Un altro mondo?

La casa editrice “Il Saggiatore” ha rimandato in libreria il capolavoro pubblicato esattamente 20 anni fa da Giovanni Arrighi e dedicato al “Lungo XX secolo”[4]. La ristampa contiene anche una postfazione dell’autore scritta nel 2009, pochi mesi prima della sua morte.
Si tratta di un testo capitale (è il caso di dire) i cui contenuti risultano fondamentali per comprendere meglio non solo la storia passata (e, attraverso la lettura del volume, si aprono davvero delle finestreinaspettate) ma anche e soprattutto quella che potrebbe attenderci.
Considerato che, appunto, questo lavoro è uscito 20 anni fa, il futuro che Arrighi prospettava è il nostro presente e quindi si tratta di una straordinaria cartina al tornasole rispetto alle ipotesi che l’autore esponeva nel lontanissimo 1994. Credo che questa cartina sia importante anche per verificare analisi economiche che spesso avevano dalla loro parte un fortissimo armamentario ideologico sommato ad una bassissima dose di realtà.
Le varie litanie sulla fine imminente del capitalismo, le analisi deterministiche sulle magnifiche sorti e progressive hanno portato spesso a vedere crisi eccezionali e sicuri declini laddove vi era una dinamica complessa, spesso difficile, ma assai più razionale e meno dissennata di quanto si sia pensato.
La razionalità del capitale non è il complotto della spectre, è la capacità importantissima da parte delle classi dirigenti di tutelare i propri interessi (la “lotta di classe” al contrario).
Come comunisti anarchici da anni analizziamo il capitalismo evitando paraocchi di un marxismo che diventa teleologia e teleologia. Si rimanda qui volentieri alle approfondite analisi che su questa stessa Newsletter sono apparse nel corso degli anni, consultabili sul sito www.ucadi.org.
Tornando al lavoro di Arrighi, innanzitutto una specificazione è necessaria. Come ogni autore assennato, Arrighi delinea il perimetro del “Lungo XX secolo” che è quello di un’analisi storica di sistemi macroeconomici e di lungo periodo. Quindi, mancano, per forza di cose, in questo studio, i livelli diversi dell’economia mondiale, manca ovviamente (e non potrebbe essere altrimenti) l’analisi delle lotte e dei movimenti operai e di massa.
Tuttavia, queste mancanze permettono una cavalcata davvero impressionate e che rende l’idea stringente di una profonda razionalità del capitalismo e di una sua capacità di lavorare su lunghi e complessi cicli sistemici.
Dunque si ritorna sui cicli. Tanto discussi e spesso fraintesi nelle varie prese di posizione degli storici dell’economia. Tuttavia Arrighi, forte di una profondissima conoscenza di Braudel spazza via alcune interpretazioni “deterministiche” e si sofferma, appunto, su analisi di lunghissimo periodo.
I cicli sistemici di Arrighi prendono quindi ampio spunto da Braudel, mandando in soffitta i c.d cicli dei prezzi che, per l’autore non dicono nulla sull’andamento dell’economia (fasi di sviluppo possono avere indifferentemente prezzi crescenti o calanti). I cicli sistemici di Arrighi prendono il via dall’analisi dell’egemonia economica di Genova (dopo che il “testimone” era stato raccolto da Firenze) per passare all’Olanda, alla Gran Bretagna e. infine agli Usa. In queste fasi di “passaggio del testimone” i cicli si
caratterizzano per la loro sempre maggiore complessità, per l’estensione e per la minore durata temporale.
Quello che colpisce sicuramente il lettore contemporaneo è la caratteristica della fine del ciclo di egemonia, in vista del successivo. Questo periodo, che Arrighi definisce “autunno” (riprendendo un termine caro a Henri Pirenne) può essere in realtà una specie di “canto del cigno” ma è sempre caratterizzato dalla preminenza del settore finanziario rispetto a quello produttivo. La crisi spia, quindi, è data dall’aumento della
concorrenza intercapitalistica e dall’avvio del ritiro del capitale mobile in direzione degli investimenti finanziari.
E’ evidente che già questa riflessione induce a più di un ripensamento in merito alla vulgata mediatica propalata a piene mani negli ultimi tempi. Mi riferisco alla supposta “eccezionalità” data dai mezzi di comunicazione in riferimento all’attuale “capitalismo cattivo” della finanza [5].
A parte il fatto, evidente, che contro questo “capitalismo” cattivo si sono indirizzati solo strali moralistici senza cercare di comprenderne realmente le dinamiche e, soprattutto, senza attuare reali soluzioni per una correzione (cosa, del resto, che non era nelle volontà di nessun governante essendo i governanti parte integrale e necessaria del sistema). A parte questo, dunque, dallo studio di Arrighi emerge chiaramente che il
