In un momento in cui gli occhi e l’attenzione di tutti sono rivolti ai lavoratori dell’industria colpiti dalla disoccupazione e dalle delocalizzazioni delle imprese, mentre si riduce sempre più il tessuto produttivo manifatturiero e di trasformazione, ogni tanto affiorano i problemi dei lavoratori dello Stato e dei servizi sotto forma di come ridurne il numero e provvedere ai licenziamenti.
Si dimentica che il pubblico impiego è sotto attacco da tempo mediante il blocco del turn-over, l’introduzione di contratti di lavoro precario e a tempo, l’esternalizzazione di servizi ecc.. Questo settore è diventato, a partire dal 1993, il cantiere di sperimentazione delle forme di lavoro precario e destrutturato, il luogo della negazione dei diritti. Se solo si calcolasse il rapporto tra lavoratori assunti a tempo indeterminato e
lavoratori precari in questo settore ci accorgeremmo che la percentuale è la stessa dell’industria. L’aggravante è costituita dal fatto che i dirigenti di questi settori sono spesso inefficienti e incapaci, super pagati, gestori di rapporti di poteri clientelari molto legati alla politica. Eppure nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti e anzi ai livelli più alti troviamo retribuzioni nettamente superiori a quanto avviene in altri paesi.
Se parliamo di servizi in senso ampio e comprendiamo all’interno di questo settore anche la sanità e l’attività di migliaia di enti che operano sul territorio, vediamo che essi consumano una parte rilevante del bilancio dello Stato e forniscono in cambio servizi spesso inadeguati e comunque in un situazione in cui accanto a punti di eccellenza (pochi) vi sono molti settori in sofferenza le cui attività provocano le proteste dei
cittadini-utenti.
Si è detto che, a partire dal 1993, il datore di lavoro pubblico avrebbe dovuto adottare i criteri operativi del datore di lavoro privato, come se questi fossero per definizione sani. Il risultato è stato quello di accrescere le inefficienze, aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, disarticolare l’organizzazione dei servizi. Anche grazie al ricorso alla sussidiarietà: si è consentito ai privati di erogare servizi di interesse pubblico, ricavando da queste attività un profitto e prosciugando ulteriormente le risorse pubbliche.
I lavoratori del pubblico impiego
Per anni le stesse organizzazioni sindacali hanno alimentato una contrapposizione tra lavoratori pubblici e privati tanto più che, mentre questi si facevano rappresentare da CISL e UIL oltre che da una miriade di sindacati autonomi, nel settore privato prevaleva la presenza della CGIL. Ne’ ha inciso su questa situazione la nascita del “sindacalismo alternativo” o “di base”, anche se è riuscito in alcuni casi a creare isole di presenza
significativa sia nel settore pubblico che privato.
Il motivo dell’insuccesso del sindacalismo conflittuale nel settore pubblico dipendeva e dipende dalla politica di concertazione sostenuta da CISL UIL e autonomi che hanno trovato nella mediazione e nella codeterminazione la carta vincente per riversare sui loro rappresentati i benefici del rapporto istaurato con le Amministrazioni. Il malcostume della cogestione si è esteso a volte anche alla CGIL con la creazione di cooperative parasindacali che prendevano in esclusiva gli appalti nella sanità o forme di gestione del lavoro precario. Le agenzie di lavoro interinale, fiorite dopo la controriforma del mercato del lavoro Treu – Biagi erano in molti casi una creazione dei diversi sindacati per gestire questi rapporti.
Di provvedimento in provvedimento la rappresentanza sindacale nel pubblico impiego è precipitata verso livelli vergognosi e il degrado dei rapporti di rappresentanza ha prodotto una crisi di adesione dei lavoratori, spesso mascherata dall’aumento dei pensionati, tendenza che va in parallelo con la crescita delle attività di patronato dei sindacati, a partire dai CAF.
