I telegiornali del mattino ogni lunedì, da qualche mese a questa parte, aprono con questa immancabile frase: “Inizia una settimana cruciale per il Governo!”. L’emergenza è ormai quotidiana, occorre fare in fretta, le scadenze incombono. Renzi ha fondato il proprio programma sulla celerità di esecuzione e ciò che non viene raggiunto viene rimpiazzato da nuove iniziative legislative. L’altro cavallo di battaglia e lo svecchiamento del paese al grido di “largo ai giovani”, ma questi due miti ricordano, nemmeno molto vagamente, l’avvio del ventennio fascista; manca solo il richiamo alla funzione eugenetica della guerra.
L’emergenza giustifica la rapidità
È proprio sull’incalzare della fase emergenziale che il Governo Monti ha iniziato a decretare sistematicamente d’urgenza e ne sono discesi arrosti legislativi evidenti subito e confermati tali a posteriori. Da allora il presunto incalzare della congiuntura economica ha giustificato la continuazione della fretta legislativa ed essa è stata assurta a sistema e filosofia di gestione dal governo Renzi. Tutto ciò comporta un autentico sovvertimento delle regole e del costume ben più profondo e pericoloso delle riforme costituzionali ed elettorali. Possiamo dire che queste ultime sono la certificazione di riforme comportamentali di fatto, che trasformano la nostra democrazia borghese in un regime autoritario in cui l’“uomo della provvidenza” avoca a sé il potere di decidere quanto ritiene opportuno, insofferente alle critiche ed ai distinguo.
Il nodo risiede proprio nella decretazione d’urgenza. Gli ultimi tre governi, privi di una maggioranza certa in Parlamento (vuoi per l’estrema eterogeneità delle forze che li sostenevano, per cui ogni atto scontentava qualcuno, vuoi perché le primarie hanno imposto ad un partito riottoso un leader estraneo alla propria tradizione) hanno fatto un ricorso continuo ai decreti legge, che per natura dovrebbero avere dei requisiti legati
all’eccezionalità ed alla particolare contingenza. Ma i decreti restano in vigore sessanta giorni e per la loro doppia lettura occorre accelerare i tempi e quindi porre con frequenza la questione di fiducia per ridurre il dibattito parlamentare. Non che ciò prima non avvenisse, ma negli ultimi tre anni è stato eretto a sistema.
Il governo Renzi ha adottato questa prassi per tener fede al proprio assunto iniziale: fare molto, fare presto. È così che in questi pochi mesi il ricorso al voto di fiducia ha assunto una cadenza tale (uno ogni otto giorni) da costituire il famoso passaggio dialettico hegeliano tra quantità e qualità. E tutto ciò a fronte di pochi passaggi legislativi di una qualche pregnanza. Pochi passaggi importanti ma tanti, tantissimi decreti che devono dare la sensazione di un’attività frenetica. Così le scadenze si accavallano, i provvedimenti rimbalzano da una camera all’altra mentre il tempo stringe. Ne discende che il Parlamento, pur costretto ad estenuanti maratone, non riesce più a discutere di nulla, non può (non deve) entrare nel merito e diventa un luogo di cieca
approvazione delle proposte del governo; le opposizioni possono solo attuare delle clamorose, quanto sterili, proteste. L’Esecutivo prende il posto del Legislativo, come in tutti i regimi autoritari. Con la fine del bicameralismo perfetto i tempi saranno più distesi, ma sarà ulteriormente facilitata l’azione impositiva del governo. Si tratta comunque di una accelerazione illusoria dei tempi posto che poi, dopo l’approvazione della legge bisogna predisporre i decreti attuativi senza i quali le norme approvate non sono applicabili. E qui tutto si ferma e si impantana senza che vi sia alcun intervento finalizzato a rompere la catena burocratica di comando.
Dalla “rottamazione” al giovanilismo
All’inizio fu un facile slogan per prendere d’assalto una classe dirigente del PD ormai sulla breccia da troppi anni e, soprattutto, segnata da una serie di sconfitte decennali di cui non poteva certo andare fiera; basti ricordare il morettiano: “Con questi qui dietro non vinceremo mai!” Una volta salito al potere la parola d’ordine ha cambiato un po’ aspetto e l’obiettivo prevalente è divenuto un altro. C’era un ostacolo: l’innalzamento
dell’età pensionabile (la più alta d’Europa) varata due anni e mezzo fa dall’ineffabile Fornero.
