OSSERVATORIO ECONOMICO

serie II, n. 26, marzo 2014

Commercio – I dati sono aggiornati al 2012 (“Il Sole 24 ore”, a. 159, n° 53, 23 febbraio 2014, p. 9) e da allora possono avere subito delle modifiche che rendono ancora più chiare le tendenze. Le quote del commercio internazionale vedono ancora un testa di un soffio gli USA (19,5%) contro il 19,3% dell’UE nel suo complesso.
All’interno di quest’ultima primeggia ovviamente la Germania (3,8%), seguita dalla Gran Bretagna (2,8%) e dalla Francia (2,7%); viene poi l’Italia con il 2,2% (come il Messico). La vera novità però viene dalla Cindia.
La Cina copre da sola il 14,7% del commercio internazionale e, vista la vistosa crescita degli ultimi anni, non è difficile credere che a breve effettuerà il sorpasso. Nel frattempo l’India (5,7%) ha operato il proprio sorpasso nei confronti del Giappone (5,5%). Le due nazioni insieme coprono più di un quinto dell’interscambio mondiale e si collocano, così, già al primo posto.
Lavoro – Il tema del giorno è il cuneo fiscale che pesa sul costo del lavoro dipendente e sicuramente il gravame fiscale sul lavoro in Italia è altissimo. La vicenda Electrolux, d’altra parte, ha riproposto il tema del decentramento produttivo verso quei paesi che presentano un costo del lavoro per ora lavorata enormemente più basso di quello vigente in questo paese. Alcuni dati presentati da “Il Sole 24 ore”, a. 159, n° 32, 2 febbraio 2014, p. 19, ci consentono alcune utili considerazioni. La prima concerne il confronto con i paesi più simili all’Italia: Francia e Germania. Dal 2002 al 2012 il costo del lavoro per ora lavorata è cresciuto da noi più che nella altre due nazioni: 84% contro il 72% della Francia ed il 66% della Germania; ma, nonostante ciò, in valore assoluto l’ora lavorata in Italia costa sempre meno che negli altri due concorrenti: 34,2 $/ora, contro i 39,2 della Francia ed i 45,8 della Germania.
Come abbiamo visto poco sopra questa differenza a favore dell’Italia non impedisce che Francia e Germania ci sopravanzino nella ripartizione del commercio internazionale. Risulta evidente che l’elevato costo del lavoro non è un handicap tale da impedire una buona collocazione nel settore delle esportazioni, o per lo meno non l’unico fattore in grado di determinare il grado di competitività di un sistema produttivo. E veniamo ai paesi in cui si trasferiscono le produzioni per sfruttare una condizione di vantaggio determinata dal basso costo della forza lavoro. Le relative quotazioni sono da brivido, al solo pensiero di poter rendere i salari del nostro paese così bassi da poter essere concorrenziali con esse: Polonia 8,3 $/ora, Turchia 3,7 e Cina 3,0. Anche
in questo caso ci sono aspetti di un certo interesse.
Il basso tenore del costo della vita in quei paesi è sicuramente un fattore non trascurabile nel formare il costo della forza lavoro. Ma un altro fattore che concorre alla determinazione sia del costo della vita sia di quello del lavoro è la bassa conflittualità e l’assenza di una coscienza sindacale dei lavoratori. Ma il gioco comincia a presentare dei limiti. Portare le produzioni in quei paesi, come ad esempio nelle zone speciali create nella Cina per attrarre i capitali di investimento esteri, inizia a diffondere un certo benessere, a creare un abbozzo di classe operaia ed, in ultima analisi, a porre le basi per delle rivendicazioni crescenti da parte dei lavoratori. Sono queste le ragioni per le quali il costo dell’ora lavorata, pur permanendo tuttora a livelli bassissimi in quei paesi, ha avuto un’impennata vistosa nel decennio 2002-2012: 102% in Polonia; 159% in
Turchia e addirittura 330% in Cina.
Export – L’Italia ha sempre avuto una vocazione esportatrice, una vocazione che la crisi sta accentuando. Con il mercato interno in forte sofferenza (ed ogni forma di “spending review” o di “fiscal compact” tende a renderlo sempre più asfittico e quindi a peggiorare la congiuntura), le uniche aziende che hanno respiro sono quelle che riescono a penetrare nel marcato estero. Le previsioni del Gruppo SACE (Società di Assicurazione
sul Commercio Estero), riportate su Il Sole 24 ore, a. 159, n° 71, 13 marzo 2014, p. 47, sono molto incoraggianti in questo senso: a fronte di una diminuzione dello 0,1% nel 2013, viene previsto un aumento del 6,8% nel 2014 ed un aumento medio del 7,3% medio nel quadriennio 2014-2017, fino a raggiungere un volume di affari verso gli altri paesi di 539 miliardi di €. Tanto ottimismo si basa sulla convinzione che se la crisi, ben
lontana dall’essere alla fine nel nostro paese, sia invece ormai al tramonto nel resto del mondo.
In particolare viene annunciata la ripresa negli Stati Uniti d’America, ma soprattutto nei paesi emergenti quali Cina, Brasile, Emirati Arabi e MINT (acronimo che sta per Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia). La visione così rosea sembra in parte contraddetta dalle notizie recenti sulla bassa congiuntura statunitense e sul
rallentamento della crescita dell’economia cinese. Quello che interessa, però, analizzare non è tanto il dato globale, quanto i settori produttivi in cui l’export italiano dovrebbe avere i maggiori successi ed i paesi verso i quali di orienterebbe. Per il primo punto non è sorprendente constatare che il settore di maggiore sviluppo è quello “alimentari e bevande” (+8,9%), ben supportato da “altri agricoli” (+8,4%), mentre non
conoscono difficoltà altri settori tradizionali, quali “apparecchiature elettriche” (+8,8%), “meccanica strumentale” (che comprende i robot di cui l’Italia è uno dei leader mondiali) (+8,8%) e “tessile e abbigliamento” (+7,0%). Anche settori che generalmente sono considerati ormai tramontati non dovrebbero invece segnare difficoltà; “chimica” (+6,6%) 3 “gomma e plastica “ (+5,6%).
Un punto non del tutto chiaro del rapporto SACE è invece quello relativo ai paesi verso i quali si dovrebbe orientare l’export italiano con una crescente penetrazione in quei mercati; accanto alle aree già aperte ai prodotti italiani, se ne profilano di nuove, a volte un po’ troppo fantasiose. Facciamo alcune esempi: nel quadriennio in esame, dovrebbe aumentare del 4,6% l’export di prodotti chimici verso la Germania (mentre non
stupirebbe un aumento del 10,9% dei prodotti di abbigliamento verso la Russia); dovrebbe aumentare dell’8% l’afflusso di alimentari e bevande in Francia; risulta più credibile invece l’aumento dell’export della meccanica strumentale verso la Russia (+9,3%) e la Thailandia (+7,9%). Tra i mercati di nuova acquisizione sono segnalati, tra gli altri Angola (+12,1% di alimentari e bevande), Arabia Saudita (+14,9% di tessile e
abbigliamento) ed Emirati Arabi Uniti (+11,8% di apparecchiature elettriche). Non tutti questi mirabolanti aumenti sono certi, ma quello che suscita più perplessità, vista l’attuale congiuntura geopolitica, è quello dell’11,7% di meccanica strumentale verso l’Ucraina.

chiuso il 18 marzo 2014
saverio