Un referendum s’aggira per il mondo

Il terreno è molto scivoloso. Mi sono chiesto perché a me, comunista anarchico, il referendum catalano dava un senso di disagio e di insofferenza.
Eppure verrebbe da pensare che l’anelito alla libertà, all’autonomia dovrebbe
essere empatico e risuonare forte, come pure il ricordo della rivoluzione degli
anni ’30, celebrata da Orwell in Omaggio alla Catalogna, dovrebbe scaldare il
mio cuore. Il fatto è che viviamo in un’epoca in cui il significato delle parole
tende a liquefarsi per scivolare verso approdi lontani dalle proprie origini.
L’affievolirsi del collante ideologico, d’altra parte, impedisce una lettura profonda degli eventi e più che analisi critiche rende possibili solo suggestioni e evocazioni, che a loro volta si consumano rapidamente senza sedimentare coscienza e consapevolezza. Il
globo intero è, invero, movimentato da spinte autonomistiche, ma le loro motivazioni ed i loro contesti le differenziano nettamente: Catalogna, Scozia, Gran Bretagna, Donbass, Crimea, Kurdistan, Kosovo, Sarawi, Palestina, Cecenia, etc. Ognuno di questi movimenti ha una sua storia, una sua genesi, una sua motivazione, dimodoché ognuno andrebbe analizzato di per sé.
Di sottofondo generale, però la chiusura entro confini di identità non è che il portato necessario del fenomeno della “globalizzazione”, indubitabilmente tendente all’appiattimento degli usi e dei costumi e quindi alla spersonalizzazione, con la perdita dell’orientamento, dei punti di riferimento che danno il senso della sicurezza che le mura della propria dimora assicura a chi naviga in un mare aperto dove solo un orizzonte lontano ed irraggiungibile resta visibile. Ma la globalizzazione non è solo uno sconvolgimento delle abitudini, non rappresenta solo una fluidificazione dei rapporti sociali; essa è soprattutto la risposta “sovrastrutturale” ad un assetto economico forgiato dalle teorie neoliberiste. Queste ultime basano le loro fondamenta sull’homo
oecnomicus, quel soggetto che tende al proprio benessere prima di tutto e che quindi è solitario e egoista, in lotta con i propri simili per la supremazia. Non è un caso, quindi, che molti (ovviamente non tutti, come vedremo) dei movimenti sopra menzionati hanno solide basi economiche: tenersi sul proprio territorio la maggior parte delle risorse ivi prodotte, in spregio ad ogni sentimento di solidarietà con i meno fortunati. Su queste basi occorre valutare gli eventi più recenti in termini di maggiore autonomia o di indipendenza dai contesti più ampi entro cui si sono fino ad ora mossi.

Gran Bretagna

Le spinte autonomistiche delle isole britanniche hanno profonde radici storiche. La centralità di un vasto, immenso impero goduta per oltre quattro secoli ha radicato negli inglesi il senso della propria originalità e soprattutto della propria superiorità. Le lentezze e la farraginosità delle procedure comunitarie, la sensazione di essere ancora il centro mondiale degli affari, grazie alla supremazia della Borsa di Londra, e l’insofferenza a contribuire ai bilanci della UE, sono stati fattori potenti per la vittoria dell’Exit nel recente referendum, ma gli effetti che esso avrebbe prodotto sono sfuggiti, o sono stati sottaciuti, all’elettorato britannico. D’altra parte l’integrazione della Gran Bretagna nell’Unione è sempre stata poco sentita ed ancor meno praticata. Più che
l’egoismo in questo caso ha prevalso l’egocentrismo.