Ma più la crisi ha preso a mordere, più i livelli di vita si riducono con l’attacco alle pensioni, ai servizi, all’assistenza sanitaria, più si sono create forse le condizioni per un cambiamento strutturale dei rapporti di rappresentanza. Già durante la gestione del Ministero del lavoro da parte di Sacconi e dei Governi da parte della destra, si erano ridotti, sotto la spinta dei lavoratori che giudicavano insopportabile questo clientelismo, i
privilegi e le sacche di protezione garantite dai sindacati CISL UIL e autonomi e questa tendenza sembra essersi accresciuta con il Governo Monti. I lavoratori hanno fiutato il vento del cambiamento e quando dopo 4 anni sono stati chiamati a votare per le RSU, a scegliere chi deve rappresentarli negli uffici e sui posti di lavoro e hanno deciso di partecipare numerosi al voto.
Le RSU e la conflittualità ritrovata
Se si guardano i dati dell’affluenza al voto si rileva, come primo elemento, la crescita della partecipazione, segno che i lavoratori si sentono minacciati anche nei loro diritti più elementari. Gli organismi comunque eletti sono quindi supportati da un maggior consenso e saranno tanto più forti quanto più sapranno rapportarsi a quei gruppi di lavoratori che non sono da esse rappresentati e che svolgono lavori esternalizzati,
incidendo sull’organizzazione complessiva del lavoro e sull’erogazione dei servizi (dalle ditte di pulizia, ai servizi di portineria, di mensa, ecc.).
I risultati elettorali segnalano ovunque un arretramento della CISL e della UIL come degli autonomi e un sostanziale mantenimento delle posizioni del “sindacalismo di base”. A determinare questo risultato è stato il mutamento strutturale delle relazioni sindacali che è in corso per quanto riguarda CISL UIL e autonomi, mentre a contenere l’espansione del “sindacalismo di base” è stata la determinazione con la quale sono scesi in campo gli iscritti CGIL i quali sempre più sottopongono a un attento controllo i loro dirigenti e la politica della confederazione, spesso giungendo a mettersi personalmente in gioco per quanto riguarda gli incarichi sindacali ricoperti ma non lasciano l’organizzazione, della quale si sentono gli effettivi titolari.
Ovunque in crescita, spetta alla CGIL il compito di imporre elementi di democrazia nella gestione delle lotte e nel funzionamento stesso delle RSU. Ciò significa che le piattaforme contrattuali e rivendicative vanno costruite dopo una discussione articolata in assemblee decentrate, che esse vanno approvate in assemblea generale e pubblicizzate, supportate da mobilitazioni e lotte alimentate da una puntuale e pubblica informazione sulla conduzione delle trattative, in modo che le posizioni delle parti vengano evidenziate. Sarà così stimolata la partecipazione consapevole di tutti alla mobilitazione e alla lotta. Ancora ai lavoratori toccherà valutare le intese raggiunte, nella consapevolezza che la controparte con questo Governo sembra aver deciso la fine della concertazione e intende gestire gli uffici e i servizi attraverso un rapporto di tipo dirigenziale.
Ciò significa che occorre una costante vigilanza, una marcatura stretta dell’attività dell’amministrazione, la quale va incalzata sui singoli problemi, a partire dal posto di lavoro, iniziando proprio dall’organizzazione del lavoro e dei servizi. Da qui la necessità che le forme di mobilitazione da adottare dovranno tenere conto degli utenti e cercare di stabilire con loro un’alleanza su obiettivi condivisi.
Occorre sempre ricordare che molta parte dei servizi pubblici fa parte dei beni comuni e consente il godimento dei diritti essenziali e irrinunciabili: si va dalle scuole agli asili, alla sanità, alla distribuzione dell’energia e dell’acqua, ai trasporti. In questo caso i lavoratori del settore sono portatori di un interesse generale per una corretta gestione dell’ente.
Tornano perciò utili le esperienze del sindacalismo libertario, fatto di azione diretta, di partecipazione diretta, di un sindacalismo che rifiuta la rappresentanza di mestiere in nome dell’impegno e della lotta.
Rocco