Guerra d’Africa

Ancora una volta questo paese va in guerra, senza un voto parlamentare, per decisione dell’esecutivo e per giunta mentre questi è dimissionario, prendendo a calci l’art. 11 della Costituzione con il quale l’Italia ripudia la guerra come strumento di composizione delle controversie internazionali. Si comincia con 24 istruttori e passa in second’ordine l’uso dei droni italiani che sono tra quelli tecnicamente più moderni in dotazione alle forze dei paesi Nato, a riprova di quanto siano alti gli investimenti italiani in acquisto di armi (americane).
Si dice che l’Italia interviene in risposta agli appelli internazionali contro il dilagare del sunnitismo jihadista, senza altri motivi apparenti, mentre in realtà si interviene in difesa di specifici interessi, per proteggere le fonti di rifornimento del gas algerino, strategico per l’economia italiana e qualcuno timidamente ricorda l’incarico di Romano Prodi come inviato dell’ONU a mediare sulla situazione politica nell’area, il quale peraltro prevedeva un intervento militare solo per il settembre del 2013. Ma la Francia ha rotto gli indugi e dal canto suo l’Algeria ha usato il pugno di ferro contro i sequestratori di un impianto di
estrazione di gas senza preoccuparsi delle conseguenze per i sequestrati, alzando così il livello dello scontro con gli integralisti dopo la visita di Hollande ad Algeri.

La guerra contro l’Islam e gli interessi economici delle grandi potenze

Quella che è in corso è insieme una guerra di una parte dell’Islam contro se stesso, la lotta di alcune etnie per creare entità politiche autonome e l’intervento straniero, soprattutto francese, per proteggere i propri interessi economici in quest’area.
Quel che sta accadendo è poi uno dei primi contraccolpi dell’intervento in Libia voluto ancora una volta dai francesi che, eliminando Gheddafi, al fine di ristrutturare le quote di accesso alle fonti del petrolio libico, hanno fatto fuori colui che per anni aveva gestito i rapporti tra le diverse componenti etniche e politiche sul campo, facendo da gendarme, impedendo il prevalere di una delle parti e mantenendo un precario equilibrio.
Gli attori senza dubbio più dinamici sul campo sono Aqmi (Al Qaeda del Magheb islamico) e Mujao, il jihad in Africa occidentale, i quali hanno come principale nemico l’Islam del Mali, del quale vogliono cancellare perfino il ricordo, distruggendo i mausolei dei più eminenti saggi islamici, come hanno fatto a Timbuctù. Il jihadismo per prevalere deve distruggere il pluralismo islamico, re-islamizzando le masse, affermando l’esistenza di una sola lettura del Corano e chiamando tutti alla guerra santa (la jihad, appunto) che è lo strumento di espansione dell’Islam nel mondo. Si rompe così quell’equilibrio che aveva permesso una parziale pacifica islamizzazione dell’Africa, si distrugge l’Islam delle confraternite e quello dell’antica ricerca scientifica e della speculazione filosofica, e che per la sua tolleranza aveva consentito la convivenza tra etnie e appartenenti a religioni diverse.
Il quadro politico si complica a causa della lotta parallela delle popolazioni tuareg che si trovano a vivere in un’area dove le frontiere sono state tracciate con la squadra dalle potenze coloniali e dividono etnie e popoli, dando vita a delle entità statali che non tengono conto dei caratteri comuni del Sahel abitato prevalentemente da costoro soprattutto nella zona centrale. Così il cosiddetto popolo azzurro viene ridotto ad
un’entità inesistente e va alla ricerca di un proprio Stato.
Oltre alle motivazioni su esposte guidano i contendenti gli interessi economici, soprattutto della Francia, interessata alle risorse naturali presenti nel nord del Mali. Dal 2010, si è infatti scoperto che il sottosuolo maliano è ricco di petrolio e di uranio. Il Paese si trova a fianco alle maggiori riserve di gas dell’Algeria e di uranio che va ad aggiungersi a quello del Niger – tanto indispensabile alle centrali nucleari francesi – di
petrolio che va ad integrare quello della vicina Nigeria. Per la sua natura desertica e la posizione strategica il territorio del Nord Mali è inoltre al centro del passaggio del traffico di droga che va verso l’Europa.
Ce n’è abbastanza per giustificare un intervento armato, tutt’altro che umanitario o in difesa della cultura e dei mausolei islamici. Ci sono tutti i presupposti strutturali perché si sviluppi in quest’area uno dei terreni di scontro nei quali le brigate internazionali jihadiste combattano la loro battaglia per la costruzione del califfato e dell’unità di tutto l’Islam sotto un’unica bandiera, dalla Bosnia all’Ossezia del Nord, dall’Afganistan
alla Siria, dallo Yemen al Maghreb, dalla Somalia al Mali.
Se questo piano si realizzasse verrebbero cancellati secoli di confronto culturale, di differenziazione filosofica, teologica, religiosa e sociale in tutta la dār al-Islām,, letteralmente la “Casa dell’Islam”, ovvero i territori che sono sottoposti al governo politico e giuridico dell’Islam, ripristinando la vigenza totale e assoluta
della Sharia.

Una risposta è possibile

La prospettiva di lasciare campo libero all’Islam integralista e fondamentalista lascia perplessi tutti coloro che sono convinti della necessità di promuovere una convivenza pacifica dei popoli, che credono nella necessità di poter sviluppare la propria vita in una società laica che garantisca sotto il profilo delle libertà civili e comunque consenta condizioni di vita almeno dignitose sotto il profilo economico e sociale. E’ per questo
motivo che la guerra trova in parte della sinistra adesione, quanto non comprensione, soprattutto quando si è convinti che un’altra strada è impossibile.
Eppure proprio in un paese confinante con il Mali, il Burkina Faso (letteralmente, Terra degli uomini integri) negli anni dal 1983 al 1987 operò Tomas Sankara e il suo movimento che cercò di cambiare radicalmente il paese, attuando una serie di vaste riforme sociali. Egli ebbe il coraggio di attaccare in piena assemblea delle Nazioni Unite i paesi ricchi che strozzavano, attraverso il debito estero, i paesi poveri.
Fu il primo presidente africano a denunciar la piaga dell’AIDS, a combattere le mutilazioni genitali femminili, a battersi per i diritti della donna considerata il motore dello sviluppo economico e sociale, a intensificare la produzione agricola e manifatturiera del paese, indossando egli stesso gli abiti prodotti nel suo paese, garantendo a tutti l’accesso all’acqua. Visse da povero e tolse privilegi alle classi abbienti, parificò il proprio stipendio e quello dei dirigenti del suo paese a quelli medi dei funzionari statali. A causa della sua politica venne ucciso nel 1987 su mandato della Francia, anche allora governata dai socialisti, e dai servizi segreti degli Stati Uniti. L’esempio di Tomas Sankarà dimostra che un’altra soluzione è possibile: sviluppare,
sostenere e combattere promuovendo in ogni modo la lotta di classe.

Gianni Ledi

Su Sankara vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Sankara;
Ma soprattutto si può ascoltare l’attualissimo discorso tenuto ad Addis Abbeba pochi mesi prima di essere assassinato, sul rifiuto di pagare il debito da parte degli africani, sul ruolo del neocolonialismo e delle banche europee:
http://micheledotti.myblog.it/archive/2008/09/19/il-grande-thomas-sankara-nel-celebre-discorso-contro-ildebi.html