OSSERVATORIO ECONOMICO

serie II, n. 34, gennaio 2017

Produttività – Per anni si è sostenuto che il problema dell’industria italiana era la scarsa produttività del lavoro. Ora viene pubblicato (Paolo Bricco, Industry 4.0. per l’Italia la sfida è investire, in Il Sole 24 ore, a. 153, n° 14, 15 gennaio 2017, p. 6) l’andamento della produttività nell’industria italiana. Confrontata con quella tedesca, dal 2002 al 2013; non mancano sorprese e conferme. I dati sono suddivisi secondo la taglia delle imprese facendo riferimento ai dati tedeschi considerati come base di raffronto pari a 100. Quelle che vanno peggio sono le piccolissime aziende (fino a 9 dipendenti). Nel 2002 la loro produttività era l’88% di quella germanica ed il dato del 2014 è decisamente peggiorato fino all’80%; è chiaro che è il settore dove meno si è innovato. Costante è praticamente il dato relativo alla grande industria (oltre 250
dipendenti: 91% nel 2002 e 90% del 2014; si è tenuto il passo, restando comunque indietro. Tra i 10 ed i 19 dipendenti la produttività era al 106% nel 2002, poi era drasticamente calata per ritornare al 102% negli anni tra il 2012 ed il 2014. Le sorprese vengono negli ultimi due settori.
Tra i 20 ed i 49 dipendenti il dato del 2002 era pari al 102% per salire costantemente fino al 2014 e divenire 115%. Ancor meglio il settore della media impresa (tra i 50 ed i 249 dipendenti): 107% nel 2002 ed addirittura 119% nel 2014. Ciò vuol dire che in quest’ultimo settore un dipendente italiano produce un valore aggiunto di circa il 20% superiore al suo collega tedesco e ciò evidentemente deriva dagli orari di lavoro, dai ritmi, dagli straordinari: in altri termini dal tasso di sfruttamento e questo con buona pace di coloro che sono sempre pronti a lamentarsi della scarsa propensione al lavoro delle maestranze italiane.
Produzione – Sempre al medesimo articolo viene allegata un’altra interessante cartina che analizza l’andamento della produzione manifatturiera potenziale di alcuni paesi europei, ovverosia dell’andamento della loro base produttiva. Da questa appare evidente lo squilibrio tra nord e sud che la conduzione dell’Ue, con l’accento sul rigore dei conti, ha generato nella comunità. I paesi a basso debito pubblico hanno potuto usufruire di risorse, con tassazioni quindi meno onerose, da riversare negli investimenti, mentre quelli chiamati a ripianare i propri debiti, in ossequio al dettato monetarista, hanno dovuto inasprire il fisco convogliando su questa operazione le riserve dei cittadini, deprimendo i consumi e gli investimenti. Da ciò risulta evidente perché si sia creato un fronte del nord rigorista, che ingrassa sulle spalle degli indebitati paesi del mediterraneo, che ne risultano sempre più impoveriti e meno competitivi.
Veniamo ai dati. Dal 2007 al 2014 (cioè dall’inizio della crisi) la produzione manifatturiera è aumentata del 3,1% in Olanda, del 7,3% in Austria, del 7,7% in Germania ed addirittura de 16,3% in Belgio; è invece diminuita del 10,9% in Francia, del 17,7% in Italia e del 24% in Spagna; nel complesso dell’area dell’Euro è calata del 5,5%. La politica del rigore giova a pochi e nuoce ai più.
Bilancio – Lo sparabubbole rignanese da poco più di un mese non è più Presidente del Consiglio, carica in cui è rimasto per circa tre anni; è finalmente venuto il momento di tirare le somme sul suo operato.
1. La crescita tanto promessa non si è vista e dopo anni passati a raccontarci che “era finito il tempo” degli aumenti dello 0 virgola, finalmente con atto trionfale si era messo nella legge di stabilità l’obiettivo dell’1,0%; invece anche per il 2016 l’Italia è il paese che cresce meno ed il Fmi internazionale ha rivisto al ribasso le stime, portandola allo 0,7%, meno del 2015. Questo è uno dei grossi problemi di bilancio lasciati al successore (Il Sole 24 ore, a. 153, n° 16, 17 gennaio 2017, p. 8).
2. Il sistema bancario traballa perché il governo (buon ultimo quello Renzi, ma prima di lui, Berlusconi, Monti e Letta) non ha provveduto a depurarlo dei titoli tossici, come hanno provveduto a fare, con fondi europei, a suo tempo Germania e Spagna. Tre anni di inerzia rischiano di costare caro alle casse dello Stato ed in ultima analisi a tutti i cittadini (Il Sole 24 ore, a. 153, n° 18, 19 gennaio 2017, p. 7).
3. La terza legge di stabilità fatta di elargizioni insensate (se non nel calcolo elettorale), che come era prevedibile non hanno prodotto alcun effetto tangibile sull’andamento della congiuntura, è finita sotto osservazione da parte della Commissione Europea; questa ha taciuto per non azzoppare l’autoproclamato premier prima del referendum ed ora presenta il conto a Gentiloni. Sia chiaro che i parametri imposti, che tra l’altro il nostro paese ha a suo tempo sottoscritto, sono assurdi e punitivi, ma il loro sforamento dovrebbe rispondere ad una logica di investimenti produttivi per rimettere in moto la macchina economica e non sottostare ad una logica di bottega priva di un qualsiasi valore economico. Renzi, invece di invocare una chimerica “flessibilità” doveva battersi per una reale revisione di quei patti capestro. Ora l’Italia sarà costretta da una manovra correttiva (che Padoan, ministro ineffabile delle finanze giudicava una bestemmia) di 3,4 mld di €, e non è molto difficile indovinare chi sarà a pagare il conto salato.
4. Nei primi undici mesi del 2016 (Il Sole 24 ore, a. 153, n° 10, 20 gennaio 2017, p. 14) il saldo tra assunzioni e cessazioni dal lavoro è stato ancora positivo (+567.000), ma
comprensibilmente inferiore a quello dello stesso periodo del 2015 (688.000). Analizzando il dato si fanno scoperte interessanti. In sofferenza sono le assunzioni “a tempo indeterminato” (soggette comunque a licenziamento senza giusta causa, grazie al cosiddetto jobs act): 61.000 nel 2016 contro i 661.000 dell’anno precedente; e questo non stupisce visto che il motore delle assunzioni nel 2015 non era stata la reclamizzata riforma del mercato del lavoro, ma i generosi sgravi fiscali concessi agli imprenditori che
assumevano. Sgravi fortemente ridotti nel 2016. La prima considerazione riguarda il mese di dicembre non compreso nel calcolo ed il cui inserimento non può che peggiorare la situazione: infatti il dicembre del 2015 conobbe un autentico boom di assunzioni “a tempo indeterminato”, per il fatto che con lo scadere dell’anno scadevano anche gli incentivi. La seconda considerazione riguarda l’aumento dei licenziamenti per motivi economici, favoriti dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e che una recente sentenza della Corte di Cassazione ha allargato anche ai motivi legati alla volontà dell’imprenditore di aumentare i profitti (vedi altro articolo in questo numero). La terza, infine, concerne l’enormità della differenza tra il saldo positivo delle assunzioni ed il misero 10% circa compreso in esso e relativo a quelle “a tempo indeterminato”; anche in questo caso la risposta è chiara: sono tornati a crescere molto i contratti a tempo indeterminato e soprattutto sono esplosi esponenzialmente i voucher, ed un individuo risulta occupato se nell’arco di un settimana ha lavorato almeno un’ora- miracoli renziani!

chiuso il 21 gennaio 2017
saverio