Scozia

Nel 2014 il referendum per l’indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna non ha conseguito la maggioranza dei consensi. Per curiosità è opportuno ricordare che esiste anche un movimento indipendentista delle isole Orcadi dalla Scozia, a riprova che le spinte all’isolazionismo non hanno confini. Con la vittoria della Brexit la situazione è cambiata. Gli scozzesi hanno votato per la permanenza nella UE; a ciò si aggiungano i
motivi di sempre: gli scozzesi sono celti e non anglosassoni, rossi di pelo e non biondi, parlano un dialetto celtico e non inglese e sono stati inglobati nella Gran Bretagna, non senza difficoltà, nel corso del XVII e XVIII secolo. La Bank of Scotland batte la propria sterlina a riprova che la Scozia gode nella Gran Bretagna di larghissima autonomia. Il problema che la Scozia deve affrontare per decidere se effettuare un nuovo referendum indipendentista è però squisitamente economico: l’economia scozzese ha più da perdere mantenendo le forti interrelazioni di scambio con il resto del Regno Unito e perdendo le connessioni con il mercato europeo, o le ragioni di scambio con l’UE sono più consistenti e promettenti del mercato inglese; due terzi delle esportazioni scozzesi sono verso il resto del Regno, ma la perdita delle agevolazioni della libera circolazione delle merci offerte dall’Europa costerebbe 11 miliardi di sterline. L’asino di Buridano scozzese è di fronte ad un bel dilemma.

Belgio

Nel paese la tensione tra fiamminghi e valloni rappresenta una costante storica che ha radici nella diversa distribuzione dello sviluppo economico tra le differenti aree del paese. Questo scontro sembra oggi essere contenuto dai gravi problemi dovuti alla mancata integrazione di larghe fasce immigrate della popolazione. Il fallimento della inclusione sociale di questi nuovi cittadini, la persistenza di un consistente calo
delle nascite e dell’invecchiamento della popolazione hanno prodotto una sorta di omologazione del paese ai problemi del resto d’Europa. Questi fattori non eliminano le tendenze a vedere nella divisione del Belgio un passaggio necessario per consentire un ricompattamento della compagine sociale, non rendendosi conto fino in fondo delle grandi trasformazioni indotte nella coesione sociale della sistematica distruzione dei ceti medi e dalla creazione di larghi strati di incapienti a livello sociale, traendone le necessarie conseguenze.
E’ del tutto evidente che quello che manca è la consapevolezza della necessità di un nuovo patto sociale, di nuove alleanze e sopratutto di un programma politico che produca una più equa distribuzione delle risorse in grado di assicurare migliori condizioni a tutti per quanto riguarda la tutela della salute, dell’ambiente, della
qualità della vita.

Kurdistan

Anche il Kurdistan, come la Scozia, possiede importanti riserve petrolifere; ma mentre la Scozia ne ha il monopolio rispetto al resto delle Gran Bretagna, i curdi iracheni producono i 10% del petrolio prodotto in Iraq e per le esportazioni dipendono interamente dalla Turchia verso cui si dirige l’unico oleodotto presente nella regione. I curdi sono un popolo di etnia e di lingua propria, ma non hanno un loro territorio e sono divisi in quattro Stati: Iraq, Siria e Turchia e Iran. Ma mentre i curdi iracheni godono di ampia autonomia, quasi un’indipendenza, dall’Iraq fin dalla prima guerra del Golfo del 1981 ed all’imposizione USA della no-fly zone, per gli altri non è così. Meno fortunati sono i curdi siriani, mentre quelli turchi sono fortemente oppressi e vedono negato l’utilizzo della loro lingua ed addirittura della loro esistenza quale popolazione particolare. La provincia del Kurdistan iraniano copre poco meno di 30 mila chilometri quadrati con 1,6 milioni di abitanti, distribuiti in dieci contee. I curdi iraniani, cittadini o residenti, ammontano a un totale a circa 7 e gli 8 milioni di individui. Il problema si attenua per il fatto che circa un milione di appartenenti a questa grande comunità si è
trasferito a Teheran integrandosi nel paese.
Il referendum consultivo svoltosi recentemente nel Kurdistan iracheno non è che l’orgogliosa rivendicazione del diritto a praticare i propri usi e costumi. Si è svolto, non a caso, appunto in Iraq e ha visto la forte contrarietà degli Stati Arabi e soprattutto della Turchia, da sempre contraria alla costituzione di uno Stato curdo che potrebbe contagiare, anzi contagerebbe senz’altro, i curdi residenti in Turchia.

