Ha vinto la paura?

Per un mese ed oltre il Governo si è arrabattato a cercare di eliminare il referendum sulle centrali elettriche ad energia nucleare dagli altri, nella convinzione che l’emozione provocata dal recente disastro giapponese provocasse un massiccio afflusso alle urne, trascinandosi così dietro il quorum sugli altri tre quesiti, quello sul “legittimo impedimento” in particolare. Il tentativo è stato esperito fino al limite estremo, ed in
extremis, con il ricorso alla Corte Costituzionale, che ha fornito il definitivo via libera solo pochi giorni prima dell’apertura delle urne. È vero che una specie di maledizione ha sempre segnato i referendum sullo sfruttamento dell’energia nucleare nel nostro paese col verificarsi di un incidente di gravissime proporzioni dopo il loro avvio e prima del voto: la volta precedente fu Chernobyl e questa Fukushima. Per anni è stato detto
che il radioso futuro nucleare italiano era stato frettolosamente accantonato per la paura suscitata da quanto accaduto in Ucraina. È l’ora di fare chiarezza.
Dei quattro referendum per cui si è votato il 12 e 13 giugno quello sulle centrali nucleari è stato quasi il meno votato (battuto solo da quello sul legittimo impedimento), ed è quello che ha collezionato il numero più alto di voti negativi: quindi facendo i calcoli risulta il “meno gradito”! se ne deduce facilmente che l’orrore giapponese non ha influenzato gli elettori ed è quindi logico supporre che anche nel 1986 il fatto emotivo abbia poco influenzato il voto dei cittadini: il rifiuto dello sfruttamento dell’energia nucleare per produrre energia elettrica ha solide basi razionali, con buona pace dei suoi pinocchieschi sostenitori. Certo l’irrangiungibilità della sicurezza, il problema irrisolto dello smaltimento delle scorie radioattive, pesano nella coscienza di chi si fa un’opinione su questi argomenti: non è più possibile oggi sostenere che in Ucraina il reattore “sovietico” non rispettava gli standard di sicurezza e tutto il problema risiedeva in questa approssimatività, se un evento di enormi proporzione si verifica poi nell’efficientissimo ed ipernuclearista Giappone. E tutti sono in grado di rendersi conto che il nucleare “intrinsecamente sicuro” è una chimera, e che un incidente ad una centrale è un evento i cui effetti non trovano paragoni possibili. Certo, dopo trent’anni, si fa fatica a raccontare alla gente che il problema delle scorie troverà una soluzione, se ancora questa non si intravede. Ma i problemi sono soprattutto altrove.
Primo fra tutti l’enormità dell’investimento iniziale per avere un ritorno di energia prodotta dopo oltre un decennio e con un risultato complessivo che poco incide sul fabbisogno globale di energia e sulle importazioni di materie prime energetiche. Secondo di poi il costo del kWh nucleare, che, nonostante quanto sostengono coloro che fanno male e dolosamente i conti, è tale da dissuadere qualsiasi privato ad investire nel settore, che infatti prospera solo laddove i governi se ne fanno completamente carico. Infine la questione relativa alla localizzazione, che non a caso ha visto le regioni del Nord, uniche ad avere dei siti possibili (anche se è dubbio
che la portata del Po sia ancora tale da permettere un’adeguata dispersione di calore come un tempo), schierarsi contro un insediamento nel proprio territorio, anche se sono tutte a conduzione filogovernativa.
Quello che si può affermare è che Fukushima ha fatto da detonatore ai problemi che l’industria nucleare presentava da tempo ed il vittorioso referendum italiano costituisce un ulteriore elemento di crisi. Occorre distinguere subito tra industria e ricerca nucleare: nessuno può escludere che altre forme di energia nucleare si affaccino nel futuro e risultino tecnologicamente praticabili (anche se la fusione è un miraggio che continua ad allontanarsi nel tempo, sia quella calda, che quella fredda). Il rinunciare oggi alle attuali centrali nucleari non preclude certo ulteriori sviluppi diversi. Appare ridicolo presentare la situazione italiana come un’anomalia internazionale. Già da tempo la Germania sta fuoriuscendo dal suo programma nucleare; il Governo Merkel l’anno scorso aveva provato tra mille proteste a prolungare la vita alle centrali esistenti, perché da tempo non se ne costruiscono più: la scelta era pericolosa visto l’età delle centrali che si volevano mantenere in funzione ed è stata prontamente abbandonata. Il nuovo piano energetico tedesco prevede una copertura dei fabbisogni tra vent’anni pari all’80% da fonti rinnovabili.
È un fatto che nel mondo le centrali nucleari in costruzione o ordinate sono pochissime e concentrate per lo più in Cina ed India, sempre che questi paesi non rivedano anch’essi le proprie prospettive. In Europa solo la Finlandia ha una centrale in costruzione, un EPR francese come quelli che doveva acquistare l’Italia, da oltre
dieci anni e sembra prossima a dover rinunciare. Tutto questo e il risultato italiano mettono ulteriormente in crisi la già traballante industria nucleare francese, che tanti investimenti pubblici è costata a quel paese, che ora inizia ad uscire dall’ubriacatura dell’atomo e a porsi domande sulla sensatezza della scelta a suo tempo fatta di
puntare tutto su questa fonte per produrre energia elettrica.
I nostri cantori dell’atomo dicono che siamo l’unico paese industrializzato a non avere centrali nucleari, ma dimenticano che molti non ne costruiscono od ordinano più da molti anni e che quindi stanno solo finendo di sfruttare quelle a suo tempo installate. Anche la Gran Bretagna è in una fase di stallo e un tempo era una delle contrade dove più promettente era il futuro dell’atomo. Nessun reattore nucleare in costruzione o
progettato nel Regno Unito, nessuno in Spagna, nessuno in Svizzera, nessuno in Belgio, nessuno in Svezia e nessuno funzionante in costruzione o progettato in Portogallo.
Ma Obama, dicono sempre i cantori, punta sul nucleare! Che il Presidente del Stati Uniti d’America non fosse legato alla lobby del petrolio l’avevamo già detto fin dalla sua elezione. Il problema è che negli USA non si costruisce più una centrale da oltre un ventennio e solo due sono attualmente in fase di progetto; ciò per il semplice motivo che la produzione di energia elettrica è affidata ai privati i quali fanno i loro conti prima
d’investire, checché ne pensi il Presidente e quindi la sua opinione è priva di riscontri pratici, almeno che non decida di incentivare sostanziosamente l’industria elettrica e possa quindi dettare le scelte da fare, come ha dettato alla Chrysler i modelli da produrre. Ma visti i problemi di bilancio che oggi Obama si trova ad affrontare la cosa pare altamente improbabile.
Bisognerà dunque misurarsi su un credibile piano energetico nazionale e su questo terreno un elettorato in maggioranza attento a questo problema aspetta al varco i partiti di opposizione che non hanno nulla da festeggiare e devono pensare piuttosto a come superare la crisi di rappresentanza che anche i risultati referendari hanno evidenziato.

Saverio Craparo