La parola “globalizzazione” è divenuta negli ultimi quindici anni miracolosa[18]. Ad essa viene attribuito contemporaneamente ogni successo ed ogni disastro dell’economia mondiale. Tutti convengono, a parole, che essa sia, comunque, ineluttabile e con ciò ogni manovra, anche la più impresentabile, diviene giustificata. Oltre a rinviare a quanto già scritto nel documento più sopra citato, occorre ora tirare qualche filo di conduzione e trarre da essi delle conclusioni suffragate dalle esperienze dell’ultimo decennio
4.1. Concorrenza e monopolio
Il primo accostamento che sorge immediato nella mente è quello tra globalizzazione e concorrenza; si pensa che i due termini siano pressoché sinonimi, anzi la prima starebbe proprio a significare la concorrenza più globale e sfrenata che si possa immaginare: niente di più sbagliato. Storicamente i periodi di libero mercato, e quindi di concorrenza, hanno sempre dato, a partire della seconda metà dell’800, adito in breve tempo alla concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani, sono i periodi in cui nascono e si rafforzano oligopoli e monopoli. La ragione è semplice: nell’occupazione dei mercati si impongono coloro che hanno più risorse, che possono abbassare i prezzi (per poi rialzarli a piacimento una volta conquistato il proprio spazio non più scalabile), che hanno la possibilità di acquistare i brevetti e le innovazioni delle filiere produttiva. Il libero mercato non ha mai favorito i consumatori, ma gli speculatori.
Gli ultimi trent’anni non hanno fatto eccezione. Un pugno di finanzieri controlla ora il ciclo produttivo mondiale, decidendo dove e come spostare gli ingenti capitali di cui dispongono. I settori industriali conoscono un accentramento in poche aziende a livello mondiale, mentre chi non sta al passo fallisce miseramente e viene assorbito dai giganti che si sono costituiti. E sono questi pochi titani che si contendono il mercato residuo. Ne discende una concorrenza monca, spesso regolata da accordi tra pochi.
4.2. Dalla concorrenza del capitale alla concorrenza del lavoro
Non è la prima volta che nella storia recente si hanno improvvise accelerazioni nelle comunicazioni, tali da rendere più vicino ed accessibile ogni paese del globo. E non è la prima volta che il sistema capitalistico si avvale delle innovazioni tecnologiche per accelerare ed internazionalizzare i propri percorsi. Ad essere precisi la vera globalizzazione, quella più radicale ed incisiva, si è verificata all’inizio del XX° secolo con l’invenzione del telegrafo e poi del telefono. Con essi i capitali hanno cominciato a spostarsi con enorme facilità ed in tempo reale da un continente all’altro. Da allora poco è mutato in termini di velocità di comunicazione. Gli strumenti sono divenuti più efficaci e potenti, ma hanno conservata invariata la rapidità di veicolazione delle
informazioni.
Se ciò è vero, cosa è cambiato di profondo a distanza di un secolo? Contrariamente a quanto si possa credere non sono stati i nuovi mezzi di comunicazione a fare la differenza, ma altre innovazioni. Prima di tutto i nuovi processi produttivi sono stati notevolmente semplificati, con ciò rendendo più rapido e meno costoso spostare gli impianti: si pensi al declino degli altiforni ed ai nuovi sistemi per produrre l’acciaio. Ma
soprattutto, poi, la tecnologia informatica ha determinato tre effetti estremamente significativi, con la propria massiccia introduzione negli apparati di produzione. Un’ulteriore alleggerimento degli apparati fissi e strutturali. Una dequalificazione della prestazione lavorativa. Un’impensabile possibilità di accentramento dei controlli anche a distanze intercontinentali. L’adozione delle nuove tecnologie ha consentito inoltre la riduzione del volume delle scorte e una più efficiente gestione del magazzino e conseguentemente una migliore programmazione del flusso dei prodotti sul mercato.
Il primo effetto ha reso ancora più semplice delocalizzare un impianto in tempi brevi, a costi accettabili, anche se crescono quelli della logistica. Il terzo effetto, permettendo il controllo a distanza dell’andamento dei risultati produttivi e delle prestazioni della manodopera, consente di mantenere il cuore della pianificazione industriale in un paese, anche se le lavorazioni avvengono in un altro, ottimizzando la coordinazione dei vari spezzoni disseminati. Il secondo però è quello più affascinante per i capitalisti: la forza contrattuale dei lavoratori, anche solo parzialmente qualificati, frana a fronte di un’offerta di lavoro facilmente impiegabile nei nuovi processi di produzione, anche in assenza di un’adeguata preparazione. Cala quindi la necessità di trovare nei luoghi dove si intende esportare un impianto, quella manodopera adeguata, un tempo necessaria. L’esercito di riserva si allarga a dismisura e quella che doveva essere la fase della concorrenza tra gli imprenditori, diviene una spietata lotta per la sopravvivenza tra proletariati locali, rendendo determinante nel conflitto tra capitale e
lavoro il ricatto occupazionale.