capitale assume comportamenti assi più razionali, di quanto certa letteratura “teleologica” spesso dichiara (vedendo spesso una fine del capitalismo che non arriva mai).
Nell’ottica di questa razionalità è quindi assolutamente più che ragionevole il ritiro dei capitali mobili dall’investimento produttivo per deviarli sulla finanza dove i profitti garantiti sono quasi sempre maggiori. Il canto del cigno dell’economia dominante, dunque, non è per tutti uguale, assumendo, anzi, per la classe che investe nella finanza una vera “età dell’oro”.
Arrighi illustra inoltre altri comportamenti razionali tenuti dalle élites economiche, ad esempio il mecenatismo, la costruzione di ville gigantesche e sfarzose. Si tratta sempre del ritiro dei capitali dal processo produttivo in maniera da garantire profitti elevati (ovviamente anche per testimoniare il proprio potere statuale).
Questo aspetto è interessante anche perché sgombra il campo dall’equivoco che identifica il capitalismo con una qualche forma produttiva mentre esso non ha alcuna predilezione per una tipologia rispetto ad un altra.
Il testo è molto complesso e articolato per cui risulta molto difficile poterne riassumere i contenuti in maniera benché minimamente esaustiva. Si tratta quindi di coglierne alcuni dati salienti. Abbiamo già visto che Arrighi identifica dei complessi e articolati cicli sistemici nei quali vi è l’egemonia di una economia rispetto alle altre. Questi cicli sono caratterizzati nel corso dei secoli da durate sempre minori ma da estensioni spaziali
sempre maggiori. I cicli inoltre, procedendo, ripresentano alcune caratteristiche precedenti ed altre diverse.
La spia della fine del ciclo egemonico è caratterizzata dall’espansione della finanza a scapito delle attività produttive. Questa fine può essere anche molto lunga e, spesso, per i protagonisti, per le élites economiche, essa può divenire un’epoca di straordinari profitti.
L’ultimo ciclo, che stiamo ancora attraversando, è quello della egemonia degli Stati Uniti, che appaiono in declino di ormai da trenta anni. Arrighi, all’epoca della redazione del volume, studiava le straordinarie performance del Giappone. Per una serie di motivi molto complessi (ma alcuni intuibili, data la caratteristica propria dello sviluppo giapponese) anche l’economia del Sol Levante non è poi decollata, né tanto meno ha
assunto caratteristiche egemoniche.
Nella postfazione del 2009, l’autore si sofferma invece sull’impetuoso sviluppo cinese e sulla particolarità di tale crescita. Allo stato attuale non è dato di sapere se e quando la Cina egemonizzerà l’economia-mondo e cosa faranno gli Stati Uniti che rimangono la potenza egemone militare. Arrighi azzarda l’ipotesi di una collaborazione fra le due realtà, in ossequio a caratteristiche già viste nei secoli passati, dove la protezione militare e la gestione economica non sono state sempre in capo alle stesse realtà.
La citazione del discorso di Obama, che ho messo all’inizio di questo articolo, è per questo motivo, davvero straordinario. Esso è passato del tutto in secondo piano nella discussione giornalistica (tutta presa, quella italiana, a parlare delle avventure del piccolo e ridicolo aspirante satrapo fiorentino, davvero ben poca cosa rispetto a quello che succede nel mondo), ma a me appare come una dichiarazione davvero esplicita di una realtà che, probabilmente, le grandi potenze hanno già ben chiara: una divisione del lavoro nel quale la protezione militare potrà essere fornita dagli USA mentre la crescita economica sarà egemonizzata dalla Cina.
Questo, beninteso, è uno dei possibili scenari. Lo stesso Arrighi concludeva la sua opera del 1994 con un discorso dubitativo ma, nel contempo, raggelante: “per la prima volta nella storia dei cicli sistemici la potenza declinante non è prestatrice mondiale di liquidità, ma, esattamente all’opposto, è epicentro del flusso di capitali mobili mondiali. Si apre così in realtà un plausibile scenario di caos sistemico, dove, parafrasando Schumpeter “prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale post capitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha
accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere”.

[4] G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Milano, Il Saggiatore, 2014.

[5] Vorrei chiarire però, a scanso d’equivoci, che in questa vulgata non sono certamente ricompresi gli studi profondi ed indispensabili che Luciano Gallino ha dedicato in questi ultimi anni alla deriva finanziaria dell’economia. Gallino parte dall’assunto che l’economia industriale (cioè quella che è in grado di portare alla crescita dei lavoro) sia il segno necessario e opposto di un intervento necessario da parte dello stato per orientare l’economia. Insomma Gallino, grande inattuale.

Andrea Bellucci