Una delle premesse della crisi attuale consiste nell’accresciuta concorrenza tra potenze, conseguente alle implicazioni tecnologiche della ristrutturazione capitalistica e all’ingresso di nuove potenze nel mercato globale.
Ciò ha acuito lo scontro imperialistico sui mercati internazionali, imponendo una ristrutturazione dei cicli produttivi e dell’organizzazione del lavoro ispirata alla massima flessibilità delle risorse impiegate nella produzione, che ha reso difficile ogni tentativo di pianificazione definitivamente vanificando la concertazione, effimero cavallo di battaglia del riformismo fin dalla fine degli anni ’80 del novecento.
Questa esigenza capitalistica di flessibilità nell’impiego delle risorse produttive e, quindi, anche della forza lavoro, ha impresso una nuova spinta qualitativa allo scontro di classe, una spinta che ha sorpreso le organizzazioni sindacali riformiste attestate su analisi superficiali e autoreferenziali del divenire capitalistico, incapaci di rappresentare la classe dei lavoratori polverizzata dalla ristrutturazione dell’organizzazione dei cicli
produttivi così come si è affermata in questi ultimi trenta anni.
In un simile contesto la reazione del sindacalismo riformista è stata differenziata. Si sono infatti verificati due schieramenti uno, che potremmo definire neocorporativo, è quello rappresentato da CISL e UIL le quali, per difendere il ruolo concertativo, si sono completamente subordinate alle esigenze del capitale così come sono state interpretate dal governo Berlusconi prima e dal governo Monti oggi, incrementando una già
accresciuta disponibilità alla trattativa a scapito degli obietti i da perseguire, nel senso della difesa degli interessi dei lavoratori e degli strati sociali più deboli e indifesi della società. L’altra reazione, espressa dalla CGIL, è stata più complessa, articolata e contraddittoria e, soprattutto, non scevra da gravissime punte di caduta che, come l’accordo del 28 di giugno us, ipotecano gravemente un percorso di opposizione ai piani del capitale, così come si è proficuamente manifestato nel corso di questi ultimi dieci anni.
Anche il recente riavvicinamento con CISL e UIL deve essere letto in un contesto più ampio di quello angusto in cui versano attualmente i vertici dei maggiori sindacati riformisti che appaiono sempre più distanti dalla realtà della crisi. Questa si misura, infatti, non tanto in termini di “coesione sociale”, termine onnivoro intriso di umori neocorporativi, quanto in termini di unità di classe che deve essere perseguita difendendo gli interessi dei lavoratori e degli strati sociali più deboli e indifesi della società, in altre e più immediate parole: aumenti salariali, maggiori tutele, maggiori diritti.
E’ in questo orizzonte che trova la sua collocazione l’unità sindacale intesa non come sommatoria dei compromessi che regolano i rapporti dei vertici sindacali CGIL – CISL – UIL legate ai partiti politici parlamentari ma, più realisticamente, come processo unitario che deve contrapporre gli interessi dei settori sociali travolti dalla crisi contro i piani del capitale.
Una valutazione realistica dei rapporti tra capitale e lavoro, conseguente a una obiettiva analisi della crisi, che CISL e UIL volentieri cancellano per non avere vincoli al loro praticistico operare, e che anche la CGIL omette per non compromettere quello che potremmo definire “lo strisciante processo di unità dei vertici sindacali” sempre più a scapito della difesa degli interessi dei lavoratori, impone molta determinazione e,
soprattutto, nessuno si sogna di non trattare, così come malevolmente anche il gruppo dirigente della CGIL imputa alla sua scompaginata opposizione interna. La nostra opposizione alla concertazione non significa assolutamente l’indisponibilità alla trattativa a cui contrapporre il braccio di ferro della lotta “dura e pura” secondo le stucchevoli idiosincrasie riformistiche e borghesi.