Catalogna

E veniamo alla Catalogna. Il catalano è una lingua (come lo è il sardo) ed il bilinguismo è riconosciuto dallo Stato spagnolo. Prova ne sia che l’inno nazionale – la Marcha Real – non ha una versione ufficiale anche per i contrasti linguistici sull’uso del castigliano e del catalano. La Catalogna gode di un’ampia autonomia ed i primi forti dissapori con Madrid si sono verificati quando un nuovo accordo che ampliava la sua autonomia, sul
modello del Paese Basco, è stato annullato dal Tribunale Costituzionale spagnolo nel 2010 . E nel 2012, il governo di Madrid ha respinto la richiesta di maggiore autonomia fiscale.
Il governo di centro destra al potere in Catalogna da venti anni, di fronte all’aggravarsi della crisi decise di rifarsela sui più deboli. Tra il 2010 e il 2015 ha ridotto i fondi di bilancio destinato ad alloggi, istruzione e sanità pubblica di più del 15 per cento. In nessun’altra comunità spagnola i tagli sono stati così brutali. Per sviare l’attenzione della popolazione da questi “sacrifici” il Governo ha cominciato ad agitare il problema
dell’indipendenza grazie ad un’abile propaganda, la cui punta di forza era il fatto che la Catalogna versava allo Stato centrale molto più di quanto non ricevesse, i favorevoli all’indipendenza sono passati in due anni da meno di un terso degli elettori ad una consistente maggioranza. Il comportamento miope ed autoritario del Governo
Rajoy ha versato benzina sul fuoco.
È il momento di tirare delle conclusioni. Come si è visto, al di sotto dei problemi etnici, linguistici, religiosi, di usi e costumi, le motivazioni economiche sono ovunque determinanti nel generare in conflitto tra lo Stato centrale e le diverse aree di ogni paese e sono aggravate, accentuate, fatte emergere dall’assetto economico mondiale e dalle dinamiche sociali e psicologiche da esso messe in moto. La stella polare del
ragionamento non può che rifarsi ai principi: l’internazionalismo che non deve basarsi su di un’assurda uniformità calata dall’alto; un internazionalismo che riconosca le differenze delle popolazioni e le unisca su base solidale in una federazione non solo tra territori nazionali, ma essi stessi territori, a loro volta, federazioni di comunità locali. È proprio questo principio di solidarietà umana che manca; ma soprattutto manca la
consapevolezza che non è ricostruendo una patria più piccola ed apparentemente più omogenea che si risolvono i problemi. Anche negli Stati più piccoli si riproducono le differenze di classe e in essi non cessa lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Senza una rivoluzione sociale le nuove patrie sono altrettanti fomiti di diseguaglianze. “Il patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie” diceva Samuel Johnson nel 1775, e non a caso alla patria ha fatto ricorso il Governo catalano ed alla patria ha fatto ricorso il Governo spagnolo.
Ma i comunisti anarchici non hanno “patria” e credono solo nell’umanità e nella solidarietà. Se gli anarchici spagnoli hanno appoggiato il referendum indipendentista catalano hanno, a mio avviso, commesso un errore strategico, pensando che fosse il grimaldello per la dissoluzione dello Stato centrale; ma lo Stato è il “comitato d’affari della borghesia”, e se non si abbatte il potere economico di monopoli, oligopoli,
multinazionali, e la predominanza del capitale finanziario lo Stato si moltiplica e non si dissolve. Le lotte indipendentiste dei popoli oppressi suscitano, ovviamente maggiori simpatie, ma al di là delle soverchie speranze in esse riposte da Lenin, le emancipazioni dei paesi coloniali – spesso costruite su un’alleanza tra borghesie nazionali e masse diseredate – hanno dato vita a regimi dittatoriali, fortemente oppressivi e che hanno sterminato le formazioni rivoluzionarie.
La direttrice della rivoluzione sociale non conosce scorciatoie o sentieri traversi e solo lavorando ad essa si potrà pervenire di una società solidale ed egualitaria. Ben si comprende l’avversione verso la monarchia, ancor più verso quella spagnola, che tante responsabilità ha storicamente sulla repressione di ogni libertà del popolo ed è facile cogliere nella Repubblica un passo avanti verso maggiori diritti e una più ampia libertà , ma la libertà, l’autonomia e lo stesso federalismo, perseguiti all’interno dell’assetto capitalistico sono chimere atte a sviare le popolazioni dai loro reali interessi storici.

Saverio Craparo