Sia chiaro che il dato che non preoccupa certo il governo Renzi è quello della disoccupazione giovanile, salita a livelli più che preoccupanti (anche se resta misteriosa la scelta di calcolare il numero dei disoccupati a partire dai 15 anni, età in cui si è ancora nell’obbligo scolastico e quindi a rigor di logica si dovrebbe essere a scuola e mai e poi mai sul mercato del lavoro). Se così fosse stato si sarebbe subito messo mano all’età pensionabile per tutti, proprio a partire dai settori privati dell’industria e dei servizi. Tra l’altro proprio nel settore secondario gli oltre 67 anni necessari per andare in pensione (o i 42 anni e 3 mesi) fanno particolare specie; e qui che esistono i lavori più usuranti e qui che un lavoratore manuale diventa meno produttivo ai fini delle esigenze aziendali; tant’è che il rinnovato attacco per la definitiva e totale abolizione dell’articolo 18 della Statuto dei Lavoratori trova la sua origine e motivazione.
Invece no. La “rottamazione” degli anziani, visti in massa come una palla al piede da eliminare per far largo ai giovani, è stata attuata solo per la Pubblica Amministrazione, laddove il lavoro è, in generale, certo meno usurante e dove, col trascorrere del tempo, l’attività di tipo mentale rende meno obsolescente la capacità di lavoro e la resa produttiva. Dentro l’attacco generalizzato erano comprese categorie tradizionalmente e
notoriamente impegnate fino a tarda età (medici, professori universitari, magistrati) sui quali il governo ha dovuto fare marcia indietro per mancanza di coperture. Ancora una volta occorre leggere i veri scopi soggiacenti all’operazione “sotto ‘l velame de li versi strani”, cioè la propaganda.
Dice la vulgata che i vecchi inefficienti devono andare a riposo per far posto ad energie giovani e vigorose. Questo fa leva sul diffuso malcontento che, non a torto, i cittadini provano nei confronti di una burocrazia polverosa, tortuosamente incomprensibile, onnipresente, lontana e trincerata dietro regole spesso vetuste. Forse avrebbe avuto senso intervenire prioritariamente su queste regole e non sugli individui, da allontanare al momento in cui si fossero rivelati inadatti a gestire modalità nuove e più snelle. Il problema è che il far largo ai giovani, per stemperare la piaga della disoccupazione giovanile, non corrisponde alla realtà e nasconde ben altro.
Cominciamo dal settore del pubblico impiego più numeroso, la scuola. Ogni anno vengono annunciate migliaia di immissioni in ruolo e ciò viene spacciato come aumento dell’occupazione; in realtà la pianta organica dipende solo ed esclusivamente dal numero di classi autorizzate e queste discendono dal numero di alunni iscritti e dalla quantità di essi che vengono concentrati nelle classi. Le immissioni in ruolo sono pertanto solo (e non è certo poco per coloro, spesso in età oltre la cinquantina, che si vedono dopo anni di supplenza stabilizzati nei posti di lavoro a tempo indeterminato) il passaggio dal precariato alla certezza del posto fisso; ma non comportano alcuna riduzione della disoccupazione. Questa si potrebbe ottenere riducendo il numero di
alunni per classe e di questo non c’è alcuna traccia da anni, anzi le risorse per nuove classi sono sempre più risicate. Per di più si parla di aumento dell’orario di lavoro degli insegnati e della riduzione a quattro anni, anziché cinque, del corso di studi della scuola secondaria di secondo grado: tutte iniziative che si ripercuoterebbero in una drastica riduzione dei posti di lavoro. Per quanto riguarda i dirigenti scolastici l’anticipo del loro pensionamento non comporta nuove assunzioni e quindi l’immissione di “forze giovani”, ma solo un maggior numero di istituti scolastici non presidiati, affidati a reggenza a dirigenti che si dividono tra due scuole, con aggravio per le casse statali.
È scientificamente dimostrato che il cervello umano, ed in particolare l’ipotalamo, il centro della memoria, si sviluppa con il suo utilizzo e non è una caso che in generale coloro che sono impegnati in attività cerebrali conservino la propria capacità mentale più a lungo. È anche ben noto che un ricercatore è molto più prolifico in gioventù e che dopo una certa età (sui quaranta anni) le sue doti innovative calino rapidamente. Ne
possiamo ricavare che occorre prendere da ogni età dell’uomo quanto è più opportuno; sostituendo giovani dinamici ai quadri di una certa età si può ottenere innovazione, ma si perde esperienza. È come se noi addestrassimo giovani piloti di aereo, licenziando piloti con molte ore di volo ed è in realtà quello che fanno le forze armate italiane fornendo alle compagnie aeree piloti ben addestrati: il calcolo economico non è
conveniente. Ma ciò concerne il merito della questione.
