Ancora una volta, partito in salita, Berlusconi con un guizzo di reni ha risalito la china. È vero, le armi del mestiere sono sempre le stesse. Il carnefice si presenta quale vittima e molti abboccano. Terrorizzato da un confronto politico vero (se ci fosse un avversario capace) si accredita quale grande comunicatore con una missione salvifica. Ma il suo capolavoro è quella di presentare una caporetto elettorale (dalle dimensioni inferiori alla previsioni della vigilia, è vero) in una vittoria per il suo Governo, nella perdurante afasia delle opposizioni.
A fronte delle previsioni della vigilia, che davano vincenti in Lazio Emma Bonino ed in Piemonte Mercedes Bresso, gli azzurri hanno tirato un sospiro di sollievo ed i riti iniziatici della settimana precedente alle elezioni, in Piazza San Giovanni, sembrano aver sostenuto il Governo in una fase molto delicata.
I numeri sono però impietosi: il PdL, in meno di un anno, ha perso il 5,7%; dato solo parzialmente sostenuto dall’affermazione della Lega Nord, che dalle europee del 2009 ha guadagnato l’1,1%. Quella che tutti definisco la débacle del PD è consistita in una flessione dello 0,5% accentuata dall’“affermazione” dell’Italia dei Valori (-0,8%). Anche il centro (l’UDC) cala dello 0,7%. Ma se tutti hanno perso voti (Lega compresa, –
147.305), dove sono andati a finire?
Milioni di voti sono andati in fuga verso l’astensione e questo spiega perché la Lega Nord, pur perdendo un po’ di voti e mostrando un elettorato molto stabile, abbia ottenuto un aumento percentuale. Ma tutti gli altri calano percentualmente, e qualcuno in modo vistoso, quindi a questi conti manca circa il 13,2%, pari a 2.965.767 voti. Si noti che questo non è il numero delle astensioni, ma quello di voti validi andati ad “altre
liste”.
Partendo da questo ultimo dato i contorni dei risultati del 28/29 marzo si fanno più nitidi. Per iniziare al 13,2% vanno sottratti voti per il 3,5%, disseminati tra la liste Cinque Stelle di Beppe Grillo (1,8%) ed altre liste locali (1,7%) e resta, pertanto, da assegnare il 9,7%. Di questi suffragi il 4,2% è da assegnare al PdL ed il 3,5% al PD. Si tratta di liste collegate e che spesso rappresentano quelle personali dei candidati Presidenti regionali.
Non fa parte di queste la lista Polverini in Lazio (circa il 26%), che è già stata accreditata al Popolo della Libertà, viste le note vicende collegate alla mancata presentazione della sua lista nella Provincia di Roma.
Poiché le suddette liste collegate non possono essere attribuite alla Lega, che marca la propria identità ovunque si presenti, il 4,2% di cui sopra è quasi per intero patrimonio elettorale di Berlusconi, la cui sconfitta si ridimensiona al –1,5%, che non è comunque poco ad un solo anno dalle europee, soprattutto se si considera che nel 2009 il suo partito era già calato di circa il 2% rispetto alle politiche dell’anno prima. Il calo del Pd L è compensato ad usura dalla crescita della Lega, che col +4% in due anni, il che rafforza la coalizione di centrodestra, che però non più contare sull’1,1% del Movimento per l’Autonomia del siciliano Raffaele Lombardo.
Il problema per lo sciamano non è quello della coalizione di Governo, che bene o male sta tenendo le posizioni, ma che il peso elettorale dell’alleato leghista sta crescendo al di là di ogni previsione. Se nel periodo tra il 2001 ed il 2006 (secondo e terzo Governo Berlusconi) la Lega aveva visto oscillare le proprie fortune elettorali tra il 3,9% ed il 4,6%, nel 2008 ha raggiunto l’8,2%, nel 2009 il 11,2% ed ora il 12,3%: una crescita
incontenibile. D’altronde è la Lega che detta l’agenda politica del Governo e che ancora di più la detterà a partire da questo momento.
Il lato del centrosinistra mostra l’aria funesta della sconfitta; eppure il dato elettorale mostra una leggera risalita del PD, considerando le liste collegate e quindi una continua risalita dalla voragine veltroniana. Ma i motivi di riflessione ci sono tutti. Il risultato regionale era in parte scontato: anche il Lazio aveva generato alcune speranze grazie alla candidatura di Emma Bonino, ma solo tre mesi prima sembrava impossibile
recuperare le caduta dovuta all’affare Marrazzo; l’unica vera delusione è quella del Piemonte, dove però occorrerebbe rimeditare sulla linea del progresso innanzi tutto di Chiamparino e Bresso.
Allora cosa non torna? Prima di tutto se i democratici crescono, Di Pietro cala e così pure la sinistra, e quindi, nel complesso, la coalizione non guadagna tanto da poter sperare, almeno per ora, pensare di battere la coalizione avversa. Ma la cosa più preoccupante è che nelle regioni del Nord, dove il centrosinistra continua a perdere consensi, la situazione si fa disperata. E le regioni del Nord sono da sempre il motore economico del paese.
Queste elezioni danno motivi di riflessione a tutti, ma forse più allo sciamano che andrà incontro al crescere di una fronda interna sempre più insofferente allo strapotere leghista, dilagante nel vuoto politico berlusconiano.
Saverio Craparo