3. Le prospettive mancate

3.1. Distretti: passato, presente e futuro
Nel 1995 Kenichi Ohmae[16] ha pubblicato un saggio dal titolo: La fine dello Stato-nazione. Il sottotitolo recitava senza giri di parole: l’emergere delle economie regionali. In esso Ohmae preconizzava un futuro, allora nascente, incentrato su quelli che sono stati chiamati “distretti industriali” e con la dissoluzioni delle nazioni come ce le ha consegnate la storia del novecento. La prospettiva era affascinante nel momento in cui le spinte autonomistiche crescevano nella vecchia Europa, soprattutto dopo il crollo dell’impero sovietico.
Non è che le tendenze alla divisione di aggregati più o meno omogenei siano ad oggi diminuite, anzi: il Belgio può essere un buon esempio di questa deriva. Ma la partita si sta giocando ad un livello diverso. La crisi genera panorami inattesi, spesso originati dalla presenza stessa di distretti forti e di distretti deboli. Nella tabella sopra riportata, all’inizio del secondo capitolo, alla quinta colonna, si parlava di sviluppo neuronale, ovverosia di una struttura del sistema produttivo generale fatto di poli di forte produzione e di linee di comunicazioni tra di essi e tra essi e i luoghi di approvvigionamento delle materie prime (corridoi). Ha funzionato tutto secondo
le aspirazioni?
Una prospettiva del genere abbisognava ed abbisogna di una regia non solo economica, ma anche politica.
La UE, ad esempio, poteva rappresentare il quadro politico in cui quella struttura poteva prendere corpo, ma l’assenza di un’Europa politicamente unita, come lo sono invece gli USA, sta destrutturando tutto, auspice la pessima congiuntura economica. Addirittura la moneta unica sta vacillando sotto le forze centrifughe che vengono a manifestarsi, e gli attori cominciano a muoversi in ordine sparso.
I distretti stessi soffrono della propria parziale intercambiabilità, accentuata dalla ricerca affannosa dei profitti in un mercato calante. Si creano frizioni e competizioni non sempre virtuose a lunga scadenza. E la realizzazione dei corridoi inciampa nella mancanza dei colossali investimenti necessari.

3.2. I limiti della delocalizzazione
“I maggiori limiti ad un’idea di totale intercambiabilità delle aree geografiche ai fini produttivi sorgono però da considerazioni meramente strutturali. Non è un caso che le zone di sviluppo individuate nel saggio di Ohmae appartenessero tutte a parti del mondo già interessate a processi di profonda industrializzazione. In effetti, per impiantare delle attività produttive in un luogo non necessitano solo gli spazi; occorrono infrastrutture, vie di comunicazione, manodopera adeguata, impianti industriali già esistenti di livello tecnologico non eccessivamente inferiori, etc. Le produzioni italiane che negli ultimi anni si sono spostate verso i paesi dell’est europeo, sono tutte di basso contenuto tecnologico; e occorre considerare che dei paesi che escono dall’economia di piano già godono di rilevanti vantaggi in termini di industrializzazione pregressa,
preparazione di manodopera, vie di comunicazione. Vaste aree dell’Africa, ad esempio, a tutt’oggi non si prestano assolutamente ad insediamenti produttivi, se non altro per l’assoluta impossibilità di veicolare merci in ingresso ed in uscita ad un ritmo soddisfacente. E come per l’Africa il discorso vale per oltre la metà della superficie del globo”. Quanto sopra detto, contenuto in un documento del 2000, non può che essere ribadito; va aggiunto che le aree di instabilità politica e le zone di guerra si sono da allora drammaticamente allargate, così che le zone adatte a delocalizzare le produzioni si sono ridotte all’America del Nord, parte dell’America del Sud, zone dell’Asia e alla vecchia Europa allargata ai paesi del defunto impero sovietico.