Lo scopo che il governo si proponeva, e non è detto che non ci riprovi, è quello di tagliare gli alti vertici dell’università e, soprattutto, della magistratura. Ovviamente è vero che ivi si annidano anziani ormai stanchi ed arroccati nel loro potere di interdizione, ma vi sono anche riserve di saggezza. Sono le seconde che si vogliono eliminare, con l’intenzione di rendere più malleabili le burocrazie statali ai voleri dell’esecutivo, grazie a nuove nomine opportunamente calibrate.
L’annuncio come strategia
Una vecchia tradizione narra di promesse elettorali non mantenute, a volte tanto mirabolanti da chiedersi come gli elettori l’abbiano potute prendere per fattibili. Renzi non è passato attraverso una campagna elettorale, quindi non ha potuto fare promesse fantasmagoriche, ma ha incalzato il suo predecessore, incitandolo a fare presto e standogli col fiato sul collo. Così al momento di divenire Presidente del Consiglio dei Ministri ha caratterizzato il proprio incarico sulle continua rincorsa verso provvedimenti di modifica dell’esistente.
Dopo sei mesi sono andati in porto un decreto fiscale (i famosi 80€), il decreto sulla Pubblica Amministrazione che poco riguarda le procedure, un primo passaggio su quattro della riforma costituzionale e poco altro. A fronte di tali risultati tantissima carne è stata messa a cucinare ed altra se ne prepara. Il problema che tutti rilevano e l’ingorgo legislativo, che a sua volta rende necessario il voto di fiducia, necessario a non far scadere i decreti legge; e di questo si è già detto.
Si prospetta però un altro elemento da considerare. L’accavallarsi di proposte sempre nuove fa dimenticare quelle già annunciate e non ancora perfezionate con due conseguenze: la prima è che il governo appare attivo e pimpante, sempre in grado di essere elemento propulsore della politica italiana; l’altra è che il bottino dei risultati sembra ingrandirsi al di là della realtà, facendo assurgere Renzi a grande attuatore del
rinnovamento.
Superficialità ed errori
Presto e bene… Già l’infausto incidente della legge Fornero sulle pensioni dovrebbe aver fatto scuola sui risultati dell’improvvisazione. Il governo Renzi ha fatto dell’arrembaggio legislativo una filosofia, scegliendosi tra i ministri una discreta quantità di personaggi senza alcuna esperienza, assurti a quella carica spesso in virtù della propria fisionomia; questi sono talmente privi di autocoscienza che non li sentiremo
dichiarare, seppure a posteriori, “Non ero preparata a fare il Ministro”, come fece un anno dopo la mitica Elsa.
Dalla fretta, dalla necessità di inventarsi ogni settimana un nuovo traguardo, dalla composizione della compagine governativa sono discesi una massa di provvedimenti connotati da superficialità e da una coerenza, sia interna che in relazione al contesto normativo, discutibilissima: autentici pasticci! Per non dire dei continui ritocchi, maxi emendamenti di fonte governativa, autentiche retromarce, conflitti con gli organi contabili dello Stato che costellano la vita dell’attuale esecutivo.
Anche l’approccio all’Europa, di cui il nostro è divenuto Presidente di turno per un semestre, è stato gestito sulla più che evidente inadeguatezza e pressappochezza: già nel discorso di insediamento al Parlamento europeo l’eterno boyscout si è malauguratamente paragonato a Telemaco, in omaggio al mito del giovanilismo,
dimenticando che nel poema omerico il giovane figlio ha subito le angherie dei Proci, fin a quando è giunto a risolvere la situazione il vecchio padre Ulisse, così che ha avuto l’onore di essere il secondo capo di governo ad essere contestato al momento dell’iniziazione dopo Berlusconi. Sta di fatto, al di là di queste inezie formali, che
al momento il tanto atteso e decantato semestre europeo non ha fornito alcun frutto e tutta l’attenzione del governo italiano si è concentrata sulla nomina della Mogherini a Rappresentate europea per gli affari esteri, obiettivo poco rilevante e di scarso effetto sui temi veramente importanti dell’economia.
