OSSERATORIO ECONOMICO

serie II, n. 9, novembre 2010

Crisi – nonostante i presunti segnali di ripresa, sbandierati solo pochi mesi fa, la discesa nel Maelström della crisi non accenna a diminuire. E non poteva essere diversamente, viste le politiche recessive attuate da tutti i paesi industrializzati. Neppure gli Stati Uniti sfuggono a questa legge, anche se timidi segnali di controtendenza erano stati dati dall’Amministrazione Obama. E’ proprio per non aver con sufficiente coraggio dato risposte concrete all’elettorato più disagiato e colpito dalle nuove povertà, che il primo Presidente di colore ha perso le elezioni di medio termine; è la disaffezione del proprio elettorato, che, illuso dalle promesse si era recato a votare due anni fa, e non si è recato alle urne questa volta, che ha segnato la sconfitta di Obama; e non è vero, come fantasiosi opinionisti sostengono, la vittoria sia andata alla nuova aggressività
repubblicana dei tea party. Anzi la campagna irruente della destra mette in difficoltà la
tenuta del partito e la candidata Palin degna compagna dei gaffeur che ormai dominano
il panorama politico internazionale, difficilmente potrà essere vincente nel 2012. Certo è
che la debolezza del Presidente degli Stati Uniti fa rialzare la testa a quelle lobby
economiche che si erano viste messe un po’ in disparte dal suo arrivo alla Casa Bianca
perché soppiantate da altre.
L’epicentro della crisi resta comunque il vecchio continente, percorso giornalmente
da annunci di imminenti disastri. Certo che appare curioso che siano i paesi che solo
quattro anni fa erano additati come i più virtuosi, i più solidi economicamente, quei
modelli che dovevano esse imitati dagli altri al grido di “liberalizziamo anche l’aria” e di
“largo agli speculatori finanziari”, che oggi mostrano la corda più degli altri; tanto da
minacciare la tenuta della moneta unica. Sono i famosi “pigs” (Portogallo, Irlanda. Grecia e Spagna), seguiti a ruota da Belgio e Italia.
Sembra strano annoverare l’Italia tra i paesi leader dell’innovazione, ma occorre
ricordare l’ansia di liberalizzazioni che ha animato gli anni dei governi di centro sinistra
(e non quelli di centro destra, impantanati nelle beghe giudiziarie); e ricordare anche che il mercato del lavoro italiano è divenuto tra la fine del secolo e l’inizio del nuovo il più flessibile d’Europa, grazie ad un manipolo di giuslavoristi, tutti legati alla carro di quello che fu il PDS, adesso PD. Ora è chiaro che un mercato che non assorbe merci per mancata disponibilità di mezzi di acquisto, non può rilanciare il ciclo economico. Succede che la Germania regge la propria congiuntura con la produzione di merce qualitativamente elevata che investe un settore di acquirenti di fascia media, in restrizione sì, ma ancora sufficientemente vasto, soprattutto in quel paese, che di una seppure debole redistribuzione della ricchezza ha fatto un asse forte del proprio piano economico nel secondo dopoguerra. L’Italia, invece, ha sviluppato due linee di produzione: il “made in Italy”, offerta di lusso che soddisfa la richieste della fascia più alta dal punto di vista economico anche a prezzi evidentemente troppo elevati, che non hanno riscontro sull’effettivo valore della merce (questo settore è quello che soffre meno la crisi, ma riguarda poche aziende con maestranze relativamente poco numerose); è la produzione tradizionale di massa, che non trova mercato nella fascia media dei consumatori attratti da prodotti qualitativamente più alti e neppure nella fascia di consumatori che vede costantemente calare le proprie capacità di acquisto e che propendono verso prodotti, forse di minor pregio, ma di costo incommensurabilmente inferiore, provenienti in particolare dalla Cina o dai laboratori cinesi in Italia. È una concorrenza imbattibile allo stato attuale.
L’intremontabile superministro dell’economia, nella sua miopia da fiscalista privo
di basi di teoria economica, continua a tagliare risorse e di conseguenza a deprimere il
mercato; in questo aiutato e affiancato dagli burocrati tenacemente monetaristi. Quindi
le prospettive sono buie se anche la aquile di “sinistra” non vedrebbero male un sua
ascesa a Palazzo Chigi. C’è però una teoria di cui si vanta di essere l’astuto artefice. Nel debito delle nazioni non basta guardare all’indebitamento dello Stato (sul quale l’Italia è quasi il fanalino di coda con un ammanco altissimo e che cresce annualmente), ma anche all’indebitamento dei singoli cittadini (che è vero che ha determinato il disastro cui assistiamo, e che vede l’Italia tra i paesi più virtuosi e più propensi al risparmio).
Dimentica due cose. La prima è che sul debito pubblico paghiamo ogni anno oneri
enormi tutti e tali da impedire un rientro in tempi di medio termine, anche perché la
debolezza del paese impone una crescita degli interessi da pagare per fare acquistare i
titoli di Stato e quindi si traduce in ulteriore debolezza; mentre i debiti dei privati
interessano le banche ed i si Germania ngoli che li hanno contratti. Il secondo è che il
risparmio va alle banche e non allo Stato e quindi non sanano alcuna situazione; e per di più, data la congiuntura in cui la massa salariale tende costantemente a diminuire,
inevitabilmente anche la virtuosa disposizione al risparmio degli italiano conoscerà un
declino molto rapido.

Chiuso il 30 novembre 2010
Saverio Craparo