3.3. Il gioco dei quattro cantoni
Dal quadro sopra esposto derivano delle conseguenze che illuminano la mancanza di strategia del capitale di rischio ormai finanziarizzato. Infatti, spostare una produzione in una località dove il costo del lavoro è più basso, dove sono scarse o inesistenti le garanzie sociali, dove la disoccupazione è più elevata se può portare benefici immediati alla lunga risulta perdente. Prima di tutto occorre considerare che questi territori, avendo una struttura sociale meno coesa, sono più permeabili alla malavita organizzata ed alla corruzione. Quando, per un motivo qualsiasi, i riferimenti, che l’imprenditore in arrivo ha trovato per garantirsi la tutela dell’investimento, vengono meno, occorre ricominciare daccapo, con gli oneri che ciò comporta.
Ma c’è un altro problema. Il “benessere” che viene importato con il sopraggiungere di uno stabilimento industriale, prima o poi comporta il formarsi di un nucleo più forte di classe operaia, e con esso l’avanzare di richieste di maggiore salario, migliori servizi, insomma un incremento del tenore di vita. Nascono forme embrionali di sindacalizzazione e con esse il venir meno dei vantaggi della delocalizzazione in quelle aree. È ciò che sta iniziando a succedere a Shenzhen in Cina, con i primi scioperi e le prime richieste di un lavoro dignitoso per quei nuovi servi della gleba sognati dalle multinazionali e da tutti coloro che hanno spostato in quella zona dell’Estremo Oriente parte delle proprie produzioni.
I due fattori sopra esposti devono esser ben evidenti per il management della FIAT, che ha riportato indietro alcune parti di lavorazione a suo tempo trasferite in Polonia; gli operai si sono organizzati ed i riferimenti politici del paese, a suo tempo trovati, sono stati pressoché azzerati da un disastro aereo. Manca però la consapevolezza che questo gioco dei quattro cantoni non ha respiro e che a lungo andare risulta non solo non conveniente (spese di localizzazione, spese di logistica, spese di ristrutturazione delle linee di montaggio, etc.), ma addirittura dannoso: le nuove aree scelte sono troppo povere per acquistare i prodotti e quelle vecchie abbandonate si depauperano e non sono più in grado di assorbirli: il mercato inevitabilmente si assottiglia e la crisi non trova sbocchi.

3.4. Le nuove aree di sviluppo
Un discorso diverso va fatto per le aree di nuovo sviluppo. Intendiamo riferirci alla Cina (alla quale dedicheremo specifiche riflessioni) ma anche all’India, al Brasile, al Sud Africa. Questi paesi un tempo collocati tra quelli cosiddetti “emergenti” hanno ora sviluppato un sistema produttivo in grado di competere e fare concorrenza a quello Nord Americano, Europeo e del Giappone e la delocalizzazione in queste aree non
significa solo poter produrre a minori costi di manodopera ma anche, a secondo dei casi, disporre di un accesso più diretto alle materie prime e privilegiato al mercato interno di questi paesi fortemente in espansione.
Anche questi paesi si sono dotati a loro volta di aree sub produttive nelle quali delocalizzare a loro volta alcune produzioni, servizi finanziari, ecc. anche al fine di farne delle zone nelle quali la loro presenza è dominante. Allo stato attuale della crisi questi paesi sono gli unici a fornire sbocchi di mercato (non è un caso che nel 2010 le importazioni cinesi abbiano di gran lunga superato le esportazioni), ma nulla assicura che nel futuro questa situazione perduri, al momento in cui le produzioni locali assicureranno quanto necessario, senza troppo ricorrere alle forniture estere di know-how e di tecnologia[17].

[16] KENICHI OHMAE, The End of the Nation State – The Rise of Regional Economics, 1995, McKinsey & Company, (trad. it. La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie nazionali., Baldini&Castaldi), Milano 1996.
[17] FEDERICO RAMPINI, L’Impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, Mondadori, Milano 2007, p. 371; Id:, La speranza indiana. Storie di uomini, città e denaro dalla più grande democrazia del
mondo, Mondadori, Milano 2008, p. 245; SERGE MICHEL, MICHEL BEURET, Cinafrica. Pechino alla conquista del Continente Nero, Il Saggiatore, Milano 2009; RAFFAELE CAZZOLA HOFMANN, Cina, il boom made in Africa. Origini storiche e attualità di un nuovo assetto mondiale, Città Aperta, 2009. RICCARDO BARLAAM, MASSIMO DI NOLA , Miracolo africano. Leader, sfide e ricchezze del nuovo continente emergente, in Il Sole 24 Ore, 2010; ANDREA GOLDSTEIN, ANDRÉ URANI, Dove povertà ed esclusione coesistono con realtà d’eccellenza, Il Mulino, Bologna 2011; CARLO PIETROBELLI, ELISABETTA PUGLIESE, L’economia del Brasile. Dal caffè al
bioetanolo: modernità e contraddizioni di un gigante, Carocci, 2007; AA. VV., L’impresa verso i mercati internazionali, Focus Brasile, in Il Sole 24 Ore, Globalizzazione e mercati internazionali, 2010.