La democrazia di uno solo
Ilvo Diamanti in un paio di articoli su La Repubblica sostiene che in Renzi non può essere visto tout court come il portatore di un progetto autoritario. Sostanzialmente il suo ragionamento può essere schematizzato in tre argomenti. Il primo è che alcuni processi di accentramento dei poteri e di esautoramento delle assemblee elettive erano già in atto da tempo; il secondo è che tali processi sono in atto in molti altri paesi; il terzo che le democrazie borghesi si basano sempre su di una delega ad una élite politica più o meno estesa. Al tutto soggiace l’idea che il dilagare dei media di comunicazione vecchi (TV) e nuovi (rete) abbiano intensificato il rapporto diretto tra leader e masse e reso la democrazia più “immediata” e meno dipendente dai “mediatori”. E’ perciò che la borghesia stessa ha “inventato” le Costituzioni e lo Stato di diritto che entrambi ora stanno stretti ai governanti “democratici”. D’altronde la democrazia o è tale o non è, e non valgono termini correttivi per la verità un po’ patetici. Vediamo punto per punto a partire dal presupposto.
È dai tempi della radio che si è creato un filo diretto tra leader politico e popolo; le nuove tecniche l’hanno solo reso molto un più efficace. Per il resto la politica è proprio l’arte della mediazione e quando il gioco dei pesi e dei contrappesi si infrange, quando gli interessi opposti non trovano un giusto equilibrio non sia ha “democrazia ibrida” o “democrazia autoritaria”, ma solo populismo e talvolta fascismo, come la storia si incarica bravamente di insegnarci. Nei fatti questa scelta di ricorrere ad una forma plebiscitaria di consenso verso un uomo solo al comando induce fiducia nelle sue qualità taumaturgiche e la forma di controllo che il voto assegna agli elettori nella democrazia borghese si stempera ulteriormente rispetto alla sua normale e già ridotta efficacia. Un’attesa fideistica troppo spesso mal ripagata.
Veniamo ai punti specifici. Abbiamo già detto che l’abuso della decretazione d’urgenza, corredata dal frequente ricorso all’istituto della fiducia, reso necessario dall’incertezza della maggioranza a sua volta frutto dell’assenza di un programma condiviso, era già in atto molto tempo prima dell’avvento di Renzi, è però altrettanto vero che questa procedura si è intensificata tanto da prefigurare una vera e propria prassi istituzionale; e se a questo si aggiunge la semplificazione dell’iter legislativo, connaturato alla scomparsa del bicameralismo perfetto, e la legge elettorale asso piglia tutto, il quadro di un’inquietante dirigismo, senza idee, senza programma e senza un freno di intelligenza collettiva, si profila in modo abbastanza netto; può darsi che Renzi non abbia in mente un piano così diabolico, ma la voglia di far a modo proprio senza ostacoli, che lo ha
sempre contraddistinto, può fatalmente degenerare.
Il fatto poi che fenomeni simili si stiano verificando altrove è un argomento molto debole, se è vero, come molti analisti sostengono autorevolmente, che l’estrema finanziarizzazione dell’economia sia incompatibile con una democrazia pienamente dispiegata e privilegi forme di governo autoritario e non sottoposte neppure al vaglio elettorale: si vedano le istituzioni europee che contano veramente e si legga il libro recente di Luciano Gallino Il colpo di stato di banche e governi.
Per quanto, infine, concerne l’ultimo punto è ben vero che la democrazia come disegnata dalle società liberali ha sempre contenuto in sé una buona base di delega fiduciaria. È proprio per questo che le Costituzioni, quella italiana in particolare, hanno predisposto vari strumenti di tutela per temperare il problema: accorgimento non del tutto efficace, ma esistente. Se questi strumenti vengono cancellati o stravolti, non è certo un miglioramento; anzi si aprono le vie per un maggiore peso dell’esecutivo, con le conseguenze che non è facile prevedere, ma che sicuramente non sono rassicuranti.
Un ritratto
Il personaggio Renzi è stata ampiamente analizzato. Si è detto della sua innegabile facoltà di comunicazione, della sua spigliatezza, della sua capacità di improvvisazione. Si è anche parlato del suo atteggiamento un po’ guascone e delle sue sparate da Rodomonte. Si è meno parlato della sua spregiudicatezza e della sua inclinazione alla faciloneria disinformata.
