Il PCI non c’era

Ho appena terminato la lettura di un bel libro (anche se molto da discutere e, forse, anche discutibile) di Lucio Magri [1]. Non si intende certo, in poche righe, prodursi in un’accurata recensione di questo corposo volume (oltre 400 pagine). Innanzitutto, però, mi preme sottolineare come anche il buon Magri in questo lavoro si sia accodato (volontà delle case editrici? Oppure si tratta di qualcosa di più profondo?) al malcostume ormai imperante, per cui le note, i rimandi bibliografici, le fonti in genere, sono diventate un orpello inutile. In un lavoro come questo, per redigere il quale, suppongo, Magri ha avuto accesso ad un’amplissima documentazione; aver espunto le fonti significa dare a questa fatica il valore di una memoria personale, quando,
invece, la cifra scelta è esattamente opposta, quella della ricerca storica.
Ma torniamo al contenuto del volume. L’autore è quel che si potrebbe dire un eretico del PCI, entratovi per vie molto originali, ne uscì in maniera traumatica (essendone stato radiato assieme agli altri del gruppo del “Manifesto”) per poi rientrarvi nel crepuscolo degli anni’80 e uscirne di nuovo nel 1991.
A parte le battute iniziali abbastanza irritanti per cui l’anarchismo sarebbe una ripresa di ideologie seppellite dalla storia (al pari magari delle mode quali new-age, etc..) e che farebbero venire voglia di chiudere subito il libro (il solito comunista italiano, verrebbe da dire!) la narrazione di Magri prosegue invece molto cruda e asciutta e non indulge né ad un retorico ricordo di un partito mitizzato né all’altrettanto retorica demolizione post- ormai molto diffusa (ma, va detto, non fra i fondatori del Manifesto).
Così sono riassunti e tratteggiati molto bene i passaggi centrali per il partito dal dopoguerra ad oggi, individuando un primo gravoso punto di rottura (forse esiziale, ma Magri non lo dice) nell’assoluta incapacità del partito di comprendere i movimenti come quello del ’68 (figuriamoci poi quello di quasi dieci anni dopo, totalmente incompreso e completamente perso ai nostri giorni).
Altrettanto lucidamente viene demolito lo sciagurato (e ancora mitizzato) “compromesso storico”, legato alla figura di Berlinguer, quasi santificato (facendo del resto un grave torto proprio all’intelligenza del leader comunista) per via della precoce morte. Poi, però, a partire dalla fine di questo periodo storico, secondo chi scrive, l’autore s’incarta su un presunto “secondo” Berlinguer. Per Magri, la frase del leader politico sulla “fine del periodo propulsivo dei paesi dell’Est” è una frattura epocale. Ma quella frase è del 1982!! E, perlomeno a quelli della mia età, quello era buon senso e quasi una banalità.
Ma l’aspetto su cui già la Rossanda ha evidenziato una visione, per così dire, davvero troppo benevolente, è quello di Berlinguer ai cancelli della Fiat. Quel Berlinguer lì (dice la Rossanda e chi scrive è perfettamente d’accordo) è un uomo ormai solo. Solo perché dietro di sé non ha più nessuno e solo perché appare chiara la strumentalità (non voluta?) di quel gesto.
Credo che sia ingiusto dare la scure della demolizione del partito solo agli Occhetto e ai D’Alema (senza nulla togliere alle pesantissime responsabilità dei due segretari). E’ evidente che se un partito di massa il quale, pur nella concausa della morte del proprio leader, aveva nel 1984 ancora il 33 % dell’elettorato dalla sua parte, è sprofondato via via negli anni, arrivando al (quasi) nulla attuale, il tarlo stava lavorando da tempo.
E se quel tarlo, il quale a differenza della talpa marxiana scava per distruggere, fosse nato ben prima di Berlinguer? E fosse da ricercare nella stessa forma che si era dato quel partito? Nel leggero, ma interessante, libro di Telese [2] (anche questo maledettamente senza note!) c’è una frase (dimenticata pur avendo visto il
documentario diverse volte) che un iscritto al partito rivolge agli astanti durante la discussione sul cambio del nome, ripresa e immortalata da Nanni Moretti nella “Cosa”:
“ i comunisti se perdono il senso della rivoluzione diventano noiosi e anche pericolosi”.

[1] Lucio Magri, Il sarto di Ulm, Milano, Il Saggiatore, 2009.
[2] Luca Telese, Qualcuno era comunista. Dalla caduta del Muro alla fine del PCI: come i comunisti italiani sono diventati ex e post, Sperling & Kupfer, 2009

Andrea Bellucci