di Gerusalemme famiglie palestinesi che vi abitavano da decenni e forse secoli; ma perché il caos fosse completo ha fatto occupare la “spianata delle Moschee”, uno dei luoghi più sacro dell’Islam (la leggenda vuole che il Profeta proprio da questo luogo, la Cupola della Roccia, sia asceso al cielo) ed il cui accesso e controllato dalla comunità musulmana. La reazione dei palestinesi è stata unanime e non ha riguardato solo Hamas; per la prima volta ha visto la mobilitazione dei palestinesi israeliani. Che questo sia stato un passo falso?

Saverio Craparo