Nonostante abbia frequentato il Liceo Classico più prestigioso di Firenze evidenzia cadute culturali, ma soprattutto le informazioni a sua disposizione sono spesso molto vaghe ed a ciò sopperisce con un uso sfrenato dei media informatici e dei social network. Ma soprattutto, da buon rampollo democristiano, è maestro nell’arte dell’intrigo. Non fa prigionieri, anche se ora si fa forte per l’accorrere al suo fianco di una larga parte di notabili del PD che vedono in lui l’unico riscatto ad una vita di sconfitte: Zanda, Finocchiaro, Fassino e amici compagni privi di coerenza politica non dovrebbero dimenticare che Renzi si serve di chiunque, pronto ad abbandonare al proprio destino chi non gli serve più: è più congeniale al suo sentire circondarsi di persone senza spessore, giovani ed inesperte, su cui possa primeggiare e spadroneggiare.
Fin dai tempi in cui era Presidente della Provincia di Firenze ha sempre avuto idee molto personali sull’uso delle risorse, giocate in modo molto spregiudicato col solo obiettivo di allargare la propria base elettorale. Ha vinto le primarie per Sindaco di Firenze e quelle per Segretario del PD grazie all’afflusso consistente di elettori di destra, che già avevano intuito che egli avrebbe fatto il loro gioco. D’altronde quando
lanciò la propria candidatura a Sindaco non ebbe paura di dichiarare che se il PD non lo avesse candidato, si sarebbe fatto candidare dallo schieramento opposto.
Gode di un ego smisurato, che gli permette di affrontare le sfide più impegnative con grande leggerezza; non è un caso che allontanatosi dal lago tranquillo della politica di provincia, approdando a Roma, abbia incontrato resistenze che non aveva dimensionato e che per ora ha superato grazie all’appoggio incondizionato delle televisioni e della grande maggioranza dei giornali, ben supportati da buona parte dei poteri forti. Ma già le sue incursioni europee ne hanno rivelato tutte le fragilità strutturali, come la stampa europea, meno incline a prosternarsi al potente di turno, ha impietosamente registrato.
Ha fatto un mito della propria giovinezza, ha eretto a pilastro del proprio agire la velocità, ha fatto un oggetto di culto della propria spavalderia, ma le sue fondamenta sono gracili, non certo per questo è meno pericoloso. Ha una tendenza innata alla propria esaltazione ed alla menzogna. Si fa forte di un consenso popolare basato sulla sua attitudine alla battuta facile, al gioco di parole e alla falsa famigliarità che ostenta con tutti: “Chiamami Matteo!” L’elettore medio italiano, assuefatto ormai da oltre un ventennio alla ricerca del personaggio persuasivo, si è del tutto disinteressato dei programmi e aborre le ideologie come la peste, dimenticando che l’ideologia è solo un quadro di riferimento con cui interpretare la realtà, mutabile se i fenomeni non vi trovano riscontro. Il disastro è stato compiuto all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, con il cambiamento del sistema elettorale in senso maggioritario ed, auspice l’avvento dei mass media, le strutture partitiche si sono liquefatte per far posto ai personaggi, secondo il modello degli Stati Uniti d’America.
Renzi è il più recente prodotto di questo declino politico e non a caso ha come parole d’ordine il “cambiamento”, guardandosi bene dallo specificare per ottenere quale obiettivo, cosa che forse ignora. I nazisti cambiarono la Germania e Khomeini ha cambiato la Persia, ma è difficile sostenere che ciò sia stato un bene.
L’unica speranza per uscire da questo gorgo del futile è quella di lavorare affinché gli elettori, le classi subalterne in particolare, si riapproprino della gusto di conoscere e della volontà di esercitare la propria critica consapevole. Occorre sostituire all’ottimismo mieloso dei potenti, il pessimismo che derivi dalla cruda realtà materiale. I livelli di vita stanno regredendo giornalmente; le prestazioni sociali si stanno privatizzando per cui
saranno sempre più garantite solo a chi se lo può permettere economicamente; le condizioni di lavoro divengono sempre più intollerabili. Per risalire la china di una sconfitta che sembra non conoscere argine è necessaria un’organizzazione sindacale coesa e decisamente antagonista al progetto economico imperante e non è un caso che lo smantellamento delle povere, esangui ed evanescenti organizzazioni sindacali esistenti, pallide e sbiadite immagini persino di quelle compromissorie conosciute nel secondo dopoguerra, è uno degli obiettivi primari degli ultimi governi e che a questo progetto Renzi dedichi un impegno deciso.
“L’unica speranza è nei proletari”.
La Redazione