Il problema consiste, molto più semplicemente, nel come e perché sedersi al tavolo della trattativa, per quali obiettivi e, va detto, anche per quale modello di società da contrapporre al liberismo della borghesia imperialistica europea. Sono questi obiettivi necessariamente alti, poiché altissima è la posta in gioco: si tratta non solo di difendere, ma di rilanciare quelle conquiste a suo tempo faticosamente realizzate in cento anni di
lotta di classe. E’ su questo piano che si dimostra tutto l’allarmante ritardo del riformismo confederale, e anche l’opposizione che la CGIL ha espresso ai piani del capitale rischia di essere travolta sia per le sue contraddizioni che nel XVI congresso non ha risolto, sia per la debolezza del suo gruppo dirigente ma, soprattutto, per la divisione della sua opposizione interna.
Diciamo queste cose perché i sintomi di un riallineamento della CGIL con la deriva neocorporativa intrapresa da CISL e UIL sono evidenti; un’evidenza maturata in conseguenza dell’accordo del 28 di giugno us: si privilegiano gli accordi di vertice alla partecipazione dei lavoratori, si manifesta disponibilità a trattare sulla validità del contratto di lavoro quale strumento nazionale, ci si dimostra disponibili ad assumere in qualche modo la tesi della rigidità del mercato del lavoro difendendo, con scarsa convinzione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, si frena una vertenza contrattuale generalizzata per cospicui aumenti salariali uguiali per tutti sia nel settore pubblico che nel settore privato. Lasciamo per ora perdere CISL e UIL: è la CGIL che continua,
come nulla fosse, ad essere invischiata nei tentativi di concertazione.
Se di nuove relazioni sindacali c’è bisogno queste dovranno vedere la CGIL sedersi al tavolo della trattativa, non per minacciare “la lotta dura senza paura” secondo le malevole caricaturizzazioni dei borghesi e dei burocrati sindacali ma, viceversa, per manifestare la garanzia di una opposizione sociale intransigente, che affermi a lettere chiarissime che la crisi è della borghesia capitalistica e che l’uscita dovrà redistribuire in
termini salariali quella ricchezza sociale prodotta che, in questi anni, ha incrementato rendite e profitti; che ogni tentativo di contrarre diritti e tutele sarà respinto; che l’obiettivo strategico dovrà essere quello di costruire un forte sindacato europeo per il perseguimento di un contratto dei lavoratori d’Europa, non subalterno agli obiettivi della borghesia europea, ma conseguente alla difesa degli interessi dei lavoratori.
In una dimensione aspra della crisi la CGIL ha assunto il ruolo di unica efficace opposizione ai piani del governo e del capitale e, per questo suo ruolo, è stata sottoposta a tentativi di isolamento e di denigrazione.
Quella di oggi è una CGIL profondamente diversa da quella degli anni ’80 quando sognava, svolta dopo svolta, di poter condizionare lo sviluppo capitalistico moderando i salari e le richieste dei lavoratori nella speranza, risultata poi vana di ottenere quelle vagheggiate riforme di struttura che non sarebbero mai arrivate.
Quanto queste svolte – pensiamo a quella dell’EUR del 1978 – abbiano indebolito le condizioni di vita dei lavoratori, la loro capacità di resistenza assieme a quella delle loro organizzazioni sindacali rafforzando le componenti più aggressive del capitale, lo dicono i dati statistici. In questi trenta anni il reddito da lavoro è, in Italia, il 41% del PIL contro il 50% di quello espresso dai grandi paesi europei (la media europea raggiunge
quasi il 48% del PIL).
La CGIL non è, obiettivamente “il sindacato di classe”, né potrà diventarlo. Continua a pesare la sua natura concertativa di solido sindacato riformista disponibile a recepire le sirene delle compatibilità con il sistema capitalistico: ma è interesse dei lavoratori e delle classi subalterne che sia difeso e consolidato questo suo ruolo di opposizione, sia pure contraddittoria, poiché è l’unica premessa certa, non volontaristica o, peggio
ancora, settaria, per rilanciare un processo attivo di unità di classe che ponga le premesse per una riscossa del lavoro.
Giulio Angeli