Inoltre l’emigrazione ha contribuito ad inflazionare il mercato del lavoro interno, allontanando la manodopera autoctona da mestieri gravosi e usuranti, e moltiplicando l’esercito industriale di riserva in relazione a un mercato del lavoro che non richiede per larghe fasce di attività specializzazioni e conoscenze specifiche. C’è da rilevare infine che se si vanno a guardare i mestieri dei migranti ci si rende conto del fatto che essi dispongono di una scolarità medio alta e di livelli di specializzazione anche in attività che richiedono una qualificazione professionale specifica come muratori, meccanici, ebanisti, elettricisti, ecc.
4.3. Le regole come “lacci e laccioli”
In buona sostanza l’unico portato reale della globalizzazione non è stato un aumento della concorrenza capitalistica con conseguente abbassamento dei prezzi, ma uno scontro tra potenziali disoccupati. È dubbio tra l’altro che il perseguimento di una continua riduzione dei costi di manodopera, allungando le filiere produttive e comportando una lievitazione dei costi di impianto delle manifatture, comporti una reale diminuzione dei costi complessivi di produzione, se è vero come è vero che il lavoro incide ormai pochissimo (Marchionne parlava due anni fa di circa il 7%) sull’onere totale della merce prodotta.
Ma la riflessione da fare è un’altra. Questo continuo riproporsi della minaccia della delocalizzazione, come ricatto occupazionale, ripristina un dominio totale del capitale sulla forza lavoro, un dominio che non si riproponeva da oltre un secolo, dalla nascita dei sindacati nello scorcio del XIX° secolo. Ma i detriti che questo smottamento del potere contrattuale operaio porta con sé sono anch’essi allarmanti. Se l’obiettivo perseguito dal capitale è la minimizzazione dei costi di produzione, non è solo la compressione dei salari a farsi strada, ma anche tutti quei costi che possono essere a loro volta ridotti. Prima di tutte le garanzie sociali, con la messa sul mercato dei servizi a loro volta divenuti fonte di profitti. Tutte le spese, poi, per l’istruzione pubblica e per la
ricerca, i cui vantaggi sono posticipati nel tempo e quindi invisibili agli occhiali per la vista breve inforcati dal capitale finanziario. Pure la tutela del territorio e dell’ambiente diviene un altro costo superfluo, tant’è che si delocalizza là dove su questi temi non si è storicamente troppo sensibili.
Il problema che nasce è che per perseguire una competizione con i luoghi dove il costo del lavoro è basso, la tutela dell’ambiente inesistente, il welfare sconosciuto, i paesi dove tradizionalmente si è sviluppato il sistema produttivo capitalistico e dove più forti sono le tradizione del conflitto di classe, hanno solo tre strade.
La prima è quella di misurasi su di un livello diverso, cioè quello dell’innovazione e della qualità delle merci prodotte, via che può intraprendere un capitalismo lungimirante. La seconda è quella di far crescere una coscienza di classe dove essa non si è ancora sviluppata, che vuol dire equiparare verso l’alto le condizioni di vita della classi lavoratrici, ed è la linea che dovrebbero preferire i sindacati di classe (se esistessero) e tutti quei raggruppamenti che ancora credono in un futuro epurato dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La terza è quella di abbassare le richieste locali, svincolando l’investimento capitalistico da tutte le regole della civile convivenza, conquiste di decenni e decenni di lotta delle classi sfruttate, o come si dice sciogliere l’economia
dai “lacci e laccioli”: questa è la tendenza che sembra prevalere in molti paesi ed in particolare in Italia.
[18] La globalizzazione dell’economia come la circolazione di merci e di persone tra le diverse aree del pianeta costituisce un fenomeno i cui effetti sono stati analizzati almeno a partire da due secoli orsono. Cfr.: ADAM SMITH, Indagine sulla natura e le
cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Torino 1973, pp. 141 e 618. Pertanto secondo l’analisi economica del liberalismo classico il rinchiudersi nel localismo e il rifugiarsi nell’etnia significa porsi per molti versi al di fuori dell’inevitabile sviluppo
globale delle forze produttive e dell’economia.